Beolco Angelo detto il Ruzante

Splendido autore classico delle mie parti(nato e vissuto in molta parte a 5 km da casa mia....) della "pavanità" cinquecentesca.
Elegantissimo,duro,spietato,pittorico,e con una lingua raffinata e difficile(per i veneti di oggi)ma incontaminata come una foresta del Borneo.Da dedicare a chi ama le antropologie della lingua.
Tavolo.:)

Ecco uno specchio dell'Aretino:

Angelo Beolco, detto Ruzante dal nome del personaggio teatrale a cui diede vita, nacque a Pernumia,vicino a Padova intorno al 1495. Era, a quanto pare, figlio illegittimo di un medico rinomato. Ricevette una buona educazione umanistica. Dopo la morte del padre, fu occupato nell’amministrazione dei beni della famiglia e di quelli del protettore Alvise Cornaro. Proprio presso la corte del Cornaro scoprì la sua vocazione di autore e attore teatrale. Le sue rappresentazioni erano apprezzatissime, oltre che a Padova, anche a Venezia. Morì a Padova nel 1542.

Opere:
1520 ca. – Angelo Beolco detto il Ruzante, Parlamento 1521 –
Angelo Beolco detto il Ruzante, La Pastoral 1523 –
Angelo Beolco detto il Ruzante, La Betìa 1528 ca. –
Angelo Beolco detto il Ruzante, La Moscheta 1528 ca. –
Angelo Beolco detto il Ruzante, La Fiorina 1528 ca. –
Angelo Beolco detto il Ruzante, Bilora 1532 ca. – Angelo Beolco detto il Ruzante, La Piovana 1533 –
Angelo Beolco detto il Ruzante, La Vaccària av. 1542 –
Angelo Beolco detto il Ruzante, L’Anconitana av. 1542 –
Angelo Beolco detto il Ruzante, Dialogo facetissimo
 
Avevo scordato di ricordare l'importanza di Ruzzante per il ns.premio nobel per la letteratura e quanto Ruzzante ci sia alla base del suo Mistero Buffo che gli valse il nobel
Posto sotto dunque un' intervista a Fo che forse puo' chiarire,a chi fosse interessato alcuni aspetti della cosa.
Tavolo.

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La lingua del Ruzante
Conversazione con Dario Fo
a cura di Oliviero Ponte di Pino
Questa intervista è stata realizzata a Milano l'11 aprile 1995; è stata pubblicata in parte sul "manifesto" in occasione dell'assegnazione del Premio Nobel a Dario Fo nel 1997.
copyright Oliviero Ponte di Pino 1999

Prima di tutto vorrei che tu spiegassi perché nel tuo spettacolo non hai utilizzato la lingua di Ruzzante così com’era.

Perché la lingua di Ruzzante è una lingua morta. Non lo dico io, lo dice Ludovico Zorzi, che ha studiato profondamente Ruzzante. La sua è una lingua composita, non è soltanto dialetto pavano - il dialetto padovano dell’area agricola - ma è anche fatta di termini provenzali, friulani, lombardi, tutti legati al Cinquecento. C’è stata una grandissima trasformazione nei dialetti e nelle lingue, da allora a oggi. La lingua dei contadini padovani si è venetizzata, mentre allora era autonoma, anche nel contesto delle lingue venete.

Il dialetto pavano non esiste più perché è stato soppiantato dal veneto?

Certo. Il veneto è molto più dolce del pavano, meno aspro. Soprattutto i termini: per esempio, se io dico "jandùssa", nessuno capisce niente. Era la peste. Se dico "muzàr", significa "scappare". Non capisce più niente nessuno. Ho fatto due esempi, ma ne potrei farne duemila, e quando tu ti trovi tre o quattro termini come questi per frase, non capisce più nessuno.

