Gli uomini che hanno fatto la storia

Inzio io.
Tavolo
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PIETRO NENNI

Le origini di Pietro Nenni
Nacque a Faenza, isola bianca nella Romagna gialla (repubblicana) e rossa (socialista), nel 1891 da una famiglia povera; diventerà ben presto orfano di padre e la madre sarà costretta a fare i lavori più umili per poter mantenerlo agli studi in un istituto di beneficenza nella sua nativa Faenza, sino ai sedici anni e cioè fino a quando fu cacciato per ribellione ai superiori ed alle ideologie che impersonava.

Pietro Nenni è il rappresentante tipico del popolano romagnolo, ribelle per istinto e fuori legge per la "cattiva" educazione di riflesso ricevuta dalla classe urbana dirigente, repubblicana, anticlericale, materialista.

In giovane età vide le prime repressioni perpetuate ai danni degli operai dagli agrari e dall’esercito; fu allora che scelse da che parte schierarsi, al fianco dei più umili e degli oppressi: fu fedele a ciò per tutta la vita.


Inizialmente aderì al movimento repubblicano

è fatale in Romagna che tutti i ribelli facciano il loro tirocinio rivoluzionario nelle Case repubblicane. Già allora la Romagna era una delle basi elettorali e di consenso di quello che sarà il partito dell’edera.

Fu romagnolo indubbiamente, fin quasi allo stereotipo.

Per la passionalità, per il primato assegnato alla pratica rispetto alla teoria, per la capacità di adattarsi in permanenza al mutare degli scenari politici. Repubblicano nel 1908, segretario (1911) della Camera del Lavoro di Forlì, contrario alla guerra di Libia nel 1911, nel 1913 diresse ad Ancona il settimanale Lucifero, fu protagonista nel 1914 della "settimana rossa" di Ancona, conobbe il carcere in compagnia di un altro romagnolo illustre: Benito Mussolini che all’epoca frequentava, anch’egli, gli ambienti dell’estrema sinistra e del movimento repubblicano.

Quale sia il repubblicanesimo predicato si può immaginare dalle sommosse antimilitariste del 1911 e 1914, per la famosa "settimana rossa" originata, come è noto, da un comizio antimilitarista tenuto il 7 giugno ad Ancona da Enrico Malatesta e da Pietro Nenni; nonché dall'adesione dei repubblicani all'anarchica Alleanza del Lavoro, avvenuta nel 1922 che diede luogo all'uscita dal Partito di una non esigua minoranza di inscritti, ora aggruppati attorno al manipolo di intellettuali facenti capo alla ravennate Italia del Popolo e guidati dall'ex-on. Comandini.

Le simpatie che i repubblicani non hanno mai negato di provare nei riguardi dell'anarchismo, dei suoi uomini e dei suoi metodi, si spiega col riconoscere che una non comune radice li ha espressi e li esprime: l'insurrezionismo, ereditato dai rivoluzionari del sec. XIX, ma specialmente da Mazzini.

"Furono sette giorni di febbre"


"Furono sette giorni di febbre" scriverà più tardi Pietro Nenni, "durante i quali la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà, più per la vigliaccheria dei poteri centrali e dei conservatori che per l'urto che saliva dal basso... Per la prima volta forse in Italia colla adesione dei ferrovieri allo sciopero, tutta la vita della nazione era paralizzata ".

Fu interventista a fianco di Mussolini durante la Grande Guerra

Fu "interventista rivoluzionario" a fianco di Mussolini nella grande guerra,

Nel 1919 fu tra i fondatori del primo fascio di combattimento a Bologna.

Subito riconosciuta nel fascismo la reazione, nel 1920 lasciò il Pri e nel 1921 divenne socialista.

Le strade di Nenni e di Mussolini si dividono

è qui che le strade di Nenni e di Mussolini si dividono; Mussolini diventerà il fondatore ed il capo indiscusso del fascismo, invece Nenni rimarrà fedele al socialismo e sarà uno dei massimi esponente dell’antifascismo e della democrazia e della sinistra italiana.

