I Concorso letterario: I racconti

Stato
Chiusa ad ulteriori risposte.

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Eccoci finalmente al thread più atteso, quello dei racconti :YY

I racconti che hanno partecipato sono i seguenti

Tema del concorso: I vicini di casa

Racconti partecipanti:

  • Calandrina di Anonimo
  • Il morso dello zio di F. Michaj
  • Pianerottolo dantesco di Peruru babbarebbe
  • Una sirena di Grecale
  • Vicini vicini di Anonimo
Racconto 1° classificato:

Calandrina di Anonimo

premiato con la Corona d'alloro di Forumlibri

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Il 2° classificato è il racconto Il morso dello zio di F. Michaj

al quale va come premio la Stella d'oro

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agli altri tre racconti: Pianerottolo dantesco di Peruru babbarebbe, Una sirena di Grecale, Vicini vicini di Anonimo

le nostre migliori Stelline

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skitty

Cat Member
Complimenti a tutti i luccicanti scrittori! :YY
Elisa, che brava, non lasci indietro neanche un dettaglio! :)
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
questi i protagonisti del nostro concorso


Scrittori partecipanti: GermanoDalCielo, Dory, franceska, Shoofly, Dorylis.



Giuria selezionata: darida, Sopraesistito, Bianca, skitty, Ira, Patrizia, Minerva.


:YYTra poco toccherà a voi tutti leggere e valutare i racconti :YY

tra non molto i racconti verranno postati senza citare chi l'ha scritto, se qualcuno volesse cimentarsi nel totoautore
 

asiul

New member
Io non sono per il totoautore, non prima d'averli letti.Voglio dare la giusta importanza ai racconti e non trattarli come cavalli da corsa. :roll:

Complimenti a tutti i partecipanti... :)
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
chiedo a tutti di aspettare che io posti tutti e cinque i racconti, poi questo 3d verrà chiuso e se ne aprirà un altro per la giuria popolare. Grazie
 

Dory

Reef Member
..tra non molto i racconti verranno postati senza citare chi l'ha scritto, se qualcuno volesse cimentarsi nel totoautore
[/CENTER]

Avrei voluto sentire le idee di franceska a proposito del totoautore..ma dov'è?
Ehi Fraaa...... :boh:

Comunque si potrebbe forse aprire una discussione apposita per il totoautore dove ognuno scrive tutti i titoli dei racconti, assegnando ad ognuno il nome di chi ritiene l'abbia scritto. Magari lasciamo una settimana o qualche giorno di tempo per leggere i racconti e fare la propria scommessa, dopodiche mi potrei incaricare io di raccoglierle tutte e fare una sorta di conteggio finale, per esempio su quale sia il nome più gettonato per ciascun racconto.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
chiedo a qualcuno della giuria se può postare i racconti, uno per post, perchè non so come mai ma non riesco a copincollarli :boh:

è il bello della diretta :)
 

Sopraesistito

Black Cat Member
CALANDRINA di Anonimo

La signorina aveva sempre freddo. Usciva di casa di soppiatto, con quella sua faccia bianca e livida dai contorni sfuggenti... pareva incipriata con polvere d’elitropia.
Così la soprannominai Calandrina.
Era arrivata a novembre, Calandrina, insieme al brutto tempo, alla pioggia, alla noia. Avevo cominciato ad interessarmene forse proprio per il suo aspetto vago, indefinito, opaco come la nebbia. Cosa faceva in quell’appartamento quando vi si chiudeva dentro? Cosa faceva quando ne usciva?
Tutte le notti la vedevo sola e assorta, restava immobile, per ore, dietro ai vetri della finestra, l’unica che dava sul cortile, accanto a quella dello studio Peletti. Erano odiosi i Peletti. Più la moglie o più il marito? Forse lui, col suo cane lardoso che abbaiava per niente e non sentiva mai ragione di starsene un po’ zitto.
Calandrina era diversa da tutte le creature che avevo visto prima di lei. La notte, dicevo, se ne stava alla finestra per un tempo interminabile, alle sue spalle il buio più completo. Ne intuivo la presenza perché quel suo volto impossibile sembrava illuminato dai suoi stessi occhi bianchi. Mi appariva come un corpo stranamente sospeso nella sostanza di quel riquadro scuro, un corpo sfuggente, piatto, che niente sembrava collegare al mondo in cui mi trovavo io. Ad un certo punto piegava la testa, sembrava volesse sporgersi un poco in avanti, poi portava le mani alla bocca come per pregare. Era il solito gesto che le vedevo fare da settimane, quello con cui scaldiamo dita e naso infreddoliti soffiando calore tra le mani giunte. A volte avevo l’impressione che mi guardasse. Restava così per altri tre o quattro minuti ad annusare la notte, poi si ritirava con calma nel silenzio della sua stanza.
Durante il giorno non usciva quasi mai, la vedevo piuttosto dopo il tramonto. Ma stava fuori poco. Ogni tanto qualcuno veniva a farle visita. Erano persone sempre diverse, di tutte le età, e nessuno arrivava mai in compagnia bambini. Stavano dentro un’oretta circa, talvolta anche di più. Molti di loro, quando uscivano, avevano il volto contratto, qualcuno si copriva gli occhi lucidi e arrossati come se volesse mascherare il fatto di aver appena pianto. Si allontanavano lenti e ingobbiti, sembravano frenati da forze sotterranee o da pesi opprimenti, difficili da trascinare.
Solo una donna vidi sorridere mentre si chiudeva alle spalle il portone di Calandrina. Aveva un’espressione sognante e imbambolata, era giovane, biondina, e continuava a baciare una medaglietta che portava appesa al collo.
***
“Chi c’è?”
“Sono io.”
“Io chi?”
“...”
“Come ti chiami?”
“Alberto”.
“Alberto, perché sei qui?”
“Non lo so.... Vorrei parlarti.”
“Posso sedermi?” Calandrina m’indicò una poltrona di vimini che si trovava in mezzo alla stanza, proprio accanto al suo letto. Intorno un’atmosfera cupa e verdognola rendeva ogni cosa faticosamente percettibile. Era come se mi fossi immerso ad occhi aperti in una piscina torbida di alghe ed acqua salata. Indovinavo solo il profilo di lei, in piedi, illuminata dalla luce traballante di una candela gialla accesa su un tavolinetto. Solo lei respirava in quella stanza. Molto sommessamente, sì, respirava quell’aria spessa di incubi: li vedevo mentre volteggiavano filamentosi attorno alla sua figura esile e chiara. Sembrava volessero strapparle i capelli con le loro lunghe zanne.
Calandrina restava immobile con il braccio teso verso la poltrona. Continuava a fissarmi muta, le sue labbra erano ridotte ad un puntino nero e sfocato.
“Certo. Siedi pure.”
“Quanti anni hai?”
“Tredici e mezzo.” Mi piaceva essere preciso.
“Non sai perché sei qui?”
“Voglio parlare.”
“Va bene. Parliamo.”
Era calma, ma un velo stridente e sottile inframezzava fastidiosamente il suono delle sue parole, indicandomi che in un angolo del suo essere c’era allarme.
“Alberto, lo sai che non dovresti essere qui vero?”
“N...no, non ci vedo niente di strano. Ti osservo da mesi ormai. Sei strana.”
Mi fece un sorriso benevolo.
“Eh sì... questo lo so anch’io... so bene di essere strana. E non solo per quelli come te.”
Che dialogo... Mi sentivo agitato come un pesciolino in olio che frigge.
“Il tuo posto è altrove. Io posso aiutarti, ma prima devi seguire le mie indicazioni.”
“Spiegami allora.” M’inventai un sorriso, il migliore che mi venne in mente.
“Cosa facevi prima di incontrare me?”
Oh, noo... Quella domanda mi ferì il cervello come una lama. Mi sentii dolorante, da capo a piedi. Ebbi voglia di sdraiarmi a terra, rotolare, allungarmi, gridare, graffiare, urlare....
Lei restava seduta e ferma, mi guardava, si scaldava le mani soffiandoci sopra e stringendosi nel pesante maglione color... non so di che colore fosse. Ad un tratto si alzò e mi venne vicino. L’aria intorno aveva assunto una consistenza lanosa e soffocante.
“Come è successo?”
“Sono stato rapito.”
“Cosa ricordi?”
“Mi ha preso. Stavo tornando a casa dopo la lezione di pianoforte. Ero stato dal maestro Diego. Tu lo conosci?”
“Sì, lo vedo spesso.” Accennò un sorriso dolcemente triste e guardò in alto come se aspettasse di vedere la figura del mio maestro comparire sul soffitto. “Abita a due isolati da qui. Chi ti ha rapito?”
“Un uomo. Non so chi fosse. Si è fermato per chiedermi informazioni su.... non so, non ricordo più.”
Improvvisamente cominciai a piangere. Senza rumore nè lacrime da nessuna parte. Più mi sforzavo di ricordare più il buio soffocava e stringeva la mia mente impedendomelo.
Poi un dolore al collo, profondo, opprimente... mi sentii sbattuto contro la parete da una forza invisibile. Mi accasciai a terra come un palloncino sgonfio, premendomi la pancia dove mi sentivo colpito come da una raffica di calci potentissimi e incessanti.
“Aiuto....”
“Non preoccuparti. Sono i tuoi ultimi ricordi. Abbandonali. Lascia che se ne vadano. Tu sei oltre, adesso.”
“Come?? Sto malissimo.... aiutami...”
“Ti sto già aiutando. Vieni verso di me... perché mi chiami Calandrina?” Pronunciò quel nome in modo dolce e piano, come una mamma che racconta al suo bambino fiabe inventate sul momento.
Come faceva a sapere che io la chiamavo in quel modo?
“Perché sei così sottile e bianca da sembrare quasi invisibile. Come un’ombra. Come se ti fossi nascosta grazie ai poteri di una pietra magica. E’ una storiella che ci ha letto la professoressa Pavini a scuola.”
“Alberto, vieni verso di me. Lo vedi questo?”
Sì, vedevo... era una sfera gialla e luminosa, con una nocciolina più chiara al suo interno che pulsava debolmente al centro del suo petto. Sentii all’improvviso che aveva un potere attrattivo fortissimo.
Mi mossi verso di lei.
“Non fermarti e non avere paura di ciò che potrebbe accadere toccandola...”
Procedevo. Tutta l’angoscia, il dolore, la paura che mi aveva pervaso in quegli ultimi momenti stava prendendo una direzione nuova, si allontanava da me. Quella nocciolina inquieta mi stava dando un impercettibile saluto, guidandomi verso un puntino remoto, una nota senza colore, assolutamente amichevole.
...