Per esempio, dice il Ruzzante: "Invecio .. me so, no fui temp a sbolsonarme per ... della zovintezza". Questo significa: "Troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza". Ma del pavano di Ruzzante non si era capito niente. Perciò ho dovuto realizzare una trasformazione, adoperando ancora il testo di Ruzzante, che usa una quantità enorme di termini, di sinonimi e di allitterazioni: Ruzzante adopera normalmente "toso", "tosato", "figio", "puta", "puto", "puteo", "garsonetta", per dire "ragazzo" o "ragazza". Allora, approfittando di questa ricchezza, ho fatto una sintesi e sono arrivato a trovare questo grammelot. Anche se non si tratta di un grammelot vero e proprio, perché il grammelot è una lingua completamente inventata. Questo è un padano che ha però tutti i suoni e le cadenze e soprattutto la struttura della lingua originale pavana. Che ha una sua struttura lessicale, grammaticale ben chiara diversa dall’attuale padano.

Quindi c’è stato un tentativo di rendere più chiaro il vocabolario, il lessico della lingua di Ruzzante, mentre invece la struttura grammaticale e sintattica delle frasi è ricalcata su di essa.

Certo. Per esempio Ruzzante a un certo punto dice: "A ghe su un po’ arrivè a ste Vieniege (e io indico prima che Veniege è Venezia) che gavea più ansema mi de arivarghe kilò (e ho spiegato prima che kilò viene da illo, forma latina) che poteo fa men de giunzere alle tette sgionfiante de latte de la sua madre (arrivare alle tette gonfie di latte di sua madre)". Ecco, questa è la forma ritradotta, perché se dicessi quella originale non si capirebbe niente. Però la frase ha ancora la struttura grammaticale e la forza lessicale del pavano.

Quindi la lingua che usi nello spettacolo diventa molto più comprensibile di quanto sarebbe stato l’originale, e al tempo stesso rimanda al passato, a un’epoca precedente a quella che stiamo vivendo attualmente.

Certo. Ma c’è un’altra operazione fondamentale: rifarsi ai corrispettivi comici, tragici o satirici dell’epoca di Ruzzante, e ricostruirli. Nel senso che Ruzzante era un uomo legato al proprio tempo, fino in fondo. Nei suoi testi c’è sempre un legame con i fatti del suo tempo, sia alla cronaca sia alla quotidianità. Per esempio nel suo Parlamento allude a una guerra, a una strage e parla di "tradidoron" impiccati nei campi e nelle piccole piazze di Venezia: è un’allusione diretta ai poveri contadini che facevano parte dell’armata veneta: dopo la sconfitta contro la coalizione di spagnoli e francesi coalizzati si erano trovati allo sbando e venivano presi, processati e impiccati. Allora io mi preoccupo di dare prima al pubblico questa indicazione, di informarlo, perché altrimenti non capirebbe niente.

Un altro lavoro consiste nel ricostruire per intero la chiave comica che ormai si è perduta. Ci sono delle battute che non hanno più nessun senso e nel comico guai se all’appuntamento con una chiusura non risolvi in battuta, in risata: è come un atto musicale che non ha la sua chiusa. E allora si tratta di inventare chiavi veramente comiche, rispetto a quelle che non rendono più.

Finora abbiamo parlato dei motivi per cui non bisogna rifare Ruzzante così com’è: perché scriveva in una lingua che noi non capiamo più e perché molti dei suoi meccanismi comici sono da reinventare.

Non bisogna farli così come sono. Bisogna ricostruirli.

Adesso volevo capire le ragioni per cui val la pena fare Ruzzante, capire i motivi che ti hanno spinto a fare questo lavoro faticoso e lungo.

Ma perché in Ruzzante c’è una vitalità, una forza, un’invenzione del rapporto umano - e animale - con la terra, con la vita, con la sopravvivenza, con la lotta, con gli elementi. E’ veramente il canto del "naturale". Quello del "naturale non è un vezzo: era una posizione ben chiara e concreta, importante sul piano culturale, inventata dal Ruzzante, con altri intorno a lui ma di minor valore, in polemica rispetto all’Arcadia e al gioco neoclassico o classicheggiante, fasullo, che ha permeato di sé tutto il Rinascimento e che ha portato un certo gusto ed a una certa lettura della vita. Ruzzante, rispetto a tutti gli altri autori italiani dell’epoca, è un fatto a sé, atipico, che ha poi avuto un rilancio straordinario proiettandosi dentro tutto il teatro cinquecentesco e seicentesco, dall’Inghilterra alla Spagna, dalla Francia alla Germania. Ruzzante viene prima dei picareschi, dei racconti contadini - o meglio delle commedie in chiave contadina - tipo il Georges Dandin di Molière o i clown di Shakespeare o le situazioni agresti di Marlowe e via dicendo. Ha inventato la chiave fondamentale su cui si è fondato il teatro in Europa.

