Avevo scordato di ricordare l'importanza di Ruzzante per il ns.premio nobel per la letteratura e quanto Ruzzante ci sia alla base del suo Mistero Buffo che gli valse il nobel
Posto sotto dunque un' intervista a Fo che forse puo' chiarire,a chi fosse interessato alcuni aspetti della cosa.
Tavolo.
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La lingua del Ruzante
Conversazione con Dario Fo
a cura di Oliviero Ponte di Pino
Questa intervista è stata realizzata a Milano l'11 aprile 1995; è stata pubblicata in parte sul "manifesto" in occasione dell'assegnazione del Premio Nobel a Dario Fo nel 1997.
copyright Oliviero Ponte di Pino 1999
Prima di tutto vorrei che tu spiegassi perché nel tuo spettacolo non hai utilizzato la lingua di Ruzzante così com’era.
Perché la lingua di Ruzzante è una lingua morta. Non lo dico io, lo dice Ludovico Zorzi, che ha studiato profondamente Ruzzante. La sua è una lingua composita, non è soltanto dialetto pavano - il dialetto padovano dell’area agricola - ma è anche fatta di termini provenzali, friulani, lombardi, tutti legati al Cinquecento. C’è stata una grandissima trasformazione nei dialetti e nelle lingue, da allora a oggi. La lingua dei contadini padovani si è venetizzata, mentre allora era autonoma, anche nel contesto delle lingue venete.
Il dialetto pavano non esiste più perché è stato soppiantato dal veneto?
Certo. Il veneto è molto più dolce del pavano, meno aspro. Soprattutto i termini: per esempio, se io dico "jandùssa", nessuno capisce niente. Era la peste. Se dico "muzàr", significa "scappare". Non capisce più niente nessuno. Ho fatto due esempi, ma ne potrei farne duemila, e quando tu ti trovi tre o quattro termini come questi per frase, non capisce più nessuno.
Per esempio, dice il Ruzzante: "Invecio .. me so, no fui temp a sbolsonarme per ... della zovintezza". Questo significa: "Troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza". Ma del pavano di Ruzzante non si era capito niente. Perciò ho dovuto realizzare una trasformazione, adoperando ancora il testo di Ruzzante, che usa una quantità enorme di termini, di sinonimi e di allitterazioni: Ruzzante adopera normalmente "toso", "tosato", "figio", "puta", "puto", "puteo", "garsonetta", per dire "ragazzo" o "ragazza". Allora, approfittando di questa ricchezza, ho fatto una sintesi e sono arrivato a trovare questo grammelot. Anche se non si tratta di un grammelot vero e proprio, perché il grammelot è una lingua completamente inventata. Questo è un padano che ha però tutti i suoni e le cadenze e soprattutto la struttura della lingua originale pavana. Che ha una sua struttura lessicale, grammaticale ben chiara diversa dall’attuale padano.
Quindi c’è stato un tentativo di rendere più chiaro il vocabolario, il lessico della lingua di Ruzzante, mentre invece la struttura grammaticale e sintattica delle frasi è ricalcata su di essa.
Certo. Per esempio Ruzzante a un certo punto dice: "A ghe su un po’ arrivè a ste Vieniege (e io indico prima che Veniege è Venezia) che gavea più ansema mi de arivarghe kilò (e ho spiegato prima che kilò viene da illo, forma latina) che poteo fa men de giunzere alle tette sgionfiante de latte de la sua madre (arrivare alle tette gonfie di latte di sua madre)". Ecco, questa è la forma ritradotta, perché se dicessi quella originale non si capirebbe niente. Però la frase ha ancora la struttura grammaticale e la forza lessicale del pavano.
Quindi la lingua che usi nello spettacolo diventa molto più comprensibile di quanto sarebbe stato l’originale, e al tempo stesso rimanda al passato, a un’epoca precedente a quella che stiamo vivendo attualmente.