“Ciao Alberto... la tua mamma e il tuo papà ti vogliono bene. E anche io.”
Ilvia appoggiò un mazzetto di margherite accanto all’enorme vaso di pietra pieno di garofani bianchi.
“Lo hanno preso ieri. Ne ha uccisi altri tre. Tu ed io sappiamo che non è vero. Sono otto. Gli altri cinque li ha gettati nel recinto. Uno dopo l’altro, nell’arco di due anni. Sarà difficile farmi credere dagli investigatori, ma se riuscirò a convincerli ad ispezionare a fondo l’allevamento di Colleluco troveranno le prove necessarie. Tra poco dovrò andare.”
Indietreggiò di pochi passi, sbirciando l’orologino che aveva al polso. Poi sorrise, puntando lo sguardo altrove. C’era un’atmosfera rarefatta intorno, di una luminosità sfumata e a tratti accecante, come il dolore trattenuto a stento. C’erano uccelli muti che frusciavano tra i rami di pino bagnati, c’erano i passi di una vedova, il risolino lontano di una bimba, il gelo delle ombre in attesa dietro alle siepi di pitosporo.
“Alle tre ho un appuntamento con il tuo maestro di pianoforte: ora viene tutti i giorni a farsi leggere le carte per sapere se presto troverà un’altra fidanzata.” Scosse leggermente la testa, pensando a lui non poté impedirsi di arrossire. Era bello, un po’ strambo, camminava con un passetto bizzarro ed aveva una voce buffa, inconfondibile. “Hai una voce.... da prete!” Gli aveva detto Ilvia sorridendo mentre lui aveva tentato malamente di attaccarle bottone davanti al bar vicino casa. Lui ne era rimasto un po’ offeso all’inizio ma aveva continuato ad esibirsi in arguzie innocenti e maldestre, tanto che Ilvia aveva finito con l’accettare l’invito per un caffé.
“Io so che non crede per niente a queste cose. A volte mi fissa con aria di sufficienza come se avesse a che fare con una matta da assecondare. Viene soltanto perché ora da me si sente di nuovo bene. Non sa che la prossima sarò io. Non glielo dirò. Lo scoprirà da solo, stasera, prima di tornare a casa, durante uno dei suoi giri in macchina in cerca di un piacevole nulla. Poi domani tornerà da me, portandomi in dono “Semplicità insormontabili”, uno dei suoi libri preferiti. Sopra ci troverò una dedica scherzosa con la quale vorrà farmi capire di essere mio, senza condizioni.” Gli occhi di Ilvia si muovevano intorno come per seguire quella scena girata in anteprima, solo per lei.
“Sarò la prossima ed ultima.” Il sorriso le si spense miseramente sulle labbra mentre si piegavano all’ingiù.
“Come vorrei sottrarmi all’inevitabile, nascondermi dietro una pietra magica che mi renda invisibile ai dispiaceri. Il lato peggiore della mia condizione è proprio nell’esser destinata a soffrire in largo anticipo le sventure che mi toccheranno. Tra undici mesi lo perderò.” Si coprì gli occhi con una mano, come per schermare qualcosa di troppo brutto da mostrare al mondo, qualcosa che solo lei poteva già vedere.
“Alberto, vorrei che mi facessi un regalo speciale: verrai tu a prenderlo quando sarà il momento? Io non potrò aiutarlo come ho fatto con te. Prometti... ti prego. ”
In quell’istante iniziò a nevicare. Alcuni coriandoli di brina presero a volteggiare allegramente intorno alla sua testa, come agitati da un frullo di ali invisibili. Ilvia si portò le mani al viso, l’una contro l’altra, per riscaldarle soffiandoci in mezzo.
“Promesso”.
 

Sopraesistito

Black Cat Member
Vicini vicini di Anonimo

Parte 1_ La finestra sul cortile

La vecchia casa padronale non aveva più il suo “regno” intorno. Povera casa eh! Quante volte il nonno mi aveva raccontato degli sterminati campi che la circondavano? Dei cavalli, delle mucche e dei porcellini scorrazzanti nei vari recinti? Dopo la prematura morte del nonno tutto fu perduto. O meglio venduto, cominciarono a spuntare tanti funghetti velenosi intorno alla vecchia Madama, la signora delle case. Leggermente fatiscente ma ancora imperiosa nella sua maestosità, con il suo lungo porticato ancora si distingueva nel quartiere, fra tanti condomini popolari. Il più recente di questi ospitava dagli otto ai dieci bilocali, ognuno di essi con la sua brava finestra sulla Madama. Era una vera finestra sulla vita di Casa Madama! Noi ci abitavamo ancora nella vecchia grande casa, gente semplice ma dal portamento fiero. Chi non ricordava in paese la ricchezza del nonno, il primo possidente dei tempi andati? Sono nipote di proprietari terrieri. Avrei potuto essere ricchissima. Poco importa!
Non ho mai conosciuto la ricchezza ma non la rimpiango, sono felice così! Correre nel giardino in bicicletta, farsi inseguire dal cane, saltare la corda.. queste erano le mie uniche preoccupazioni ! Del resto la scuola era finita da poco, una lunga estate mi attendeva! Dall’altra parte restava un punto interrogativo, la tanto sospirata scuola media. Che scocciatura! Perché bisognava crescere e andare a scuola, al lavoro? Io volevo restare per sempre in quel giardino di giochi infantili.
Stavo per l’appunto tirando sassi al secchiello che avevo lasciato in giro l’altro giorno quando sentii una voce che mi chiamava:
“Ehiiiiii, piiiiiiccola!! Sono qua, girati!”
Mi voltai, ed ecco una signora sui quarant’anni dalle guance pienotte comparire dalla finestra più bassa del palazzone di fianco alla Vecchia Madama. Mi guardava sorridente, ma a me non piaceva quel sorriso. Aveva un che di lucido. Era come ripassato, tirato fuori per l’occasione, non era reale!
Mi alzai dalla brandina che mi ero trascinata fuori e mi avvicinai con fare guardingo.
Non ero proprio il ritratto della pulizia, ginocchia nere, guance impiastricciate ancora dalla nutella mattiniera. Mia mamma ormai deve aver perso le speranze con me, continua a ripetermi sconsolata che quella volta voleva una femmina, non un maschiaccio come me. Io ho altri due fratelli, ma uno è troppo grande per giocare con me, l’altro troppo piccolo, sempre attaccato alle gonne della mamma. In effetti, Lassie era l’unico compagno di giochi. E questa signora che non conoscevo.
Non si sa mai, magari vuole tirare anche lei un sasso, non sono tipo da rifiutare certe offerte!
“Piiiccola, come ti chiami? Io sono Fiorenza, ma puoi chiamarmi signora Fiore, simpatico vero?”
La guardai. Ci pensai e poi risposi: “Io sono Anna Carla, ma puoi chiamarmi semplicemente Anna”
“Ooooh, che carina con quelle treccine! Penso proprio che ti chiamerò Carletta!”
Annuii poco convinta. Lei continuava a parlare a raffica di come si era appena trasferita qui, del marito barbiere che aveva appena aperto bottega e del figlioletto, quel benedetto figlioletto che stava sempre chiuso in casa a leggere e a guardare la Tv.
“Ehi, Carletta, avresti voglia di giocare con Nicolino?”
Non conoscevo questo Nicolino ma l’idea di giocare con un mio coetaneo mi entusiasmava!
“Certo signora Fiora, mandamelo fuori che gli faccio conoscere pure Lassie, il mio cane!”
“Ehm Carletta, devi sapere che Nicolino è un bambino beneducato, non penso che gli piacciano i cani! Per fortuna direi, altrimenti mi tornerebbe sempre a casa liso! Ma tua mamma cosa dice che sei così in disordine? Non si fa sai, ormai sei una signorinetta!”
“Mia mamma lavora tutto il giorno, e quel poco tempo libero che ha lo dedica a Giacomo, il mio fratellino. Mio papà, poverino, non c’è tanto con la testa.”
“Ma come? Corre dietro alle donne?”
“No, no, solo che.. non so come spiegare, ha fatto un “ittuss” (non so bene cosa sia, sembra veramente una brutta cosa!) e da allora è diverso da una volta. Mangia, parla, va al bagno come tutti ma non è più lo stesso. Ha perso la memoria e secondo mia nonna anche la ragione.”
“Oh, mi dispiace piiiiccola! Cercherò di parlare con tua mamma, forse ha bisogno di aiuto con Giacomo!”
“Non c’è solo Giacomo, ho anche un fratello più grande, Marcello. Lui studia un sacco, è andato a vivere dagli zii. Quando lo incontro per strada è sempre vestito in maniera elegante, mi guarda con disprezzo. Uffa, non so cosa sia cambiato rispetto a una volta!”
“I soldi cara, ecco cosa è successo! Questi zii sono ricchi?”
“Non lo so.. Però Marcello gira sempre con i macchinoni, quindi penso di sì!”
Finché stavo parlando, mi chiamò mia mamma. Era appena tornata dal lavoro. Per fortuna c’era mia nonna a preparare da mangiare, altrimenti avremmo sempre mangiato tardissimo!
“Arrivederci, signora Fiora devo andare!”
“Aspetta piiiccola, chiamami un attimo tua mamma”
Mia mamma sentendosi chiamata in causa si avvicinò alla siepe che separava le due abitazioni. Era una donna forte, alta ed energica.
“Buongiorno signora, ci siamo incontrate l’altro giorno al panificio, si ricorda? Era con Nicola. Vedo che ha appena conosciuto mia figlia!”
“Certo cara che mi ricordo! Sua figlia mi ha raccontato un sacco di cose interessanti.. Ha pure il marito mezzo matto? Oh, come mi dispiace!”
Mia mamma ne rimase leggermente colpita.
“Eh, è successo, purtroppo non si può far nulla.. Dai Anna che la nonna ci aspetta per mangiare. Arrivederci signora!”
Eravamo ormai entrate in casa quando mia mamma mi afferrò per una spalla:
“Non dire più niente a quella signora, parla male di tutto e tutti, è una pettegola malefica!”
“Cos’è una pettegola?”
“Una persona che vuole sapere le cose tue non per aiutarti, ma per poterne sparlare a suo piacimento!”
“Oh!” Ci ripensai, ecco come avrei potuto chiamarla, signora Impicciastorie!
“Ma io posso lo stesso giocare con suo figlio?”
“Certo cara, ma per me non ti piacerebbe, troppo pulito!”
E con una manata mi scompigliò i capelli e cominciò a farmi il solletico. Mia mamma è una grande!
A tavola eravamo in quattro, io, mia mamma, mia nonna e mio papà. Giacomo dormiva ancora nel suo lettino. “Sempre quella sbobba” ripeteva mio papà agitando in aria il pugno. La nonna ormai era rassegnata, non c’era mai niente che gli andasse bene! E dire che in tavola c’era di tutto, insalata, carne, melanzane alla parmigiana, patate al forno. Eh sì, a volte mio papà poteva sembrare completamente pazzo! Gli unici momenti in cui lo vedevi felice era quando si metteva su la musica e cantava, cantava a squarciagola, con tutta l’anima.
“O soleeeee mioooooo” e io gli facevo da contralto. Che bei momenti! Mia mamma dice che quando l’aveva conosciuto era un ballerino nato. A quanto pare anche un bravissimo cantante, meglio del mio papà non ce n’erano!
“Mamma, ma Marcello perché non viene mai a trovarci?”
“Eh, lui deve studiare tanto. Gli zii gli pagano la scuola ed è giusto che si impegni.”
“Anch’io dovrò studiare tanto?”
Ero preoccupata all’idea. Avevo appena finito di mangiare, presi palla e guinzaglio di Lassie.
Saremmo andati a fare una passeggiata per il quartiere. Era caldo, ma poco importa, volevo godermi le vacanze. Lassie mi seguiva felice, ci avviammo verso il parco giochi. C’era qualche albero e pure la possibilità di sedersi sulle panchine sgangherate.
Vidi un bambino in disparte su una panchina, aveva un libro in mano. Inutile dire che ero troppo curiosa di sapere che libro fosse. Io sarò stata un maschiaccio, avete ragione, ma concordate con me sul fatto che i libri di avventura sono troppo belli? Aveva in mano un libro di Salgari. Non riuscii a trattenermi:
“Beeeello, l’ho già letto! Chi è il tuo personaggio preferito? Non dirmi che è Sandokan perché quello è mio!”
Il bambino biondo si girò a guardarmi con aria di sorpresa. Non si era accorto che qualcuno si avvicinava e che quel qualcuno per di più aveva un cane che gli saltava addosso.
Lassie era partito alla carica e leccava a più non posso la faccia del povero bambino.
“Ah, ah buono Lassie! Non è ancora giunto il momento di diventare la tigre della Malesia con questo qui! Io sono Anna e tu chi sei?”
Il bambino sgranò gli occhi:
“Ma è cattivo?”
“Certo che è cattivo, ha appena cercato di ucciderti con una leccata, non hai visto?”
Il bambino sembrava veramente preoccupato, a un certo punto si allontanò di fretta e furia.
“Ehi, hai dimenticato qui il libro!”
Mah, certo che ce n’era di gente strana al mondo! Avere paura di Lassie! Oh, è il primo bambino che incontro che ha paura dei cani.. Che sia Nicolino? Allora vado a portare a casa sua il libro visto che se l’è dimenticato! Sono curiosa di vedere la casa della signora Impicciastorie.
“Su Lassie, andiamo!”