C’è un altro aspetto che vorrei sottolineare: il rapporto che poteva avere un personaggio come Ruzzante con la cultura della città, con l’aristocrazia e le corti da un lato; e dall’altro con la cultura contadina, il mondo che portava in scena nei suoi testi. Nella prima parte dello spettacolo descrivi Ruzzante come un intellettuale a metà strada tra questi mondi.

Troppo spesso si tende a dare una lettura di Ruzzante che per me è falsa. Si dice che Ruzzante è un uomo colto, e questo è giustissimo. Che è nato da una famiglia anche se era un bastardo, figlio di un grande dottore che è addirittura diventato rettore della Università di Padova. Ma dall’altra parte è figlio di una contadina. E’ metà e metà, è un bastardo: non ha il diritto di entrare nelle Università né di diventare un accademico, è tenuto un po’ in disparte, in tutti i sensi. E ne soffre moltissimo. A un certo punto si ritrova anche a fare un po’ l’esattore, l’amministratore di un grande imprenditore - oggi diremmo un imprenditore agricolo - che era anche il suo finanziatore e organizzatore, il suo capocomico, se vogliamo. Era Alvise Cornaro: ricchissimo, nobile, intelligente, molto colto, ingegnere, architetto, scrittore e padrone di territori. Allora, se si semplifica, Ruzzante il mondo contadino lo conosce, è vero, ma quasi da prevaricatore: va in giro a rilevare le tasse, fa commerci, decide le affittanze, forse determina anche le angherie (l’angheria era una forma di contratto di quel tempo con i contadini); e l’ambiente dove si esprime è la corte: quella dei Cornaro, quelle di Mantova e di Ferrara, le corti di Venezia... Ruzzante conosce tutti gli aristocratici, che lo adorano, lo stimano e lo reputano il più grande autore teatrale del loro tempo. Secondo questa lettura, ogni tanto forse Ruzzante ha recitato con la presenza dei contadini. Si ha notizia di un’associazione di artigiani, come diremmo oggi, che si tassano per invitarlo a realizzare uno spettacolo per loro. L’artigianato allora era la parte aristocratica dei lavoratori, i "meccanici", come si chiamavano allora. Il popolo c’è soltanto come contorno, lontano. Per esempio, durante gli spettacoli di Ferrara si sa che sono stati invitati numerosi contadini, che ridono sommessamente perché si rivedono e godono di questo spettacolo ma con molto pudore. Questa è la semplificazione che circola: si dice che in fondo Ruzzante è un autore di corte, che rimane in quell’ambiente. Ma uno come Ruzzante ha uno straordinario mestiere, e la capacità di portare all’osso le battute. Io sono un attore che ogni volta prende dei testi e li modifica, li mette a sintesi, li graffia, li massacra e li ristruttura. Quindi so leggere un testo, e capisco quando è stato mangiato, masticato, vomitato, ripreso e via dicendo. E sicuramente ogni testo di Ruzzante è stato recitato centinaia e centinaia di volte per arrivare al momento in cui è stato poi stampato in quel modo. Perché tutti i testi del Ruzzante sono stati stampati dopo la sua morte, lui non ha mai visto stampato neppure un suo quaderno. I testi sono stati raccolti dai vari attori che avevano lavorato con lui, che hanno preso i copioni corretti, ricorretti e rifatti, con le sintesi e i tagli. Per realizzare un simile lavoro sono necessarie centinaia e centinaia di rappresentazioni. E dove sono state fatte queste rappresentazioni? Se noi ragioniamo con la stessa mentalità degli accademici, non lo capiremo mai. Gli universitari si attengono soltanto alle cronache, tra l’altro incomplete o non esaminate completamente. Faccio un esempio: c’è una collezione di cronache di cinquanta volumi di tale Marino Sanuto: ne sono stati spulciati solo cinque.

Forse è il caso di precisare che Sanuto era un signore che nel suo diario annotava tutto quel che succedeva a Venezia e che andava molto spesso a teatro.