Nel 1922 colse nella marcia su Roma il disvelamento della natura reazionaria della democrazia borghese.

L’anno di adesione di Nenni al PSI, il 1921, coincise con la scissione comunista di Livorno; ciò fu una ferita aperta per tutta la vita dello statista socialista: per tutta la vita cercò di rimarginare le ferite ed i danni che tale evento aveva provocato nella democrazia e nella sinistra italiana.

Durante il ventennio fascista fu uno dei massimi dirigenti del socialismo e dell’antifascismo italiano ed internazionale: dalla Spagna alla Resistenza italiana la presenza di Nenni era sempre stata assidua e sicuro punto di riferimento per tutti i democratici.

Si oppose però alla fusione dei massimalisti con il Pcd'I e si battè per l'unità con i riformisti di Turati.

Nel 1925 fondò con Rosselli la rivista Quarto Stato. Emigrò poi a Parigi.

Durante la guerra di Spagna nel 1936 fu commissario politico nelle Brigate Internazionali, e combatté al fianco di democratici provenienti da tutto il mondo. E’ proprio a partire dall’esperienza spagnola che vennero poste le basi dell’unità politica d’azione con i comunisti di Palmiro Togliatti.

Confinato a Ponza, dopo la caduta del Duce andò a Roma e nel periodo della Resistenza assunse, con Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e Lelio Basso la guida del PSI finalmente riunificatosi con il nome di Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP)

Ecco in questo LINK una sua bella immagine giovanile:

http://www.racine.ra.it/orione39/alfonsine/Alfonsine/immagini/NENNIgiov.jpg
 
PIERO GOBETTI

Piero Gobetti nacque a Torino il 19 giugno del 1901. Dopo le scuole elementari frequenta il liceo-ginnasio "Gioberti" e lì conosce Ada Prospero, figlia di un commerciante come lui, che diventerà sua moglie. Studente universitario di acuta intelligenza, pubblica a diciassette anni la sua prima rivista, "Energie Nove", nel novembre del 1918, ricca di riferimenti a Prezzolini, Gentile, Croce e con la quale diffuse le idee liberali di Einaudi. Si appassiona ai bolscevichi, studia il russo e scrive in cirillico alla fidanzata. Definisce subito il fascismo "movimento plebeo e liberticida", l'antifascismo "nobilità dello spirito", l'Italia un Paese senza un vero Risorgimento, una Riforma protestante, una Rivoluzione liberale. Interpreta la rivoluzione di Lenin e Trotzky come rivoluzione liberale, perché è azione, movimento e tutto quello che si muove va verso il liberalismo. Apprezza i bolscevichi in quanto élite, detesta lo statalismo e il protezionismo della vecchia Italia giolittiana. Esponente della sinistra liberale progressista, collegata con l'intellettuale meridionalista Gaetano Salvemini. Estimatore di Antonio Gramsci e del giornale socialista e poi comunista Ordine Nuovo, Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista. Nel maggio del 1919 viene bollato da Togliatti sulle pagine di "Ordine Nuovo" come "parassita della cultura". Ma nell'autunno del 1920 il sostegno di Gobetti all'occupazione delle fabbriche e i suoi frequenti incontri con gli operai e comunisti torinesi migliorano molto i rapporti, tanto che Gramsci gli affida la rubrica di teatro della rivista. La classe operaia, in particolare quella torinese dei consigli di fabbrica, che frequenta insieme ai socialisti di Ordine nuovo, diventa per lui la leva che innoverà il mondo: non verso il socialismo, ma verso "elementi di concorrenza". Togliatti non lo ama, Gramsci lo apprezza, i liberali Salvemini e Croce sono incuriositi dall'intelligenza del ragazzo. A vent'anni, il 12 febbraio del 1922, fa uscire il primo numero della rivista "La Rivoluzione Liberale" che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberale, collegato ad altri nuclei liberali di Milano, Firenze, Roma, Napoli, Palermo. Vi collaborano intellettuali di diversa estrazione, tra cui Amendola, Salvatorelli, Fortunato, Gramsci, Antonicelli e Sturzo. Più volte arrestato nel '23-24 dalla polizia fascista, la sua rivista è ripetutamente sequestrata. Lo stesso Mussolini si interessa di lui e telegrafa al prefetto di Torino: "Prego informarsi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore". Nel '24 fonda la rivista letteraria "Il Baretti", alla quale collaborano Benedetto Croce, Eugenio Montale, Natalino Sapegno, Umberto Saba ed Emilio Cecchi. Il 5 settembre del '24, mentre sta uscendo di casa, è aggredito sulle scale da quattro squadristi che lo colpiscono al torace e al volto, rompendogli gli occhiali e procurandogli gravi ferite invalidanti. Costretto a espatriare in Francia, mai più riavutosi dalle ferite, muore esule a Parigi nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1926. Non aveva nemmeno venticinque anni, che avrebbe compiuto il 19 giugno di quell'anno. È sepolto nel cimitero di Père Lachaise. Saggista e autore di numerosi scritti culturali e politici pubblicati in Italia e all'estero, simbolo del liberalismo progressista sensibile al riscatto delle classi lavoratrici, la sua opera fu raccolta e pubblicata postuma: Opere critiche (1926); Paradosso dello spirito russo (1926); Risorgimento senza eroi (1926).