Parte 2_ Le invasioni barbariche

Era trascorso un altro anno, eravamo nuovamente in estate. Ora ero una donna, fra due mesi andavo in seconda media. Strano ma vero, avevo sempre le gonne adesso, appena sopra il ginocchio. Mi toccava la divisa scolastica, ogni giorno!
La signora Impicciastorie ogni volta che mi vedeva uscire di casa con la cartella in mano e la gonna sistemata alla meglio come se la rideva! Negli occhi un divertimento consapevole della mia goffaggine. Ah, santa pazienza! Adesso qui in cortile ci sono troppi maschi, mi sento diversa con questa stramaledetta gonna! Eravamo io, Nicolino (l’ho ritrovato a scuola, nella mia stessa classe) e Marcello, di tre anni appena più grande. Marcello era tornato a casa, mia mamma aveva trovato un lavoro remunerativo, andava ad aiutare sempre una signora decrepita. Speriamo che campi, va là! Non si sta affatto male così!
Mia mamma e la signora Fiore (non l’avreste mai detto) erano diventate amiche. Ormai parlarsi da un lato all’altro della siepe era cosa di tutti i giorni. La signora Fiore per di più aiutava spesso mia mamma con Giacomo finché lei doveva badare a mio papà. Sembrava una cara persona, forse con una lingua troppo lunga! Al momento il rischio di finire sulla bocca di tutti era molto concreto, ma per lo meno si aveva in cambio una sincera amicizia e veri aiuti concreti. Sarebbe stato raro trovare una persona che si offrisse così gentilmente in ogni momento della giornata!
“Anseeeeelmoo! Anseeeelmo amore, posa quei “bisturi” da barbiere e vieni a mangiare! Nicolino, orsettino di mamma, è pronto!”
A quel punto Nicolino che stava impersonando un generale dall’aspetto fiero e risoluto ritornava nei panni del ragazzino colto in fallo. Era diventato tutto rosso. Io e Marcello ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere.
“Vai vai, orsettino di mamma altrimenti il miele finisce!”
Nicolino ci fece un gestaccio e scappò via. Per la fretta inciampò e si sbucciò un ginocchio. Partirono così i lacrimotti.
Marcello rideva sguaiatamente, io non sapevo che fare. Mi avvicinai a lui e lo aiutai a rialzarsi. Dalla rabbia di essere stato visto piangere da una femmina, mi spinse via ed entrò in casa.
“Marcello, hai sbagliato a ridere, adesso sono guai!”
D’infatti alla sera comparve la signora Fiore..
“Signora, i suoi figli sono veramente maleducati, ridono del mio Nicolino!”
Mia mamma solitamente se la cavava con piccoli favori. Anselmo, il marito della signora aveva una macchina nuova fiammante, e il suo grande incubo era quello che venisse rovinata dalla grandine. Giusto, perché la grandine viene ogni santo giorno! Ma che siamo, in un’apocalisse? Beh, mia mamma concedeva loro la possibilità di usare il nostro garage, così, per ricambiare la gentilezza della signora Fiore. Non l’avesse mai fatto! Cominciò l’epoca dell’invadenza, favori a nastro.
“Signora, può tagliare la siepe che non vedo il vostro giardino?”
“Signora, può prestarmi il frullatore?”
“Signora può mio marito parcheggiare da voi anche il furgoncino?”
Fosse questo il minimo, era l’invadenza che ci sconcertava sempre di più.
Nelle sere d’estate che eravamo seduti sotto al portico e parlavamo fra di noi, ogni volta la signora Fiore alla finestra rispondeva per noi.
Non si vedeva mai, ma puntualmente compariva quando succedeva qualcosa. Come se fosse perennemente in attesa dietro alle tende della finestra. Puf! Eccola!
Il marito della signora Impicciastorie veniva da noi chiamato Vetrata. Aveva un paio di occhiali da vista che copriva l’80% del suo viso, lasciando trapelare da sotto il naso due piccoli baffetti.
Non era un pettegolo, anzi solitamente era di poche parole. Ma quelle poche parole appena pronunciate facevano danni. Ne aveva una da dire su tutto. Mia mamma era doppiamente stressata.
Io mi tenevo Nicolino e con l’aiuto di Marcello ormai eravamo riusciti a farlo sembrare “quasi” normale. Giocava addirittura con Lassie adesso!
Leggendo questo racconto, non si capisce se sia un bene o no per noi aver conosciuto questi vicini.
Rompono le scatole è vero, ma senza di loro la vita sarebbe stata fin troppo piatta e monotona!
Ce ne erano molti altri nel vicinato, altre persone degne di un racconto. Lo spazio è poco, ma vi voglio lasciare con una felice conclusione, giusto vent’ anni dopo.
Le due case vennero unite, non c’era più una siepe. Era tutto un grande giardino, i bambini piccoli del palazzone venivano a scorrazzare vicino a casa nostra. Mia nonna sorrideva, le piaceva avere qualcuno a cui raccontare ancora le sue storie di paura. C’erano ancora la macchina e il furgoncino.
C’era ancora il portico e le sedie poste a ridosso del muro. Gli “adulti” parlavano, i miei genitori e i signori Impicciastorie. Era una conversazione banale, ma immancabile.
Io? Mi sposai con Nicolino, ora il barbiere Nicola. Mio fratello Marcello ha fatto fortuna e ha riportato la vecchia casa al suo antico splendore. Giacomo va ancora a scuola, diventerà un grande dottore, me lo sento! Fu un incontro fortunato quello con i nostri vicini, ora sono la nostra famiglia.
Un’unica grande famiglia!
Lasciate aperta la porta dei vostri cuori, chi confina con voi può entrarvi.
 