Zorzi parla di Sanuto, è uno dei pochi. Però ha letto solo cinquecento pagine su cinquanta volumi... Una percentuale irrisoria.

Sanuto, che è il tipico spettatore medio dell’epoca, registra anche le reazioni del pubblico.

Nelle sue cronache c’è la traccia addirittura di un risentimento verso Ruzzante. Ma tornando a Ruzzante, dove sono le altre rappresentazioni? Non dimentichiamo che Sanuto frequentava solo i luoghi che erano a livello della sua casta, e lui faceva parte di un’aristocrazia, di una borghesia alta che non andava certo a vedersi gli spettacoli dentro le strutture dei fabbricatori di navi o dei conciatori, dove si facevo questi spettacoli. Quindi grazie all’atteggiamento unilaterale e ristretto degli accademici noi abbiamo una falsa indicazione di quello che era realmente Ruzzante.
 
Ancora sul rapporto tra Dario Fo e Ruzzante.
Da "La Repubblica".

Tavolo.:)

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Lo scurrile poetico da Ruzzante a Bataille
31 ottobre 2010 — pagina 37 sezione: DOMENICALE

«Ungrande libro dello scurrile poetico».A questo mira Dario Fo nel suo ultimo lavoro, L' osceno è sacro, curato da Franca Rame per Guanda e arricchito da centotrentatré disegni dell' autore. Spaziando dalla letteratura classica a Shakespeare, da Ruzzante a Molière, dalla tradizione giullaresca medievale al Le mille e una notte, questo bel volume multicolore rivendica una visione giocosa e solare della sessualità. I veri protagonisti del testo e delle sue illustrazioni sono infatti gli organi maschili e femminili, intesi però come pura fonte di piacere, e non come strumenti riproduttivi. Sotto il segno del critico russo Michail Bachtin (non a caso studioso del Gargantua di Rabelais), Fo si dedica a una sorta di "carnevalizzazione" dell' esistente, lottando controi poteri che da sempre censurano la libertà dei sensi. «È un filone continuo», ha dichiarato: «C' è il rito della religione e c' è uno spingere verso l' osceno, verso l' orgia, che è una costante sia fra i greci sia nelle antiche manifestazioni religiose popolari italiane, che esaltano gioia e sessualità con l' arrivo della primavera e la rinascita di Cristo». Ma questo festoso elogio del turpiloquio, questo ricondurre le pulsioni erotiche nella sfera del sacro hanno i loro presupposti in un' illustre famiglia di pensatori. Con il Saggio sulla natura e sulla funzione del sacrificio (1899) Marcel Mauss e Henri Hubert furono tra i primi a indagare tale dimensione, lo stesso anno in cui usciva L' interpretazione dei sogni di Freud. Le loro tesi furono riprese da Emile Durkheim, con Le forme elementari della vita religiosa (1912), e soprattutto da Rudolf Otto, con Il Sacro (1917). Sotto il profilo antropologico, le ricerche proseguiranno con Claude LéviStrauss ed Ernesto De Martino, mentre più tardi gli stessi temi porteranno a Il sacro e il profano (1956) del rumeno Mircea Eliade, e a Homo Sacer (1995), di Giorgio Agamben. Tuttavia, per individuare il laboratorio più estremo di simili indagini bisogna rivolgersi a Parigi. Qui, verso gli anni Trenta, Roger Caillois assiste alle conferenze di Marcel Mauss, oltre che dello storico delle religioni Georges Dumézil. Da questi incontri nascerà il suo L' uomo e il sacro (1939). L' evento più importante è però un altro: la fondazione, nel 1938, del cosiddetto Collegio di Sociologia ("sociologia sacra" era il titolo completo). Vi partecipano, con Caillois, l' etnografo e scrittore Michel Leiris e Georges Bataille. Siamo così arrivati all' autore che forse più di ogni altro ha sondato gli inestricabili rapporti fra sacralità ed erotismo. Il Collegio, che indagava il sacrificio cruento inteso come base dell' aggregazione sociale, si sciolse poco tempo dopo, ma Bataille proseguì lo scavo dei rapporti fra eros e thanatos. Lo dimostra il racconto Madame Edwarda (1941), il cui protagonista viene sconvolto da una prostituta che gli si presenta come Dio in persona. Siamo di fronte alla vertigine della blasfemia. Adesso Dario Fo è davvero lontano, anche se il titolo del suo libro, L' osceno e il sacro, presenta più di un legame con Bataille. Potremmo allora dire che il maestro francese costituisce lo sfondo oscuro su cui l' attore italiano tesse le sue riflessioni, proponendo l' idea di una sessualità ridente e liberata. © RIPRODUZIONE RISERVATA - VALERIO MAGRELLI
 