ECCO una sua bella immagine giovanile:


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ANDREA COSTA

Di idee dapprima anarchiche, si avvicinò al socialismo anche grazie a Anna Kuliscioff, che fu sua compagna per alcuni anni e dalla quale ebbe una figlia, Andreina Costa, nata nel 1881.

Tra i fondatori della sezione italiana della Lega Internazione dei Lavoratori, nata su iniziativa di Bakunin nel 1867 e scioltasi dopo i moti di Bologna, Napoli e Benevento (1874. L'8 agosto 1874 fu arrestato a Imola per aver organizzato un'insurrezione di internazionalisti anarchici.

Nel 1879 Costa uscì dal carcere e si trasferì in Svizzera, a Lugano. Qui scrisse la lettera intitolata Ai miei amici di Romagna, in cui indicava la necessità di una svolta tattica del socialismo, che doveva passare dalla «propaganda per mezzo dei fatti» a un lavoro di diffusione di principii, che non avrebbe presentato risultati immediati, ma avrebbe ripagato sul medio periodo. La lettera fu pubblicata dall’organo della "Federazione Alta Italia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori", La Plebe.

Nell'agosto 1881 fondò a Rimini il «Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna». Nello stesso anno partecipò alla fondazione del settimanale cesenate Avanti!

Nel 1882 Costa si candidò alla Camera, nei collegi di Imola e di Ravenna. Fu eletto in quest'ultima città, diventando così il primo deputato di idee socialiste nel parlamento italiano. Nell'agosto 1883, per coordinare l'opposizione delle sinistre, fonda il Fascio della democrazia insieme a Giovanni Bovio e Felice Cavallotti.
Iniziato Massone il 25 settembre 1883 nella Loggia Rienzi di Roma, ricoprì la carica di Grande Maestro Aggiunto del Grande Oriente d'Italia.

Il 5 aprile 1889 il Tribunale di Roma lo condannò a tre anni di reclusione per "ribellione alla forza pubblica", a seguito dei disordini scoppiati durante una manifestazione in memoria di Guglielmo Oberdan. Nel marzo 1890 fu nuovamente condannato per "ribellione", avendo partecipato a Roma alle agitazioni degli operai edili.

Costa, alleato e contemporaneamente critico del Partito Operaio Italiano e di Filippo Turati, partecipò nel 1892 al Congresso di Genova, in cui tutte le forze socialiste si unificarono nel «Partito dei Lavoratori Italiani» (dal 1895 Partito Socialista Italiano).

Nel febbraio 1897, nel corso del vivace dibattito parlamentare seguito al massacro di Dogali, coniò la parola d'ordine "né un uomo né un soldo" per l'impresa africana. Nel 1898 fu tra i promotori della tragica protesta dello stomaco di Milano, repressa a cannonate da Bava Beccaris; arrestato con altri esponenti socialisti, la Camera dei deputati negò l'autorizzazione a procedere e venne liberato.