Dory

Reef Member
chiedo a qualcuno della giuria se può postare i racconti, uno per post, perchè non so come mai ma non riesco a copincollarli :boh:

è il bello della diretta :)

Elisa, potresti anche mandarli a me e li posto io... se posso...

Ops...già fatto...scusate non avevo visto.. :ad:
 

Sopraesistito

Black Cat Member
”Una sirena”

(Autore: Grecale)

Qualcosa di prepotente mi ha strattonato per riportarmi indietro, un bisogno quasi fisico di spezzare il disamore e tornare al passato. Mi sono scavato l’anima per capire cosa volevo e adesso sono qui, solo, a decidere della mia vita… e ancora non mi sembra vero.
Non ho un lavoro, non ho una casa e non ho più neanche lei, ma ho ritrovato me stesso… e non è poco!
Mi chiamo Grecale, Gre per gli amici: socievole, simpatico, bella presenza e soprattutto libero, sì libero, proprio come il mio nome.
Ho con me tele, pennelli e quel che basta per vivere; la passione per i colori riempirà la mia vita, insieme alla mia voglia di ricominciare.
Ci ho pensato mesi, anni, finché sono riuscito a liberarmi dalle “truffe legalizzate”, quelle che erano il mio lavoro, capaci di riempirmi le tasche e svuotarmi la coscienza. Suggerivo azioni fallimentari e mutui improponibili, con momenti di tale disgusto da non riuscire più a guardare in faccia le persone, e Gloria non ha mai cercato di chiarire i miei dubbi, o comprendere i miei rimorsi, troppo impegnata a soffocarmi il cuore.
Domenica, mentre preparavo le valigie, faceva finta di piangere, ma s’è illuminata quando ho detto che le lasciavo tutto: la casa, i mobili, i quadri, i soprammobili… tutto!
Ho preso l’essenziale per me e il necessario per dipingere, insieme alla chitarra, alla mia auto e a quel che è rimasto nelle mie tasche lise.
Quando mi ha accompagnato alla porta, era impegnata a inviare sms e non mi ha chiesto dove avrei dormito; non ho risposto al saluto, soddisfazione inutile, lo so! Ma mandarla a farsi fottere non l’avrebbe migliorata.
*
La prima notte in un hotel, di pessima categoria, l’ho trascorsa da schifo. Le lenzuola puzzavano e nella luce caleidoscopica delle mie palpebre chiuse cercavo la fine del tunnel. Ho pregato qualcuno, lassù, di perdonarmi, non so neppure per cosa.
Mi sono addormentato piangendo senza l’ombra d’un domani, affogato nei sogni.

“L’acqua, scura e torbida, mi avvolgeva nelle profondità marine. Ero senza forze e troppo debole per poter risalire. Non avrei resistito a lungo se le braccia di una sirena non mi avessero stretto. La sua bocca ha cercato la mia per darmi respiro, mentre possenti colpi di coda mi riportavano sempre più su… verso la luce.
Mi ha sorriso prima di adagiarmi sulla spiaggia. Io ho guardato i suoi seni turgidi e, più giù, l’estremità argentea distesa sul bagnasciuga. Mi ha baciato di nuovo, ma questa volta per offrire amore, poi s’è rituffata nelle luccicanti onde del mare. La coda di mille colori mi ha abbagliato nel riverbero del sole e gli spruzzi delle onde mi hanno svegliato.” Ero vivo!
*
Guardando la foto della casa, abbracciata da glicini e gelsomini, ho capito subito che avrebbe fatto parte di me, come quelle cose istintive che si sentono dentro, senza una ragione.
Ogni cambiamento, come ogni incontro, apre nuove strade e basta crederci per far sì che tutto si colori. La fiducia rende magica la vita; una vita che va da sé, senza una logica tangibile se non quella del fluire, e non ci resta che accettarla con speranza, confidando nel nostro istinto, o almeno, in quel poco che ancora conserviamo, e io mi son fidato.
L’agente immobiliare quando mi ha inviato l’e-mail con la descrizione del piccolo borgo di mare, mi ha assicurato che la solitudine e l’abbandono non sarebbero mancati. Lo aveva ripetuto lungo il viale, con una punta d’ironia, lo ricordo adesso, aprendo il cancello.
E’notte, la stanchezza del viaggio e il vento freddo mi fan bruciare gli occhi. Mi siedo sulla panchina gelida ad ammirar le stelle e il suono delle onde s’infrange nel mio cuore sgretolando, ad ogni sospiro, la fragile barriera di tristezza.
Entro, la casa è desolata e fredda, vorrei dipingere, ma è passato tanto tempo e i pennelli sono secchi. Li metto a bagno nell’olio di lino e questo gesto mi riporta indietro nel tempo. Prendo la chitarra e suono qualche accordo, finché non mi sale un nodo in gola che mi fa chiudere tutto e infilarmi dentro al letto… vestito.

*
Ho dormito poco e male e ogni volta che guardavo la tela bianca sul cavalletto m’intristivo. Non ho mai dipinto una tela così grande, forse ho esagerato.