A proposito del PAVANO,la "lingua" del Ruzante:


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[sec. XIV; variante dial. di padovano]. Padovano; in particolare, la parlata rustica padovana. di carattere essenzialmente popolaresco, anche se gli autori tradiscono spesso l'intento letterario, è testimoniata nel Cinquecento da numerose opere, soprattutto teatrali. I suoi antesignani furono Marsilio da Carrara e Francesco di Vannozzo (sec. XIV) ma l'autore più popolare è senza dubbio il Ruzzante che nel dialetto pavano ci ha lasciato un affresco rusticano drammaticamente realistico. È interessante inoltre notare come il pavano sia stato usato anche da scrittori non appartenenti all'area linguistica padovana, come il commediografo veneziano A. Calmo e il novelliere lombardo G. F. Straparola.

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Ecccone un esempio dai Dialoghi del Ruzante:
dal PARLAMENTO
scena Terza
del 1528



SCENA TERZA



GNUA, RUZANTE e MENATO
GNUA Ruzante? situ ti? ti è vivo ampò? Pota, te è sí sbrendoloso, te he sí mala çiera. Te n’he guagnò ninte, n’è vero no?

RUZANTE Mo n’hegi guagnò assè per ti s’a t’he portò el corbame vivo?

GNUA Poh, corbame... Te me he ben passú. A vorae che te m’ haissi pigiò qualche gonela pre mi.

RUZANTE Mo n’è miegio ch’a sipia tornò san de tuti i limbri com a son?

GNUA Mei sí, limbri mè in lo culo... A vorae che te m’haissi pigiò qualche cossa. Mo a vuogio andare, che a son aspità.

RUZANTE Pota, mo te he ben la bela fuga al culo. Mo aspeta un può!

GNUA Mo che vuotu ch’a façe chí, s’te n’he gnente de far de mi. Làgame andare.

RUZANTE Oh càncaro a quanto amore a t’he portò. Te te vuossi ben presto andar a imbusare, e sí a son vegnú de campo a posta per véerte.

GNUA Mo non m’ hetu vezúa? A no vorae, a dirte el vero, che te me deroiniessi: che a he uno che me fa del ben mi. No se cata cossí agno dí de ste venture.

RUZANTE Poh, el te fa de bel ben! A te l’he pur fato an mi... A no t’he fato zà mè male, com te sè. El no vuol zà tanto ben com a te vuogio mi.

GNUA Ruzante, setu chi me vuol ben? Chi me ’l mostra.

RUZANTE Mei sí, che a no te l’he mè mostrò?

GNUA Che me fa che te me l’hebi mostrò, e che te no m’el puossi mostrare adesso? Ché adesso a he anche de besogno. No setu che agno dí se magna? Se me bastasse un pasto a l’ano, te porissi dire; mo el besogna che a magne agno dí, e perzò besognerae che te me ’l poissi mostrare anche adesso, ché adesso he de besogno.

RUZANTE Poh, mo el se dé pur far deferinçia da om a omo. Mi, com te sè, a son om da ben e om compío...

GNUA Mo a la fazo ben. Mo el ghe è an deferinçia da star ben a star male. Aldi, Ruzante: s’a cognossesse che te me poissi mantegnire, che me fa a mi? A te vorae ben mi, intiènditu? Mo com a penso che te si pover om, a no te posso véere. No che a te vuogie male, mo a vuogio male a la to sagura, che a te vorae véere rico mi, azò che a stassém ben mi e ti.

RUZANTE Mo se a son povereto, a son almanco leale.

GNUA Mo che me fa ste tuò lealtè, s’te no le può mostrare? Che vuotu darme? Qualche peogion, an?

RUZANTE Mo te sè pure che, se haesse, a te darae, com t’he zà dò. Vuotu ch’a vaghe a robare e a farme apicare? Me consegeretu mo?