Certo. Ma c’è un’altra operazione fondamentale: rifarsi ai corrispettivi comici, tragici o satirici dell’epoca di Ruzzante, e ricostruirli. Nel senso che Ruzzante era un uomo legato al proprio tempo, fino in fondo. Nei suoi testi c’è sempre un legame con i fatti del suo tempo, sia alla cronaca sia alla quotidianità. Per esempio nel suo Parlamento allude a una guerra, a una strage e parla di "tradidoron" impiccati nei campi e nelle piccole piazze di Venezia: è un’allusione diretta ai poveri contadini che facevano parte dell’armata veneta: dopo la sconfitta contro la coalizione di spagnoli e francesi coalizzati si erano trovati allo sbando e venivano presi, processati e impiccati. Allora io mi preoccupo di dare prima al pubblico questa indicazione, di informarlo, perché altrimenti non capirebbe niente.
Un altro lavoro consiste nel ricostruire per intero la chiave comica che ormai si è perduta. Ci sono delle battute che non hanno più nessun senso e nel comico guai se all’appuntamento con una chiusura non risolvi in battuta, in risata: è come un atto musicale che non ha la sua chiusa. E allora si tratta di inventare chiavi veramente comiche, rispetto a quelle che non rendono più.
Finora abbiamo parlato dei motivi per cui non bisogna rifare Ruzzante così com’è: perché scriveva in una lingua che noi non capiamo più e perché molti dei suoi meccanismi comici sono da reinventare.
Non bisogna farli così come sono. Bisogna ricostruirli.
Adesso volevo capire le ragioni per cui val la pena fare Ruzzante, capire i motivi che ti hanno spinto a fare questo lavoro faticoso e lungo.
Ma perché in Ruzzante c’è una vitalità, una forza, un’invenzione del rapporto umano - e animale - con la terra, con la vita, con la sopravvivenza, con la lotta, con gli elementi. E’ veramente il canto del "naturale". Quello del "naturale non è un vezzo: era una posizione ben chiara e concreta, importante sul piano culturale, inventata dal Ruzzante, con altri intorno a lui ma di minor valore, in polemica rispetto all’Arcadia e al gioco neoclassico o classicheggiante, fasullo, che ha permeato di sé tutto il Rinascimento e che ha portato un certo gusto ed a una certa lettura della vita. Ruzzante, rispetto a tutti gli altri autori italiani dell’epoca, è un fatto a sé, atipico, che ha poi avuto un rilancio straordinario proiettandosi dentro tutto il teatro cinquecentesco e seicentesco, dall’Inghilterra alla Spagna, dalla Francia alla Germania. Ruzzante viene prima dei picareschi, dei racconti contadini - o meglio delle commedie in chiave contadina - tipo il Georges Dandin di Molière o i clown di Shakespeare o le situazioni agresti di Marlowe e via dicendo. Ha inventato la chiave fondamentale su cui si è fondato il teatro in Europa.
C’è un altro aspetto che vorrei sottolineare: il rapporto che poteva avere un personaggio come Ruzzante con la cultura della città, con l’aristocrazia e le corti da un lato; e dall’altro con la cultura contadina, il mondo che portava in scena nei suoi testi. Nella prima parte dello spettacolo descrivi Ruzzante come un intellettuale a metà strada tra questi mondi.