Il sole inonda la stanza e insieme alla luce arrivano alcuni colpi di tosse attutiti da un fazzoletto, e un fastidioso trambusto sopra di me.
Mi metto seduto sul letto. Oltre alla tosse sento abbaiare un cane, un affrettarsi di passi saltellanti e il cigolio di una porta che si apre. E se penso che qualcuno mi galoppa sulla testa non riesco a sopportarlo.
Il tempo di strafogarmi con un caffè bollente, e salgo su per la scala esterna che conduce al primo piano. Spero di non trovare nessuno, perché sono incazzato nero.
Pensieri atroci, assassini, incendiari… pensieri disonesti e inenarrabili. Pensieri che mi vergogno anche di pensare, pensieri impossibili, questo mi ispirano i vicini di casa
“Cazzo! L’agente immobiliare è un bastardo. Mai e poi mai avrei preso in affitto una casa abitata, col proprietario tisico e un cane isterico; altro che silenzio e abbandono da dedicare all’arte! Per questo rideva il bastardo.”
La prima volta che ho visto la casa, affacciata sul giardino, mi è sembrato un sogno. Il piccolo viale, colorato di ciclamini, era tratteggiato da una fila di palme, e quando mi sono affacciato oltre la scogliera, ho visto la scaletta ripida che portava alla spiaggia… era la spiaggia del sogno. Frastornato dalla visione, non ho più considerato l’esistenza di altri piani o di possibili inquilini e ho subito accettato.
*
Busso, la porta è aperta. Mi avvicino, non sento rumori. Spingo piano l’uscio e, a bassa voce, come se potessi svegliare qualcuno, oso:
«E’ permesso?..» silenzio «C’è nessuno?..»
Mi sento un ladro, ho il terrore d’essere sorpreso e mi batte forte il cuore, ma devo pur sapere cosa succede in una casa che mi avevano assicurato deserta.
Ladri... Fantasmi?
Oltrepasso il breve corridoio ed entro in una sala illuminata dal sole. La casa profuma di caffè, insieme a quel particolare odore di legna bruciata capace di annebbiarmi i pensieri. Mi ricorda la casa in campagna di quand’ero bambino, quella dei nonni, col cesto di giuggiole sul tavolo, la pignatta dei legumi vicino al fuoco e il pane secco che irrobustiva i denti. Quanti anni son passati da quand’ero felice!
Guardo più in là il camino acceso, c’è un cesto di noci e gusci rotti sparsi intorno. Pile di libri sul tavolo e fogli sparpagliati ovunque. Do un’occhiata al portatile aperto: dal desktop un cane con un cappello natalizio mi guarda… è orribile!
Sento abbaiare e procedendo all’indietro, mi allontano in punta di piedi. Accosto la porta e scendo le scale con cautela, proprio come un ladro che ha rubato qualcosa.
Provo a chiamare l’agente immobiliare, ma scorgo qualcosa in fondo al viale, chiudo il cellulare e mi affaccio al cancello. Un cagnolino corre festoso inseguito da un gatto più grande di lui. E’ il cane del desktop, “l’orrore natalizio” che abbaia all’alba.
Giocano, saltano e si rotolano sull’erba, finché appare una figura radiosa. Il sole accende i suoi lunghi capelli, mi sorride… mio Dio, è una sirena!
I raggi del sole, che filtrano attraverso le palme, si prolungano e ne avvolgono il corpo. Il luccichio scivola lentamente dietro al suo passo, è sempre più vicina, sempre più nitida… ed è sempre più donna.
«Buongiorno, sono Chiara e lui è Jody il cane che ha abbaiato stamattina, spero non l’abbia disturbata troppo» la mano che porge trova un essere impalato, con la mandibola completamente rilassata «piacere, siamo i vicini del piano di sopra!»
Schiarisco la voce.
«Piacere» Ma non esce “piacere”, la bocca è impastata. Ho i vestiti addosso da tre giorni, non mi sono pettinato, né rasato e mi sento un cretino «Grecale!» farfuglio, e sulla “a” esce un acuto stridente. Lei fa una faccia strana allora provo a sorridere, ma è solo un tentativo. Con la solita spavalderia vorrei dire “Gre per gli amici” «Grecale… è strano, lo so! Ma è il mio nome.» Mi sento un barbone, lei sorride.
«E’ un nome bellissimo Grecale… come il pittore.» E io mi sciolgo alle sue parole.
«Buona giornata!» Pronuncia ad alta voce, salendo la scala che la porta via dalla mia bocca schiusa, ma prima di entrare si sporge dalla balaustra, spalanca gli occhi con l’espressione incredula e grida più forte che può:
«JODY!!!»
Il calore che avvertivo leggero alla caviglia, si insinua velocemente più caldo fin dentro alla scarpa, ma non ci bado… “come il pittore” ha detto, non come il vento.
*
Sto per andare a dormire quando sento alcuni colpi che arrivano dal soffitto, come un suono ritmato, un richiamo.
Corro su per le scale e in un lampo sono alla sua porta. Mi sistemo la maglia e i capelli. Sono più bello di stamattina, lo so, passo la lingua sui denti, busso.
Mi appare stupenda come un cielo stellato. Ha i capelli raccolti e due tazze in mano.
«Salve, posso offrire una camomilla? Volevo farmi perdonare per oggi. Sono davvero mortificata…»
«Ma no figurati… ehm, si figuri.»
«Ma si, va bene il “tu”. Ti va di scambiare due chiacchiere con la padrona di un cane scostumato?»
“Non aspettavo altro” vorrei dire, ma mi trattengo.
Mi siedo sull’ardesia del camino, lei di fianco a me, ho la tazza tra le mani… c’è dipinta una sirena. Non so perché, sorrido e le indico il disegno. Lei fa roteare la sua e mi mostra la figura di un cane, è uguale al suo! Ridiamo, e quando ride sposta leggermente la testa da un lato, con allegria.
Provo una sensazione strana, mi sembra di conoscerla da sempre, come se facesse parte di me, del mio destino.
«Come sei capitato qui? Cosa fai di bello?»
«Il tuo vicino di casa… e tu?»
«Scrivo romanzi, racconti, un po’ di tutto.» Le guardo le mani.
«Porti la fede, sei sposata?»
«Non più, la porto per abitudine. E tu?»
«Anche la mia era abitudine.» Ridiamo.
«Ti ho sentito suonare la chitarra stanotte, era una musica triste.» Non dico niente e sento i suoi occhi dentro di me. La spingo piano con la spalla. Sorride e lo fa anche lei con me, come due vecchi amici che hanno capito la loro intesa, più forte delle parole.
A che serve raccontare ciò che abbiamo lasciato indietro e parlare di quel che non ci piace?
Dalla tazza spuntano solo i suoi occhi, verdi, limpidi come un sogno.
Il crepitio del fuoco, e i nostri sguardi, bastano a colmare questa quiete fatta di tutto. Di tacita comprensione, di calore umano e tenerezza. E’ incredibile sentirsi così tra sconosciuti, è raro, ma a volte capita.
Si alza, porta le tazze in cucina, io non mi trattengo e seguo con lo sguardo il suo sedere tondo.
Il gatto salta sulle mie ginocchia, mi strofina la coda in faccia e fa le fusa. Il cane si avvicina, mi odora i pantaloni e io, prima guardo verso la cucina, poi gli mollo una pedata… guaisce.
«Jody!» grida Chiara «Che succede?»
«Non so, forse è geloso del gatto.» Dichiaro con aria ingenua.
«Domani, se il tempo è bello, ti va di scendere in spiaggia? Preparo qualcosa e si fa colazione insieme, ma non sentirti obbligato, non vorrei fare la vicina invadente! E soprattutto…» l’espressione si fa acuta, si avvicina e mi stringe sul viso gli occhi e la bocca «prometti di non affogarmi il cane!» Ride forte e io la mangerei come un bignè cremoso. Mi guarda, e non so se ha capito che la divorerei adesso, in un boccone solo.
«A domani!» Sussurro e con passo dinoccolato scendo le scale. Peccato che inciampo al terzo gradino, mi volto giusto in tempo per vedere la porta che si chiude… e sentirla ridere forte. La immagino risplendente d’allegria e rido anch’io, forte, guardando le stelle. Sono quasi felice.
*
Prendo il cavalletto e lo posiziono sotto alla luce migliore. M’investe una febbre che non mi assaliva da tempo. Da quando Grecale non era un vento e neppure un dirigente, ma era il pittore, il pittore felice e basta.
E’ con frenesia che inspiro il profumo di olio e trementina come un’inalazione stupefacente e dipingo la tela di un azzurro scuro, violento. Un colore che ricopre con prepotenza il bianco accecante della tela, quella tela che per anni è rimasta davanti alla mia inutilità, a ricordar la mia vita. Ricopro febbrilmente il dolore per far nascere nuova vita e gli occhi che emergono, dal buio dell’azzurro più cupo, mi infilzano il cuore.
Quante volte ho dipinto Gloria, nei momenti più intimi, nelle pose più oscene. Tele orribili, senz’anima, dipinte con la rabbia del niente. Tele inutili che mi ispirava il suo amore, che non mi offrivano alcuna sensazione se non un colore crudo, duro, senza alcuna morbidezza.
L’arte è sentimento. Amore, dolore, gioia, sofferenza… non può essere il nulla.
Il pennello va da sé a colorare l’immagine della fantasia. Mi tolgo i pantaloni, mi danno fastidio, perché sono follemente eccitato, mentre cerco di dare armonia al suo seno nudo… un seno che ho chiaro nella mia mente. La figura mi guarda e io cerco di proporzionare con precisa fedeltà il contorno delle labbra, sono le sue, le coloro col rosso erotico e intenso di un morbido carminio, ho voglia di baciarla, di stringerla e d’amarla. E non importa quel che sarà, adesso è mia.
Penso ai dipinti più belli, nati da un bizzarro risveglio sensuale, da un’ispirazione di passione.
Dipingo teso come uno squilibrato questo momento d’amore e dalla tela emerge lei… una sirena. Mi fermo ad osservare la figura e poso con decisione i pennelli.
Per la parte inferiore uso la spatola, mista a olio e sabbia. Domani in spiaggia raccoglierò conchiglie per raschiare madreperla e arricchire la coda. Ornerò i capelli e le squame, d’oro e d’argento, per renderla immortale e divina come un’icona sacra.
Sento i suoi passi che camminano su di me e un brivido mi attraversa il corpo. Mi fermo a immaginare i suoi sospiri e osservo il dipinto, sorrido vedendo il volto di Chiara. Ho la certezza che questo sia il mio dipinto più bello, il mio capolavoro è lei che mi ha proposto la vita, proprio nel momento in cui sono rinato, lei… la mia musa ispiratrice, la mia sirena, la mia poesia… la mia meravigliosa e inaspettata vicina di casa.
 