Dal 1908 al 1910 fu vicepresidente della Camera dei deputati.

Andrea Costa è sepolto nel cimitero monumentale di Imola. Sulla grande lapide è incisa l'epigrafe dettata dall'amico Giovanni Pascoli per la sua morte.

Ritratto :
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SANDRO PERTINI


Durante la prima guerra mondiale, Pertini combatté sul fronte dell'Isonzo, e per diversi meriti sul campo gli fu conferita una medaglia d'argento al valor militare nel 1917. Congedato con il grado di capitano, nel Dopoguerra aderì al Partito Socialista Italiano e si distinse per la sua energica opposizione al fascismo. Perseguitato per il suo impegno politico contro la dittatura di Mussolini, nel 1925 fu condannato a otto mesi di carcere, e quindi costretto a un periodo di esilio in Francia per evitare una seconda condanna. Continuò la sua attività antifascista anche all'estero e per questo, dopo essere rientrato sotto falso nome in Italia nel 1929, fu arrestato e condannato dal Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato prima alla reclusione e successivamente al confino.

Nel 1943, alla caduta del regime fascista, fu liberato, e partecipò alla battaglia di Porta San Paolo nel tentativo di difendere Roma dall'occupazione tedesca. Contribuì poi a ricostruire il vecchio PSI fondando insieme a Pietro Nenni il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Nello stesso anno fu catturato dalle SS e condannato a morte, ma riuscì a salvarsi grazie a un intervento dei partigiani dei GAP.

Divenne in seguito una delle personalità di primo piano della Resistenza italiana e fu membro della giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale in rappresentanza del PSIUP. Da partigiano fu attivo soprattutto a Roma, in Toscana, Val d'Aosta e Lombardia, distinguendosi in diverse azioni che gli valsero una medaglia d'oro al valor militare. Nell'aprile 1945 partecipò agli eventi che portarono alla liberazione dal nazifascismo, organizzando l'insurrezione di Milano, e votando il decreto che condannò a morte Mussolini e altri gerarchi fascisti.

Nell'Italia repubblicana fu eletto deputato all'Assemblea Costituente, quindi senatore nella prima legislatura e deputato in quelle successive, sempre rieletto dal 1953 al 1976. Ricoprì per due legislature consecutive, dal 1968 al 1976, la carica di Presidente della Camera dei deputati, per essere infine eletto Presidente della Repubblica Italiana l'8 luglio 1978.

UNA SUA BELLA IMMAGINE nel LINK:

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FELICE CAVALLOTTI



Figlio di Francesco, originario di Venezia, trasferitosi a Milano per ragioni di lavoro e di Vittoria Gaudi, milanese, Cavallotti fu considerato il capo incontrastato dell'"Estrema sinistra" nel parlamento dell'Italia liberale pre-giolittiana.

Abbandonata la famiglia a diciotto anni per unirsi alla seconda fase della Spedizione dei Mille, Felice Cavallotti combatté con i Garibaldini nel 1860, e nel 1866 in Valtellina e in Trentino, ove prese parte alla Terza Guerra d'Indipendenza come volontario nel 4º Reggimento comandato dal colonnello Giovanni Cadolini del Corpo Volontari Italiani. Si distinse per valore nella battaglia di Vezza d'Oglio. Nel 1867 fu di nuovo al fianco di Garibaldi nella Roma pontificia, durante la fallita insurrezione che vide l'intervento delle truppe francesi in aiuto di Pio IX.

Come scrittore Cavallotti commentò le azioni dei Garibaldini per il giornale milanese L'Unione e per il napoletano L'Indipendente di Alexandre Dumas padre; tra il 1866 ed il 1872 scrisse satire anti-monarchiche per la Gazzetta di Milano e per la Gazzettina Rosa.


Dopo la morte di Agostino Bertani, avvenuta nel 1886, la passione di Cavallotti nel rivendicare riforme, ed una riconosciuta generosità d'animo da parte dei contemporanei, gli assicurarono la leadership della sua parte politica ed una popolarità seconda solo a quella di Francesco Crispi.