Troppo spesso si tende a dare una lettura di Ruzzante che per me è falsa. Si dice che Ruzzante è un uomo colto, e questo è giustissimo. Che è nato da una famiglia anche se era un bastardo, figlio di un grande dottore che è addirittura diventato rettore della Università di Padova. Ma dall’altra parte è figlio di una contadina. E’ metà e metà, è un bastardo: non ha il diritto di entrare nelle Università né di diventare un accademico, è tenuto un po’ in disparte, in tutti i sensi. E ne soffre moltissimo. A un certo punto si ritrova anche a fare un po’ l’esattore, l’amministratore di un grande imprenditore - oggi diremmo un imprenditore agricolo - che era anche il suo finanziatore e organizzatore, il suo capocomico, se vogliamo. Era Alvise Cornaro: ricchissimo, nobile, intelligente, molto colto, ingegnere, architetto, scrittore e padrone di territori. Allora, se si semplifica, Ruzzante il mondo contadino lo conosce, è vero, ma quasi da prevaricatore: va in giro a rilevare le tasse, fa commerci, decide le affittanze, forse determina anche le angherie (l’angheria era una forma di contratto di quel tempo con i contadini); e l’ambiente dove si esprime è la corte: quella dei Cornaro, quelle di Mantova e di Ferrara, le corti di Venezia... Ruzzante conosce tutti gli aristocratici, che lo adorano, lo stimano e lo reputano il più grande autore teatrale del loro tempo. Secondo questa lettura, ogni tanto forse Ruzzante ha recitato con la presenza dei contadini. Si ha notizia di un’associazione di artigiani, come diremmo oggi, che si tassano per invitarlo a realizzare uno spettacolo per loro. L’artigianato allora era la parte aristocratica dei lavoratori, i "meccanici", come si chiamavano allora. Il popolo c’è soltanto come contorno, lontano. Per esempio, durante gli spettacoli di Ferrara si sa che sono stati invitati numerosi contadini, che ridono sommessamente perché si rivedono e godono di questo spettacolo ma con molto pudore. Questa è la semplificazione che circola: si dice che in fondo Ruzzante è un autore di corte, che rimane in quell’ambiente. Ma uno come Ruzzante ha uno straordinario mestiere, e la capacità di portare all’osso le battute. Io sono un attore che ogni volta prende dei testi e li modifica, li mette a sintesi, li graffia, li massacra e li ristruttura. Quindi so leggere un testo, e capisco quando è stato mangiato, masticato, vomitato, ripreso e via dicendo. E sicuramente ogni testo di Ruzzante è stato recitato centinaia e centinaia di volte per arrivare al momento in cui è stato poi stampato in quel modo. Perché tutti i testi del Ruzzante sono stati stampati dopo la sua morte, lui non ha mai visto stampato neppure un suo quaderno. I testi sono stati raccolti dai vari attori che avevano lavorato con lui, che hanno preso i copioni corretti, ricorretti e rifatti, con le sintesi e i tagli. Per realizzare un simile lavoro sono necessarie centinaia e centinaia di rappresentazioni. E dove sono state fatte queste rappresentazioni? Se noi ragioniamo con la stessa mentalità degli accademici, non lo capiremo mai. Gli universitari si attengono soltanto alle cronache, tra l’altro incomplete o non esaminate completamente. Faccio un esempio: c’è una collezione di cronache di cinquanta volumi di tale Marino Sanuto: ne sono stati spulciati solo cinque.
Forse è il caso di precisare che Sanuto era un signore che nel suo diario annotava tutto quel che succedeva a Venezia e che andava molto spesso a teatro.
Zorzi parla di Sanuto, è uno dei pochi. Però ha letto solo cinquecento pagine su cinquanta volumi... Una percentuale irrisoria.
Sanuto, che è il tipico spettatore medio dell’epoca, registra anche le reazioni del pubblico.
Nelle sue cronache c’è la traccia addirittura di un risentimento verso Ruzzante. Ma tornando a Ruzzante, dove sono le altre rappresentazioni? Non dimentichiamo che Sanuto frequentava solo i luoghi che erano a livello della sua casta, e lui faceva parte di un’aristocrazia, di una borghesia alta che non andava certo a vedersi gli spettacoli dentro le strutture dei fabbricatori di navi o dei conciatori, dove si facevo questi spettacoli. Quindi grazie all’atteggiamento unilaterale e ristretto degli accademici noi abbiamo una falsa indicazione di quello che era realmente Ruzzante.