Sopraesistito

Black Cat Member
pianerottolo dantesco parte prima

PIANEROTTOLO DANTESCO
di
Peruru Babbarebbe



Sono due mesi ormai che non faccio altro. Non dormo, non mangio, non esco, non mi rado. Spio e basta. E il problema è che mi piace. Mi piace da matti.
E’ successo un giorno, per caso. Ho sentito un rumore molesto, come qualcuno che stesse colpendo ripetutamente il battiscopa del pianerottolo, e sono andato allo spioncino a vedere cosa diavolo stesse succedendo, dalla porta del mio appartamento di Soho qui a New York.
Oggi sono giusto cinque mesi che ci vivo da solo. Non ne potevo più di stare dai miei genitori – un’ossessiva compulsiva appiccicosa e un ubriacone che non fa altro che scorreggiare e poltrire tutto il giorno – così, compiuti i 29 anni, mi sono deciso a cercare un monolocale tutto per me, preferibilmente arredato e a un prezzo abbordabile. Col lavoro da centralinista alla Fulltilt non po-tevo certo permettermi un affitto in pieno centro.
Alla fine ho trovato una stanza in questo gigantesco palazzo di sedici piani su Canal Street, in un quartiere purtroppo che definire residenziale è fargli un complimento. Settecento dollari mi sono sembrati un prezzo ragionevole, dopo aver girato mezza città e aver sentito cifre che non scende-vano mai sotto i mille. E poi, a dir la verità, questa minuscola stanzetta di trentadue metri quadri mi è subito piaciuta: un angolo cottura minimalista in legno di ciliegio azzurro contro la parete di fronte all’entrata, con un bel tavolino a penisola decisamente funzionale alle schifezze mordi e fuggi che ormai mangio da anni; un divano letto al centro, un portariviste e un carrellino portaog-getti sui lati e di fronte un armadio-libreria, un bel mobile pragmatico che mescola scaffali e men-sole per la “zona giorno”, e ante, pannelli e cassettoni per la “zona notte”; infine il bagnetto di due metri per due, corredato addirittura di minilavatrice e bidet.
Ma torniamo a noi: quando l’agente immobiliare mi ha fatto vedere l’appartamento, ho subito sen-tito uno strano formicolio allo stomaco, quel gorgoglìo particolare che non è fame o brontolio di succhi gastrici, ma eccitazione pura, adrenalina che scorre per l’ebbrezza della novità e del cambio di vita drastico che stai per compiere.
Quella stanza era a mia esatta dimensione e doveva essere mia. Ho accettato l’offerta, pagato due mesi di cauzione anticipata e dopo una decina di giorni mi ci sono sistemato definitivamente.
I primi due mesi mi sentivo un pascià: rientravo la sera alle sei dal lavoro in ufficio, passavo da MacDonald a comprare due alette di pollo e un hamburger, mi spaparanzavo sul divano e mi guardavo due puntate di fila di CSI Miami. Ero così stanco che non aprivo nemmeno il divano-letto, crollavo addormentato il più delle volte dimenticando la TV accesa e la mattina mi risve-gliavo ancora con le mani unte e i cartoni delle patatine tra capo e collo.
Vivere da soli all’inizio è eccitante perché puoi fare quello che vuoi: musica a palla, puoi girare nudo per casa o farti le seghe senza che tua madre piombi in camera all’improvviso, lavi i piatti quando ti pare, guardi la TV fino a tardi la notte senza che tuo padre ti dica che la prossima bollet-ta della luce la paghi tu. Dopo le prime settimane però l’eccitazione della novità svanisce e suben-tra la routine della quotidianità, meccanica nella sua noia intrinseca e soporifera per l’assuefazione che comporta. Mi viene in mente quel film di Charlie Chaplin in cui lui fa l’operaio in una fabbrica e la sera, quando torna a casa a piedi dal lavoro, ripete a vuoto nell’aria i movimenti meccanici del suo turno di lavoro alla macchina della catena di montaggio.
L’alienazione sociale ha fagocitato anche me dopo un paio di mesi. Le mie giornate erano tutte uguali: la mattina mi alzavo, facevo colazione, mi vestivo in fretta e furia, correvo a prendere la metro, scendevo alla fermata di Avenue Street, salivo al quarto piano, mi sedevo, infilavo le cuffie e rispondevo alle lamentele e alle richieste dei clienti della compagnia. A mezzogiorno e mezza avevo un’ora di pausa pranzo: scendevo alla caffetteria del primo piano per comprare un tramez-zino e un caffè, uscivo sul piazzale antistante per fumare un paio di Winston Blu e facevo finta di annuire alle domande di qualche collega che mi chiedeva se quell’anno i Knicks avrebbero rag-giunto i play off. L’ora passava in un attimo, risalivo in ufficio, mi rimettevo le cuffie e sciorinavo le solite frasi cordiali e automatizzate ai clienti. Alle 17 finalmente uscivo e mi fiondavo a casa con la metro.
Questa era la mia tabella di marcia ogni santo giorno. Tranne la domenica, che passavo a dormire la maggior parte del tempo.
Una sera, arrivato a casa, mi butto sul divano a corpo morto affondando la testa nel cuscino e im-mediatamente sento il padiglione auricolare destro farmi un male cane: avevo ancora le cuffie del call center addosso. Per tutto il tragitto in metro non mi ero accorto di non averle tolte uscendo dall’ufficio. Mi sono alzato di scatto scaraventandole contro il muro: ero diventato Charlie Cha-plin, ero il robotino della Fulltilt. L’alienazione, la globalizzazione, il consumismo avevano in-trappolato anche me nel loro ingranaggio perverso.
No, non ci stavo, grazie. Il giorno dopo non sono andato a lavorare, ho chiamato fingendomi ma-lato. Dovevo riflettere. Avevo bisogno di riappropriarmi di me stesso, di riprendere il controllo. “I’m in charge, I’m in charge…” mi ripetevo nella testa per convincermi. Sono rimasto fuori casa tutto il giorno, non mi importava se il medico della visita fiscale non mi avrebbe trovato a letto malato, tanto l’intenzione era di mollarlo quel lavoro di merda. Sono andato a fare shopping, al cinema, a un appuntamento al buio rimediato su internet e a Madison Square Garden a vedere un concerto live: mi sono divertito sul serio, ho fatto quello che mi passava per la testa senza tabelle di marcia da dover rispettare, senza imposizioni di orari o obiettivi da raggiungere, senza sentirmi mai nemmeno per un attimo privato della mia libertà. Alla fine verso le sette sono rientrato a casa, ho mangiato due schifezze e son crollato sul divano mentre Horatio Cane stava ancora cercando di arrestare l’assassino. All’inizio non mi sono reso conto che in realtà, sotto sotto, non era cambiato niente: è vero che uscivo e facevo quello che volevo, mi divertivo e mi godevo la libertà, ma quando sarebbero finiti i soldi cos’avrei fatto? Mi ero licenziato e la liquidazione non mi spettava, quindi avevo solamente i rimasugli degli unici due stipendi che avevo incassato al call center. Quanto sarebbe durata la pacchia, con duemila dollari scarsi?
Il sesto giorno non avevo più un centesimo: per riempire il vuoto mi sono dato allo shopping compulsivo e alle cene nei ristoranti di un certo livello. Mi sono chiuso in casa a guardare dodici puntate di fila di CSI per non dover affrontare la realtà. Il settimo giorno non sapevo cosa fare: uscire non potevo, non avendo un dollaro, e di stare in casa non mi andava, ridotta a una topaia com’era.
Così, quando ho sentito quello strano rumore, come di un battiscopa preso a calci, mi sono diretto verso lo spioncino e ho dato un’occhiata. Sul pianerottolo del mio piano, il nono, si affacciavano altri cinque appartamenti, al centro il vano ascensore e su ogni lato la tromba delle scale: il rumore che mi aveva incuriosito era provocato dalla signorina dell’interno 11, che continuava a battere contro il battiscopa con la punta della scarpa per ingannare l’attesa prima che l’ascensore arrivasse a destinazione. Aveva una quarantina d’anni, formosa nel suo tailleur color malva, tutta perfettina coi capelli raccolti in uno chignon e una decina di braccialetti ai polsi. A vederla fremere così im-paziente, si sarebbe detto che avesse l’appuntamento o il colloquio della vita. Non la conoscevo sinceramente, da quando vivevo lì non l’avevo mai incrociata, vuoi per il mio caratteraccio asociale vuoi perché nessuno dei miei dirimpettai era mai venuto a darmi il benvenuto. Mi faceva ridere con le smorfie e gli sbuffi che faceva mentre i numeri dei piani scattavano sul display e l’ascensore saliva lentissimo; a un certo punto, quando finalmente si sono spalancate le porte, guardandosi prima attorno per vedere che non ci fosse nessuno, si è infilata la mano destra nel sedere per sfilarsi le mutande – o il perizoma – da dentro le chiappe. Soddisfatta ha sorriso ed è sparita nel vano ascensore.
Anch’io mi sono messo a ridere divertito staccandomi dallo spioncino, al pensiero che è proprio vero che le apparenze ingannano. Stavo lavando i piatti nel lavello dove ormai avevano preso re-sidenza fissa una decina di moscerini, quando ho sentito di nuovo il suono tipico che emette l’ascensore nel momento in cui arriva al piano desiderato e così sono corso allo spioncino per ridare un’occhiata. Stavolta era il pensionato dell’appartamento centrale, il 14, sacco dell’immondizia in mano, berretto teso calcato sulla testa e gilet da pescatore che a malapena si chiudeva sul pancione prominente. Mentre l’ascensore apriva le porte, ha alzato su la gamba destra in posa statuaria e tirato un peto che ha rimbombato per tutto l’androne e la tromba delle scale. Io son scoppiato a ridere, tappandomi la bocca appena in tempo per non farmi sentire, ma lui sorrideva compiaciuto trotterellando impettito dentro la cabina. Non ci volevo credere, dove diavolo ero capitato?
Ancora incredulo, mi sono messo a rilavare qualche piatto, ma dopo un quarto d’ora mi son ritro-vato di nuovo attaccato allo spioncino. Dall’ascensore vedo uscire il ragazzetto dell’interno 13, che verosimilmente stava tornando da scuola, non saprei dire con certezza se da quelle elementari o medie, dall’aspetto non riuscivo a decifrarlo. Era abbastanza basso, la schiena curva sotto uno zaino stracolmo di libri, un paio di jeans coi risvolti doppi sulle caviglie e due scarpe da trekking piuttosto logore. Lo vedo che esita davanti all’ascensore che si chiudeva dietro di lui, sfilandosi i guanti con finta lentezza. In un batter d’occhio, si infila un dito nel naso, appiccica l’ammasso in-forme di muco sul bottone di chiamata dell’ascensore e scappa verso la sua porta, schiacciando forsennatamente il campanello fino a che qualcuno non gli apriva.
Non volevo credere ai miei occhi. Ma che gente erano i miei vicini di casa? Possibile che l’unico dotato di un briciolo di educazione e decenza fossi io? Devo ammettere però che mi stavo diver-tendo da matti.
Un’ora dopo fu la volta della “fattucchiera” dell’interno 15: questa bizzarra signora sulla sessanti-na, capelli canuti arruffati e elettrici e un nasone dal setto deviato, non usciva mai di casa prima di essersi munita preventivamente di un barattolo di sale grosso da cucina. Si piazzava sulla soglia e cominciava a buttare il sale a manciate, a destra e a sinistra, sullo zerbino e sulle mattonelle di marmo della porta. Non riuscivo da dietro lo spioncino a leggerle il labiale, ma sono sicuro che stesse recitando qualche strano rituale per scacciare le influenze negative. Dopo un paio di minuti, chiamava l’ascensore e spariva per andare probabilmente a qualche ritrovo di streghe, o Dio solo sa dove.
I giorni successivi correvo allo spioncino al minimo rumore. Una mattina c’era la donna delle pu-lizie che strusciava il mocio con svogliatezza per il pianerottolo. Ogni tanto si bloccava, si soffiava il naso e riponeva il fazzolettino nel grembiule che aveva attorno alla vita. Mi ha fatto un’enorme tenerezza, mi sembrava una che avesse appena subito una delusione amorosa. La sua nemesi invece era il troione dell’interno 16: in tre mesi l’ho sempre beccata tutte le volte che si intrufolava in casa dell’avvocato del numero 12 appena la moglie usciva di casa per andare a lavorare. Rimanevo attaccato allo spioncino a sbirciare, curioso di vedere quando ne sarebbe uscita e dopo quaranta minuti buoni rispuntava sempre soddisfatta e con un sorriso a trentadue denti.
Avevo dei vicini di casa veramente malsani e fuori di testa.
Intanto i giorni passavano e spiare divenne il mio pane quotidiano, il mio riempitivo, la compen-sazione al mio vuoto esistenziale. Non mi rendevo nemmeno conto che avevo fatto tanto per strapparmi all’alienazione della vita sociale e lavorativa, per poi farmi inghiottire in quella più subdola e carnevalesca del teatrino che giornalmente dava spettacolo sul mio pianerottolo.
Questo fino al giorno in cui ho rivisto l’agente immobiliare che mi aveva affittato la casa. E’ spuntata dall’ascensore preceduta da un profumo intensissimo che si è infilato fin sotto alla mia porta. Era bellissima come cinque mesi prima, ancora abbronzata, meches bionde, stivali neri alla moda e camicetta con i primi due bottoni lasciati aperti sulla scollatura. Era seguita da due giovani, un ragazzo e una ragazza entrambi sulla trentina come me, probabilmente due innamorati che volevano andare a convivere e si erano affidati a lei per trovare casa.
«Mmh, vediamo… non mi ricordo mai qual è..» la sento dire da dietro la porta. «Ah è questa, ve-nite!» dice ai due ragazzi entusiasta.
E vedo che lascia penzolare un mazzo di chiavi svogliatamente da una mano e si dirige verso la mia di porta.
 