Nel 1873, all'età di 31 anni, Felice Cavallotti fu eletto per la prima volta al Parlamento come deputato di Corteolona. Molto attivo contro gli ultimi governi della Destra storica, Cavallotti fu scettico anche a proposito della Sinistra, che salì al potere nel 1876, e si tenne all'opposizione, denunciandone il trasformismo negli anni di Agostino Depretis.

Tramite un'intesa conclusa nel 1894 con Antonio Starrabba, Marchese di Rudinì, egli ottenne molte concessioni alle richieste radicali. Durante i dodici anni sotto la sua guida il partito, che sposò una posizione filo-francese, crebbe in numero da venti a settanta deputati, ed al momento della sua morte l'influenza parlamentare di Felice Cavallotti era all'apice.


Cavallotti, che nel 1871 aveva espresso il proprio appoggio alla Comune di Parigi, mostrava attenzione verso le idee marxiste, pur non condividendo fino in fondo l'approccio di classe alla “questione sociale” che peraltro anche lui denunciava da parlamentare. Se i socialisti vedevano nel Partito Radicale una sinistra borghese, nei fatti radicali e socialisti si trovarono insieme nelle lotte per l'emancipazione delle classi subalterne e nell'opposizione al colonialismo italiano. Il primo operaio ad essere eletto parlamentare, nel 1882, tra le file dei radicali fu Antonio Maffi. E a Napoli, colpita dall'epidemia di colera, a trovarsi al fianco delle classi popolari nel 1885 furono il socialista Andrea Costa, l'anarchico Errico Malatesta e il radicale Cavallotti.




Felice Cavallotti morì il 6 marzo 1898, ucciso in duello dal conte Ferruccio Macola, direttore del giornale conservatore Gazzetta di Venezia, che lo aveva sfidato in seguito ad un diverbio. Il radicale aveva tacciato di mentitore il conte, responsabile di avere pubblicato una notizia non verificata relativa ad una querela che egli aveva ricevuto come deputato. L'ultimo duello di Felice Cavallotti ebbe luogo a Roma, presso Porta Maggiore, in un giardino nella villa della contessa Cellere. Felice Cavallotti morì raggiunto alla bocca ed alla carotide dalla sciabola dell'avversario. Con la sua morte, gli elementi dell'Estrema Sinistra in Italia persero un leader, e la Casa di Savoia un instancabile oppositore. Per la morte di Felice Cavallotti, Giosuè Carducci pronunciò un discorso funebre pieno di passione all'Università di Bologna. Un corteo di tre chilometri ne accompagnò il feretro fino al cimitero di Dagnente (oggi frazione di Arona), sul Lago Maggiore, dove è sepolto.

UN RITRATTO:

http://www.liberliber.it/biblioteca/c/cavallotti/immagini/ritratto.jpg
 
CARLO CAFIERO

Carlo Cafiero è stato il più importante discepolo italiano di Bakunin nella seconda metà dell’Ottocento. Originario di Barletta, fu il primo divulgatore del Capitale di Marx in Italia nel 1879, oltre che amico sincero dell’anarchico russo per alcuni anni. Tra il 1871 e il 1872 Engels confidò molto in Cafiero per contrapporre un vero socialista ai seguaci di Bakunin che stavano spadroneggiando nel napoletano, tanto che, descrivendo la situazione a Napoli, all’inizio del 1872, ad un suo corrispondente, sosteneva riferendosi a Cafiero che, vi erano tutti bakuninisti, e vi è soltanto uno, fra loro, che è per lo meno di buona volontà, ed è con me in corrispondenza. Cafiero non ha elaborato un pensiero organico che, partendo da una visione complessiva della realtà, giunga a proporre una riforma della società che sia in grado di porre termine alle ingiustizie e ai soprusi di cui ci dà notizia la storia. Per questo motivo, illustrando ad Engels il suo atteggiamento politico-filosofico, non fu in grado di andare al dilà di una generica professione di razionalismo. Per me, non so se vi siate accorto, io non sono che un razionalista materialista; ma il mio materialismo, socialismo, rivoluzionarismo, anarchismo, e tutto ciò che lo sviluppo continuo del pensiero ci potrà dare in avvenire e che sarà da me razionalmente accettato, non possono essere per me che delle modalità eminentemente soggettive allo sviluppo razionale: sono e sarò razionalista, ecco tutto. Il suo scritto più originale "Anarchia e comunismo" del 1880 parte dalla convinzione che la rivoluzione sia una legge che regola la storia dell’umanità e che rende possibile il progresso dei popoli nel corso del tempo: La rivoluzione è causa ed effetto di ogni progresso umano, è la condizione di vita, la legge naturale dell’umanità: arrestarla è un crimine; ristabilire il suo corso è un dovere umano. Cafiero era convinto che la società borghese dell’Ottocento fosse profondamente ammalata e che per essa non vi fosse speranza di guarigione se non attraverso una rivoluzione, della cui necessità il proletariato cominciava a rendersi conto, come gli scioperi, le manifestazioni di protesta e le rivolte sempre più frequenti in tutti gli stati europei dimostravano eloquentemente. La meta a cui bisogna tendere è la libertà, che non può consistere nel semplice riconoscimento dei diritti borghesi, incapaci di incidere sulle condizioni di vita dei lavoratori e di soddisfare le loro esigenze più importanti; la via a cui ricorrere per liberare l’umanità da ogni catena è la rivoluzione violenta. Per questo motivo Cafiero è contrario al socialismo ufficiale che persegue il proprio disegno nel rispetto pieno della legalità, attraverso una via evoluzionistica (l’attuazione graduale di una politica di riforme a vantaggio del proletariato), e giudica il passaggio di Andrea Costa nel 1881 dall’anarchismo al socialismo e all’azione parlamentare un vero tradimento della causa del proletariato. Il nostro rifiuto di partecipare a ogni azione parlamentare, legale e reazionaria, è la fiducia nella rivoluzione violenta e anarchica, nella vera rivoluzione della canaglio. Per Cafiero non c’è vera libertà senza l’anarchismo, come non può esserci effettiva uguaglianza tra gli uomini senza il comunismo. Infatti l’anarchia viene concepita come la condizione del libero sviluppo sia dell’individuo che della società e il comunismo viene considerato come riappropriazione, da parte dell’umanità nel suo complesso, di tutte le ricchezze della terra, delle quali era stata espropriata ad opera di una minoranza. Il suo pensiero, per il quale accetta le definizioni di collettivismo e di comunismo, che considera sinonimi, ha sulla scia di Bakunin, un orientamento nettamente anti-individualistico, non è tutto affermare che il comunismo è una cosa possibile; possiamo affermare che è necessario. Non solo si può essere comunisti; bisogna esserlo, a rischio di fallire lo scopo della rivoluzione una volta ci dicevamo "collettivisti" per distinguerci dagli individualisti e dai comunisti autoritari, ma in fondo eravamo semplicemente comunisti antiautoritari, e, dicendoci "collettivisti" pensavamo di esprimere in questo modo la nostra idea che tutto dev'essere messo in comune, senza fare differenze tra gli strumenti e i materiali di lavoro e i prodotti del lavoro collettivo....Non si può essere anarchici senza essere comunisti.Dobbiamo essere comunisti, perché nel comunismo realizzeremo la vera uguaglianza. Dobbiamo essere comunisti perché il popolo, che non afferra i sofismi collettivisti, capisce perfettamente il comunismo. Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l'anarchia e il comunismo sono i due termini necessari della rivoluzione. Cafiero è ottimista (di un ottimismo che sconfina nell’utopia) nel valutare la società che sorgerà nel futuro, dopo il successo della rivoluzione anarchica: le ricchezze e i beni a disposizione degli uomini per soddisfare i loro bisogni aumenteranno in quantità per noi inimmaginabile, perché saranno il prodotto spontaneo di lavoratori liberi, senza intermediari e privi di interessi eglistici o speculativi. Per questo sarà possibile, secondo la famosa formula usata da Marx nella Critica del programma di Gotha della socialdemocrazia tedesca, dare alla società secondo le proprie forze e ricevere a seconda dei propri bisogni, e non con un criterio meramente.


