Barretta, Ariase - Litany

adyda

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Lasciatemi spendere un superlativo. Litany è veramente un romanzo bellissimo. Una storia che strappa il cuore. È uno di quei romanzi che – scusate l’inciampo nella retorica – vorresti leggere tutto d’un fiato, del quale non vedi l’ora di vedere come finisce; ma, nello stesso tempo, ti dispiace anche soltanto voltare pagina, staccare gli occhi da quelle righe così dense, liriche; allontanarti da quelle scene terrificanti e poetiche insieme.
Ma è anche decisamente innovativo: nello stile, nel modo di narrare, nella scelta personalissima del punto di vista e nel modo di dare corpo e voce ai personaggi.
Per tutto questo non è stato facile recensire Litany. Il timore era quello di rivelare troppo, di perdersi in troppe spiegazioni; e questo, nonostante Litany non sia certamente un giallo, non sarebbe stato un bene… Dal lato opposto si poteva correre il rischio di dire troppo poco, di lasciarsi andare in complimenti e lodi – peraltro meritate – ma che lasciano il tempo che trovano…
Resto quindi in quel mondo di accenni, tipicamente anglosassone, chiamato understatement sperando di riuscire a incuriosirvi, a stuzzicare quel tanto che basta la vostra voglia di leggere… ma tanto sono sicuro che, una volta letto Litany, dovrete per forza adottare metri di giudizio completamente diversi e nuovi. E cerco di spiegare perché.
Partiamo dal titolo.
Litany. Litania. Quel dialogo corale fra officiante e assemblea tipico delle funzioni religiose. Cioè, in pratica, una sorta di “botta e risposta”... che ci rivela gli studi e le doti di musicista di Ariase. Se stessimo analizzando una composizione musicale si potrebbe parlare, con Bach per esempio, di “contrappunto” se non addirittura di “contrappunto fiorito”. E infatti il contrappunto, il “botta e risposta” è ben presente nel romanzo; non tanto sul piano formale o strutturale, quanto su un piano che definirei “evocativo”: sono infatti le atmosfere che si alternano, che si rincorrono, che a volte si ripetono, fino a formare quasi un “canone” che avvolge il lettore in spire quasi inestricabili.
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A proposito di atmosfere. Vorrei soffermarmi un attimo sull’immagine qui a fianco: (Caspar David Friedrich – Viandante sul mare di nebbia).
È famosissima, e spesso è associata a un’atmosfera particolare, a una sensazione che viene normalmente definita del “sublime”. Ed è un’atmosfera che pervade molte parti di Litany. Ma per Ariase si potrebbe parlare quasi di un “sublime inverso” – se mi permettete questa definizione... Perché, se di norma – seguendo la scuola di Edmund Burke – il senso di sublime è qualcosa che lo spirito acquisisce dall’esterno, dall’atmosfera – appunto – che lo circonda, Litany, con i suoi protagonisti, sintetizza un tipo diverso di sublime, un sublime che nasce direttamente dal di dentro, dall’esperienza privata di dolore e sacrificio che ogni personaggio sperimenta sulla propria pelle, e riesce a trasfigurare, appropriandosene, ciò che di Bello o di Terribile ha di fronte a sé.
Penso sia quindi abbastanza intuibile l’intenso lavoro sul testo che Ariase ha portato avanti. Lo dimostra la volontà stessa di mantenere il racconto sospeso fra prosa e poesia, di creare cioè una sorta di “romanzo lirico”. E se, come dice Roland Barthes, “Testo vuol dire tessuto; [...] sperduto in questo tessuto - questa tessitura - il soggetto vi si disfa, simile a un ragno che si dissolva da sé nelle secrezioni costruttive della sua tela”, Ariase è riuscito a produrre un “intreccio” nel quale non è rintracciabile un solo significato, ma molteplici sensi, fino a un livello che si potrebbe definire universale.
Gli strumenti utilizzati, i “telai” – per continuare la similitudine – che hanno prodotto il tessuto di cui si parlava prima, sono da rintracciare nei simboli e nelle metafore di cui il romanzo è costellato. La ricca simbologia si fa vera modalità espressiva e stempera l’inquietudine, l’orrore, in quel sentimento particolare che poco fa ho provato a definire come “sublime inverso”. Nel romanzo si intrecciano simboli tipici della tradizione cristiana (primo fra tutti la croce, che il Bambino si carica in spalla in una sorta di Calvario privato) con altri di ascendente mitologico classico (esempio tipico, il cesto di frutta che il Bambino riceve in dono e che fa pensare alla classica cornucopia).
Concludo, spendendo giusto poche parole sui personaggi del romanzo.
Il Bambino.
La Signora.
Il Neonato.
Il Vecchio.
L’Uomo.
Nessuno di loro ha un nome, solo la qualifica scritta con l’iniziale maiuscola. Ognuno sineddoche di una condizione universale e ognuno parte essenziale, direi quasi “funzionale” (nell’accezione tipica, coniata da Vladimir Propp) della narrazione, di questa storia che è stata definita “favola horror”. Ma, pensandoci bene, quella definizione è ripetitiva: ogni vera favola è un horror e Litany, da questo punto di vista, non fa eccezione.
Fa eccezione invece la forte carica innovativa che ha in sé. E testimone ne sia il fatto che, come rivela Ariase stesso in un’intervista di Irene Losito – e come accade spesso a quasi tutto ciò che ha il sapore della novità – “La lettura del libro ha generato le reazioni più di disparate, ma mai l’indifferenza!”.


M.M.
 
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