GNUA Mo vuotu ch’a viva de àgiere? e che a staghe a to speranza e che a muora a l’ospeale? Te n’iè tropo bon compagno, a la fè, Ruzante. Me consegieretu mo mi?

RUZANTE Pota, mo a he pur gran martelo de ti. Mo a sgangolisso. Mo no hetu piatè?

GNUA E mi he pur gran paura de morir da fame, e ti no te ’l pinsi: mo n’ hetu conscinçia? El ghe vuol altro ca vender radicio, né polizuolo. Com fazo, a la fè, a vivere?

RUZANTE Pota, mo s’te me arbandoni, a morirè d’amore. A muoro. A te dighe che a sgàngolo.

GNUA E mi l’amore me andò via dal culo per ti, pensanto che te n’he guagnò, com te diivi.

RUZANTE Pota, te he ben paura che ’l ne manche. No manca zà mè a robare.

GNUA Pota, te he pur gran cuore e... tristi lachiti. A no vego gnente mi.

RUZANTE Pota, mo a no son se lomè arivò chive!

GNUA Mo l’è pur quatro misi che ti te partissi.

RUZANTE L’è ben an quatro misi che no te ho dò fastibio.

GNUA Mo el no è minga assé questo che te me dí adesso, a véerte cossí pover om? E anche sempre a n’he habú, che a me pensava ben mi che l’anderàe cossí, che te tornerissi frofante.

RUZANTE Mo l’è stò per mea sagura.

GNUA Mo porta an la penitinçia ti. Vuotu che la porte mi an, compagnon? Saràela mo onesta? A cherzo ben de no.

RUZANTE Mo a no he zà la colpa mi.

GNUA Mo si, a l’he mi, Ruzante. Chi no se mete a prígolo no guagna. A no cherzo che ti t’ habi cazò tropo inanzo per guagnare ché el se te ne veerae pur qualche segno. Se Diè m’aí te no si sto gnan in campo. Te si stò in qualche ospeale. No vitu che te he fato tuta la çiera de un furfante?

MENATO Víu, compare, se la è com a ve dighe mi? A di po vu de havere sfrisò, o tagiò el viso. Saràela mo megio per vu, ché la ’l creerae che a fossè stò soldò e braoso.

GNUA Compare, a vorae che l’haesse pí presto butò via un brazo o una gamba, o cavò un ogio, o tagiò via el naso, e che paresse che ’l foesse stò ananzo da valent’omo, e che paresse che l’ haesse fato per guagnare, o per me amore — intendíu, compare? No che a faza, compare, intendíu? — per roba, ché mi — intendíu? — no me pò mancare. Mo perché el par che l’ heba pur fato puoco conto de mi, che ’l sipia stò poltron, e che el s’habia portò da poltron — intendíu? El me promesse de morire o guagnare, e sí è tornò com a vi. No che, compare, a volesse che l’haesse male, mo chi creerae che ’l foesse stò in campo.

MENATO A v’intendo, comare. Se Diè m’aí, che haí rasòn. A ghe l’he dito an mi. A vossèvu un signale che ’l foesse stò ananzo, almanco cossí... una sfrisaura.

GNUA Sí, che ’l poesse dire e mostrarme: «A he questa per to amore».

RUZANTE Oh morbo a la roba e chi la fe mè.

GNUA Oh morbo a i da puoco, e a i traitore, che n’ha fe. Che me prometístu?

RUZANTE A te dighe che a son stò desgraziò.

GNUA Mo, se Diè m’aí, che te di ben vero. E mi mo che a stago ben e che a no son desgrazià, per no deventàr desgrazià, a no me vuò impazar pí con ti. E fa i fati tuò, che mi farè i miè. Oh iandussa, ve aponto el me omo. Làgame andare.

RUZANTE A incago al to omo. A no cognosso altro to omo al mondo ca mi.

GNUA Làgame andare, desgraziò, om da puoco, frofante, peogioso.

RUZANTE Vie’ con mi, te dighe! Pota, che te me farè... No me far abavare. Te no me cognussi. A no son pí da lagarme menare per el naso, com te fasivi.

MENATO Comare, andè via, che el no ve amaçerà.

GNUA Vaghe amazar d’i piuogi, che l’ha adosso.
 
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