Sopraesistito

Black Cat Member
pianerottolo dantesco parte ultima

«Che intenzioni ha ‘sta qui??» mi domando tra me e me.
cazz.o, quando sento girare la chiave nella toppa, è già troppo tardi. Faccio un balzo indietro e non faccio in tempo a urlare «Cosa diavolo fai? E’ proprietà privata questa, violazione di domici…» che mi ritrovo la porta blindata spalancata.
«Scusa, perché hai ancora le mie chiavi di casa se l’ho affittata cinque mesi fa? Pronto? E’ affitta-ta, mi senti?» le sbraito a un centimetro dal naso senza che lei mi caghi di striscio. «Oooo mi ri-spondi? Non ci vedi che è abitata?».
Per tutta risposta la sento partire in quarta con lo stesso discorsetto che aveva sciorinato a me cin-que mesi prima per convincermi ad affittare l’appartamento.
«Soleggiato, arioso, vivibilissimo anche se siete in due, luminoso, arredato…cosa volete di più? A soli 300 dollari è impossibile che troviate di meglio! Beh che ne dite?» chiede ai due ragazzi che si mangiavano il monolocale con gli occhi.
«Che cosa? O stronza, ma mi pigli per il culo? Ci abito iooo! Ora mi sono rotto, uscite da casa mia!!» le urlo in faccia fuori di me.
«Ma è vero che due mesi fa l’inquilino che ci abitava si è impiccato nella doccia? E’ per questo che la svendono a così pochi dollari, vero? Perché nessuno vuole affittarla… Non sarà mica infestata la casa?» le chiede la ragazza stropicciandosi il labbro inferiore.
«Ma non fate caso ai giornali e ai pettegolezzi! Non è incantevole??» tenta di depistarli l’agente.
Non ci credo, non voglio crederci. Deglutisco ma non sento il pomo d’Adamo. Urlo di nuovo ma non mi sentono, non mi vedono. Comincio a capire. Voglio scappare, uscire di lì, andare via, do-vunque. Mi fiondo verso la porta spalancata, ma sulla soglia una barriera invisibile mi scaglia a terra. Mi rialzo, tento di nuovo ma non c’è niente da fare. Non riesco a uscire. Non mi fanno usci-re. Quell’appartamento che in vita aveva fatto da habitat naturale alla mia asocialità e in cui mi ero relegato lontano dal mondo esterno, ora era diventato il mio purgatorio personale: se in vita avevo chiuso la porta agli altri, fregandomene di tutto e di tutti, adesso la mia punizione era vedere i miei vicini di casa vivere le loro vite, attraverso uno spioncino, forzatamente, indegnamente, morbosamente.
Non era ironico come mi aveva voluto punire Dio?
Se un giorno dovessi mai incontrarlo, vorrei proprio stringergli la mano.
 

Sopraesistito

Black Cat Member
IL MORSO DELLO ZIO

I miei vicini di casa più vicini abitano al piano di sotto. Sono zia Elena, zio Luigi e mio cugino Sandro. Sandro è più grande di me e urla sempre con zio Luigi che le urla le sentiamo fino a sopra. Sandro sbatte le porte e dice le parole che non si dicono. Zio Luigi non parla tanto. Ha i baffi che quando mangia gli rimangono sopra le molliche e a me mi scappa da ridere. Zia Elena è una brava zia e mi da sempre i biscotti al cioccolato e mi strizza l’occhio quando succede qualcosa e so che vuole dire non ti preoccupare ci penso io. Come ha fatto ieri che Fiocco ha morso zio Luigi. Fiocco è un altro mio vicino e abita nel bidone dell’immondizia che sta di fronte casa mia. E’ un gatto strano perché mangia le formiche. A me mi vuole bene e si fa sempre accarezzare. Io gli porto da mangiare gli avanzi della cena la mattina prima di andare a scuola e poi il pomeriggio quelli del pranzo. Invece agli altri li graffia e miagola forte e soffia. Ieri zio Luigi era andato a buttare l’immondizia e Fiocco l’ha morso così è dovuto andare all’ospedale. Ha gridato che lo faceva soprimere. Io non lo so cosa vuol dire soprimere. L’ho chiesto a mamma e mi ha risposto non ti preoccupare non è niente ma io lo so che è qualcosa. A me mi piacciono i suoni delle parole, e ogni tanto le parole che mi piacciono le ripeto tante volte perché mi piace sentire come suonano. Per esempio mi piace abbraccio, moltiplicazione e coccinella. Ma invece soprimere non mi piace, ha un suono brutto. Zia Elena però mi ha strizzato l’occhio e io sono più tranquillo.
Poi un altro vicino è il signor Alfonso che abita nella casa affianco alla mia. Ci sono anche altre persone che sono miei vicini di casa ma io non li conosco. Non ci ho mai parlato. Non stanno qui da tanto, mamma dice che non ci possiamo parlare perché vengono da un altro paese. Non so cosa vuole dire ma ho pensato che forse è perché non sanno parlare la nostra lingua che è l’italiano e quindi non ci possiamo capire. Loro si vede che sono un poco diversi da noi, sono un po scuri di pelle e hanno una strana cosa sulla testa, come una palla con intorno un pezzo di stoffa, ma solo i bambini. Gli uomini hanno una specie di sciarpa tutta intorno alla testa e hanno tutti la barba lunga. Il signor Alfonso è simpatico. Dice sempre che ha tanti anni sul groppone. Ha pochi capelli grigi e le orecchie molto grandi che dice che quando uno invecchia perde i capelli e gli crescono le orecchie. Lui mi racconta sempre tante cose, di quando cera la guerra, degli animali che ha visto in Africa quando era prigioniero, le giraffe, i leoni e i rinoceronti. Lui sa tante cose degli animali di tutto il mondo. E poi mi racconta della signora Margherita che mi teneva in braccio quando ero piccolo e mi cantava le canzoncine. Lei ora non cè più, mi ha detto che è andata in un posto molto molto lontano. A me mi piacerebbe conoscere anche gli altri vicini, forse stando qui impareranno l’italiano e così ci potrò parlare.