UNA SUA BELLA IMMAGINE NEL LINK SOTTO:

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CARLO ROSSELLI
(e il fratello NELLO)

Carlo Rosselli nasce a Roma il 16 novembre 1899 presso una famiglia in cui sia il padre (Giuseppe Emanuele Rosselli) che la madre (Amelia Pincherle) vantavano una lunga tradizione familiare repubblicana e con partecipazioni ai moti risorgimentali (Giuseppe Mazzini morì in una casa dei Rosselli a Pisa e un parente di Amelia Pincherle fu ministro durante il breve periodo di potere repubblicano) . In famiglia, Carlo é il secondo di tre figli: Aldo (1895-1916) é il primogenito, mentre l'anno seguente nascerà Nello (1900–1937).

Dopo il divorzio dei genitori, i figli seguono la madre, Amelia, a Firenze, dove Carlo non si dimostra studente molto diligente. Morto Aldo durante il primo conflitto mondiale, nel giugno del 1917 Carlo va a svolgere il servizio militare, congedandosi come tenente senza però aver mai partecipato ad un combattimento. Il servizio militare é però importante per la sua vita perché lo mette in condizione di conoscere la povertà di alcuni suoi commilitoni provenienti dalle classi meno agiate.

Laureatosi in Scienze Sociali nel 1921 con una tesi sul sindacalismo, Nello gli presenta Gaetano Salvemini, noto intellettuale antifascista ed in seguito tra i fondatori negli USA della Mazzini Society. Per Salvemini, con cui Carlo partecipa all'intensa attività del "Circolo di cultura fiorentina", la tesi di laurea di Rosselli era un modo di ricercare una forma di socialismo che potesse inglobare le idee liberali. In quel periodo conosce anche Piero Gobetti, Luigi Einaudi, Pasquale Jannacone e Achille Loria.

Dopo il XIX congresso del partito socialista (1922), che decreta l’espulsione dei riformisti di Treves, Turati e Matteotti, Carlo Rosselli si schiera con la corrente riformista che sancirà la nascita del partito socialista unitario, a cui si iscriverà dopo il barbaro assassinio di Matteoti.

Laureatosi anche in legge, con tesi Prime linee di una teoria economica dei sindacati, si trasferisce a Londra qualche mese per approfondire i suoi studi. Nel 1925 Carlo, Nello Rosselli ed Ernesto Rossi fondano il giornale clandestino «Non Mollare», a cui i fascisti rispondono devastandogli la casa materna e aggredendolo fisicamente Carlo.


Bandiera di Giustizia e Libertà, movimento antifascista costituitosi a Parigi nel 1930
Nel 1926 si sposa con l'eterna fidanzata Marion Cave, a luglio abbandona l'insegnamento e subisce la soppressione fascista del giornale socialista Il Quarto Stato, che indurrà Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Riccardo Bauer ad organizzare l'espatrio clandestino di molti uomini socialisti minacciati dai fascisti: es. Treves, Saragat e Turati.

Condannato insieme a Ferruccio Parri nel 1927 a 5 anni di confino a Lipari per aver organizzato l'espatrio di Filippo Turati, riesce ad organizzare la propria fuga insieme ad Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti, futuro comandante nella rivoluzione spagnola della centuria Errico Malatesta, e Gioacchino Dolci. Giunti a Parigi nel luglio 1929, Rosselli riprende la sua attività politica nell'ambito del "fuoriuscitismo" antifascista. Nel novembre 1929 è tra i fondatori del movimento rivoluzionario antifascista Giustizia e Libertà, che unisce democratici, socialisti e repubblicani . Carlo Rosselli, insieme ad Alberto Tarchiani, descrive su «Stampa Libera» il cosiddetto "volo di Bassanesi" ed edita in lingua francese il testo Socialismo liberale. Nel biennio [1930]-32 Carlo e Nello si occupano delle pubblicazioni antifasciste, in particolare dei «Quaderni di Giustizia e Libertà».

