1953 - Hemingway vince il Pulitzer con "Il vecchio e il mare"
Io purtroppo non sono (ancora) riuscita a creare un feeling con Ernest, il libro in questione l'ho letto (e credo sia l'unico suo finora) ma preferisco lasciare la parola o meglio la tastiera
a qualche suo ammiratore in grado di celebrarlo come merita
.
La prosa di Hemingway era tanto semplice quanto articolata e complessa era la sua personalità. Pensateci: scrivere facile di cose difficili, quando tanti fanno il contrario. Altrove parliamo di pilastri della letteratura del XX secolo, per me lui lo fu, inventò uno stile, quello asciutto e lineare chiudendo l’ampollosità (talvolta retorica) di molti grandi del passato.
Come i “maledetti francesi” rovesciarono il tavolo della semantica poetica, così fece Hemingway con la prosa.
Aveva un carattere molto particolare e “il vecchio e il mare” è un romanzo altrettanto particolare, che non mise tutti d’accordo. Ancora oggi divide critica e pubblico. A me personalmente è piaciuto moltissimo, credo di averlo letto due o tre volte.
Narra il viaggio, forse l’ultimo, di un vecchio che insegue il suo personale destino. Con tenerezza e caparbietà.
La storia è quella del vecchio Santiago, vecchio in tutto, vecchio nelle mani, vecchio nei lineamenti, vecchio nella schiena e nella pelle. Consumato dal vento e bruciato dal sole. E stanco, molto stanco. Non pesca più niente da ottantaquattro giorni, e il suo giovane compagno non esce più in mare con lui.
I genitori glielo hanno proibito, perché il vecchio è un fallito, molto meglio dunque andare in mare con i pescatori che pescano per davvero. Quelli che hanno successo.
Ma lui, Manolo, vuole bene al vecchio, perché sebbene le rughe, le mani, i lineamenti, la schiena, la pelle e l’anagrafica dicano il contrario, in realtà il vecchio è giovane. Lo dicono i suoi occhi.
Santiago prende per l’ennesima volta il mare, abbandona il porto, tutto solo sale sulla sua barca e si lascia alle spalle quei pochi posti che ancora lo legano alla terraferma: il bar e la sua piccola stanza.
Alla lenza abboccherà finalmente un grosso pesce, ma il vecchio farà i conti di quanto ricaverà dalla vendita della carne ancor prima che l’animale abbia abbandonato la lotta. Una lotta straordinaria, che durerà giorni e giorni: il vecchio dormirà a tratti attaccato alla lenza, perché di mollare la preda, anche se solo per un attimo non se ne parla nemmeno.
Albe e tramonti si susseguiranno e il vecchio avrà tutto il tempo per chiedere scusa all’amato pesce, così simile a lui. Nuotatore imperterrito, lottatore indomito, benché la vita gli stia sfuggendo di mano.
Una lotta tra due esseri che sanno di aver ancora poco da vivere, ma non per questo rinunciano alla vita. Un libro sulla stoicità, sulla semplicità, sull’amore, sulla morte. Il pesce capisce l’esigenza del vecchio e il vecchio capisce l’esigenza del pesce. Vivere e amare la vita.
Alla fine, stremato, il vecchio riuscirà ad ammazzare il suo amico pesce, il quale trainato dalla barca verrà mangiato, in sequenze ripetute, dai pescecani. Da coloro che si nutrono degli sforzi altrui, da coloro che non hanno rispetto per gli sconfitti, da coloro che deridono i vecchi dagli occhi scintillanti.
Arriverà al porto che del grosso pesce rimarrà solo la lisca e la testa, ma lui, il vecchio, non ha perso. Per il semplice fatto che chi si illude di vincere la partita contro la morte ha già perso in partenza -e lui non si è illuso- e perché chi non si mette mai in gioco, chi non si mette in viaggio per paura, non avrà mai la forza di vivere per davvero.