Niccolò chiuse il quaderno, mise la penna nell’astuccio e corse in cucina. Si guardò intorno con circospezione, non c’era nessuno, così aprì il frigorifero, prese del prosciutto da un cartoccio e lo avvolse in un fazzoletto di carta. Poi, prese il cappotto dall’attaccapanni nell’ingresso e mise l’involto in tasca.
- Mamma dove sei? Posso andare dal signor Alfonso?
- Eccomi vengo. Hai finito di scrivere il tema?
- Sì.
- Va bene, allora aspetta che lo chiamo.
La signora Giulia prese il telefono e compose il numero, mentre Niccolò oscillava le braccia avanti e indietro lanciando occhiate impazienti alla porta.
- Puoi andare Niccolò, il signor Alfonso ti aspetta. Ma vai dritto da lui e non fermarti da nessuna parte.
- Sì, mamma.
Niccolò scese le scale di corsa, uscì in strada e si diresse verso il bidone guardandosi intorno alla ricerca di Fiocco. Provò a chiamarlo, ma il gatto non si vedeva da nessuna parte, così tirò fuori l’involto con il prosciutto e lo mise in un angolino tra il bidone e il gradino del marciapiede.
In quel momento, un tonfo alle sue spalle lo fece trasalire. Un pallone stava rotolando dritto verso di lui e, poco lontano, un ragazzino con la faccia smunta e gli occhi nerissimi, lo fissava. Niccolò diede un calcio al pallone in direzione del ragazzo e corse via.
Quei ragazzini lo incuriosivano e spaventavano allo stesso tempo. Quello sguardo da tigre e quei capelli acconciati in modo femminile, con un buffo chignon sulla sommità della testa, formavano uno stridente miscuglio di aggressività e delicatezza che lo confondevano.
Quando entrò in casa del signor Alfonso, aveva il fiatone.
- Ehi, che ti è successo, sei venuto di corsa. Togliti il cappotto e vieni qua in cucina, ti ho preparato pane e pomodoro.
Niccolò fece un largo sorriso e si sedette davanti alla sua merenda preferita, mentre Il signor Alfonso controllava l’acqua che stava facendo bollire per il tè.
- Allora che mi racconti Niccolò, come sta tuo zio?
- Non lo so, non l’ho più visto da ieri. E nemmeno Fiocco. L’ho cercato ma non c’era, gli ho lasciato il prosciutto, avrà fame quando tornerà. Tornerà vero?
Il bambino posò la fetta di pane appena morsa nel piatto e sospirò tristemente. Il gatto doveva essersi molto spaventato il giorno prima, lo zio Luigi gli aveva tirato un calcio e il gatto era scappato via mugolando.
- Non preoccuparti, gli animali sanno cavarsela, e Fiocco è un gatto molto intelligente. Non so dirti se tornerà, ma, se non lo farà, sono sicuro che avrà trovato un bel posto dove stare.
Niccolò non sembrava convinto. Fiocco stava bene lì dov’era, aveva da mangiare tutti i giorni e un amico con cui giocare. E anche lui, Niccolò, aveva il gatto come unico amico con cui giocare. Che cosa avrebbe fatto se non fosse tornato? Pensò ai ragazzini in strada con cui non poteva parlare, forse avrebbe potuto insegnargli lui l’italiano, e chiedergli se poteva giocare a pallone con loro. Chissà se la madre gli avrebbe dato il permesso.
- Signor Alfonso, quei vicini, quelli che vengono da un altro paese, sai da dove vengono?
- Dall’India. Sai dov’è l’India?
- Dove ci sono le tigri e gli elefanti con le orecchie piccole?
Alfonso sorrise
- Proprio così. Se guardi dove sorge il sole, da quella parte, molto molto lontano, c’è l’India.
- E perché sono venuti qui?
- Beh, sai, l’India è un paese grande e ci abitano tantissime persone, la maggior parte di loro sono molto povere e vengono qui per cercare un lavoro per poter dar da mangiare ai figli.
- E perché hanno quei capelli strani?
- E’ per la loro religione. Tu sai, Niccolò, che nel mondo esistono tante religioni diverse e ognuna di queste crede nel suo Dio e ha le sue regole da seguire, le sue preghiere, il suo libro e il suo giorno sacro, e via dicendo. Queste persone appartengono a una che si chiama religione sikh. Per loro i capelli sono sacri perché sono stati donati da Dio e non vanno mai tagliati, e neppure la barba. Così i bambini li annodano in cima alla fronte e li coprono con un pezzo di stoffa, poi quando saranno grandi, indosseranno un turbante, che è quella specie di cappello fatto sempre di stoffa avvolta tutta intorno alla testa.
Niccolò ascoltava con curiosità. A scuola, nell’ora di religione, gli avevano parlato delle varie religioni che c’erano nel mondo, in particolare dell’islamismo. Sapeva che c’erano delle persone, chiamate musulmani, che professavano questa religione e dovevano pregare a certe ore su un tappeto rivolti verso un posto che si chiamava Mecca, che non potevano mangiare la carne di maiale e, in un certo periodo dell’anno, dovevano fare una cosa che si chiama Ramadan in cui mangiavano solo di notte. Nella sua classe c’era una bambina musulmana che veniva dall’Africa e si chiamava Hadja. Hadja parlava benissimo l’italiano, la sua unica differenza con gli altri bambini era che aveva la pelle molto scura, ma Niccolò pensava che, a parte il primo giorno che questa cosa gli era sembrata un po’ buffa, come se avesse preso troppo sole, poi, con il tempo, non ci faceva neanche più caso. Hadja era una bambina molto simpatica. Invece quei ragazzini sikh, come li aveva appena chiamati il signor Alfonso, gli mettevano un po’ di paura. Di questa religione non aveva mai sentito parlare, ma se volevano così bene ai propri capelli, tanto da non tagliarli mai, non dovevano certo essere delle cattive persone.
- A proposito, oggi è Martedì, giusto? Mi pare che si raccolga carta e cartone, vorresti aiutarmi a portare giù questi scatoloni?
Il signor Alfonso gli indicò una scatola più piccola, riscuotendolo dai suoi pensieri. Niccolò annuì.
- Ce la fai?
- Sì certo!
Sollevò la scatola con un po’ di impaccio e la sistemò sulle braccia. Gli arrivava all’altezza del naso e riusciva appena a guardare davanti a sé. I due scesero in strada e portarono gli scatoloni nel punto di raccolta della differenziata. Niccolò seguiva il signor Alfonso concentrandosi per non cadere, la scatola non era pesante ma gli impediva di vedere dove metteva i piedi. Di ritorno poté di nuovo dare un’occhiata in giro. I ragazzini non c’erano più, la strada era deserta e di Fiocco ancora nessuna traccia.
D’improvviso si ricordò del prosciutto. Se non c’era più, forse c’era una speranza che il gatto fosse tornato a mangiare. Ma come poteva essere sicuro che fosse stato proprio Fiocco a mangiarlo? In effetti, non era stata poi una grande idea.
- Signor Alfonso ma cosa vuol dire soprimere?
I muscoli sulla faccia del signor Alfonso si contrassero, circondò le spalle del bambino con un braccio. Non sapeva cosa dirgli. Sapeva dell’intenzione di Luigi: se il gatto si fosse fatto rivedere da quelle parti, l’avrebbe denunciato all’autorità sanitaria e fatto sopprimere. Alfonso sperava che il gatto non tornasse, ma provava una gran stretta al cuore vedendo gli occhi così tristi e sconsolati di Niccolò, che era tanto legato a quel gatto e se ne prendeva cura ogni giorno.
- Sai Niccolò, credo che Fiocco sia con Margherita in questo momento.
- Sì, davvero? E’ con la signora Margherita? Sarebbe bello se fosse con lei. Però spero che torni, magari torneranno insieme, eh? Sarebbe bello!
Alfonso alzò la testa, guardò il cielo velato di rosa e arancio, e sospirò.
- Sì, sarebbe bello.
Il sole finiva il suo giro dietro l’orizzonte, Niccolò salutò il signor Alfonso e si diresse verso casa più sollevato. Non vedeva il gatto da appena un giorno e già gli mancava molto, ma se era con la signora Margherita, allora poteva essere sicuro che stava bene.
Mentre saliva le scale a piccoli balzi tenendosi al corrimano, udì sbattere una porta e si ritrovò davanti suo cugino Sandro.
- Ehi tappo, da dove vieni?
- Ero dal signor Alfonso.
- Dal vecchio? Ma non ti fai due palle così tutti i pomeriggi da quello.
- Come sta zio Luigi? Gli fa ancora male la mano?
- E chi lo ammazza! Piuttosto spera che il tuo gattaccio non ritorna che sennò lo facciamo secco.
- Che vuoi dire?
- Accoppare, caput!
Sandro si passò la mano di taglio davanti al collo e poi continuò a scendere le scale ridacchiando.
Niccolò rimase per un secondo come pietrificato. Aveva capito bene? Volevano uccidere Fiocco? No, non era possibile, non potevano farlo, pensava mentre una lacrima cominciava a scendergli lungo una guancia. Riprese a salire le scale come ipnotizzato. A cena non mangiò quasi nulla, le parole di Sandro continuavano a ronzargli nella testa.
L’indomani mattina a scuola parlò poco ed era sempre distratto, tanto che la maestra lo rimproverò più volte e gli diede un compito extra per punizione.
Le divisioni a tre cifre non erano il suo forte. Fece penzolare la penna davanti ai suoi occhi e la guardò oscillare da un lato all’altro per un po’. Infine la lasciò cadere sul quaderno aperto e quella rotolò piano finendo per terra. Niccolò si alzò stancamente dalla sedia per riprenderla. I raggi del sole al tramonto filtravano attraverso uno spiraglio tra le tende della sua cameretta facendo danzare, sospese nell’aria, tante piccole particelle di pulviscolo. Le seguì con lo sguardo; poi raccolse la penna e uscì sul balcone. Faceva molto freddo e fu percorso da un brivido. Da lì c’era un bel panorama; gran parte della città si apriva di fronte a lui in una moltitudine di tetti di tante forme e colori. In basso poteva vedere anche il bidone dall’altro lato della strada. Guardò in quella direzione, qualcosa si muoveva lì intorno, così si sporse dalla ringhiera alzandosi sulle punte dei piedi per vedere meglio. Un gatto, ne era sicuro. E sembrava proprio lui, Fiocco. Non ci pensò un secondo di più. Rientrò in casa e si precipitò giù per le scale. Fiocco era tornato. La sua felicità si mescolava a tutta la paura che gli si allargava nel petto, come un eco, al ricordo delle parole di suo cugino.
Tutto accadde in pochi secondi. Giunto in strada vide il gatto accucciato ad annusare un fazzoletto vicino al bidone con dietro lo zio Luigi che si gli si avvicinava piano. Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo mentre lo zio si avventava sul gatto che però gli sfuggì. Niccolò gli corse subito dietro per cercare di prenderlo, quando un’auto sembrò sbucare dal nulla a tutta velocità. Si udì il forte stridio di una frenata e un tonfo. Niccolò si ritrovò stretto nelle braccia di Sandro che era riuscito ad afferrarlo all’ultimo momento.

Il sole splendeva alto quella bella mattina di Giugno. Niccolò si sentiva un po’ soffocare dal nodo della cravatta. Dopo aver abbracciato e stretto mani ad amici e parenti, poté finalmente togliersi giacca e cravatta e sbottonarsi almeno il colletto della camicia. Ci saranno stati almeno trenta gradi. Però era finita, dopo anni passati sui libri, ce l’aveva fatta. Lanciò un’occhiata alla tesi di laurea poggiata sul banco, “Impatto del superavvolgimento dei plasmidi sull’efficacia della vaccinazione a DNA contro la rabbia nei gatti”, che gli era costata tante notti insonni.
Methab gli diede una pacca sulla spalla.
- Congratulazioni dottore. Il signor Alfonso sarebbe stato orgoglioso di te.
Abbracciò forte l’amico, poi alzò la testa per guardare il cielo. Era così limpido che si poteva vedere molto molto lontano.


F. Michaj
 
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