Disciolta nel 1934 la Concentrazione antifascista parigina a causa di dissidi anche con Giustizia e Libertà, denuncia le occupazioni coloniali italiane (Perché siamo contro la guerra d’Africa?, 1935) e poi parte volontario in Spagna per combattere nelle fila del fronte rivoluzionario antifranchista.

L'opera dei fratelli Rosselli evidentemente infastidisce non poco il regime fascista: Carlo e Nello Rosselli vengono assassinati il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne (Francia) da affiliati dell’organizzazione terroristica di destra "La Cagoule" .

I fratelli Rosselli sono inizialmente sepolti nel cimitero monumentale parigino di Père Lachaise, ma i familiari nel 1951 ne traslarono le salme al cimitero di Trespiano (Firenze).

L'assassinio dei fratelli Rosselli e sviluppi conseguenti
I fratelli Rosselli (Nello e Carlo) sono assassinati a Bagnoles-de-l'Orne (risiedevano in quel momento presso l'istituto delle cure termali) da un gruppo di fuoco del gruppo di estrema destra "La Cagoule" il 9 giugno del 1937, ma dal processo conseguente messo in piedi nel dopo guerra risulterà che i mandanti furono il servizio segreto fascista in accordo con Galeazzo Ciano che era sia genero che ministro di Mussolini.

NEL LINK UNA BELLA IMMAGINE DI CARLO:

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ERRICO MALATESTA

Impossibile dare conto compiutamente della vita di Malatesta, forse il più grande rivoluzionario degli ultimi due secoli. Nato da una famiglia della borghesia agraria a Santa Maria Capua nel 1853, giovanissimo repubblicano, nel 1871 approdò all’internazionalismo anarchico. Il suo impegno congiunto a quello di Cafiero, Bakunin e Costa fece sì che il socialismo, in Italia, nascesse anarchico. Promosse i moti insurrezionali di Bologna nel 1874 e del Matese nel 1877. Nel 1879 fu costretto a lasciare l’Italia per evitare la prigione, e trascorse dieci anni in America Latina nei quali organizzò il movimento anarchico locale e si recò in Patagonia insieme ad altri compagni alla ricerca dell’oro per finanziare le attività del movimento. Tra il 1890 ed il 1897, cercò di portare il movimento anarchico italiano sul terreno dell’organizzazione. Dopo i moto del 1898, fu arrestato e confinato a Lampedusa. Di qui fuggì in Tunisia, Inghilterra e Stati Uniti, per poi tornare a Londra, dove rimase sino al 1913. Partecipò al congresso internazionale anarchico ad Amsterdam nel 1907. In Italia, nel 1914, fu tra i principali promotori della settimana rossa, conclusasi negativamente la quale fu costretto ad un nuovo esilio in Inghilterra. Nel 1919, tornò clandestinamente in Italia, e a Genova fu accolto da una folla oceanica, che lo invocò come il Lenin d’Italia. Tra il 1919 ed il 1920 partecipò al biennio rosso, e nel 1920 fondò e diresse il quotidiano anarchico "Umanità Nova" (50mila copie di tiratura). Nello stesso anno promosse l’organizzazione dell’Unione Anarchica Italiana (UAI) con più di trentamila iscritti. L’avvento al potere di Mussolini frenò ma non spezzò la sua attività: "Umanità Nova" costretta a chiudere nel 1922, la sua redazione devastata, Malatesta fondò una nuova rivista, quindicinale, dal carattere culturale e teorico per sfuggire alla censura fascista, "Pensiero e Volontà". Tra il 1926 ed il 1932, dopo la chiusura forzata di questa rivista, Malatesta fu costretto agli arresti domiciliari, con due poliziotti giorno e notte fuori dalla sua porta, pronti ad arrestare chiunque andasse a fargli visita. I suoi funerali, nel 1932, si svolsero per volere delle autorità in forma privata e il suo feretro fu accompagnato al cimitero da un plotone di carabinieri. Per mesi alcuni poliziotti sorvegliarono la sua tomba, impedendo a chiunque di avvicinarsi.
Questi i punti del suo programma:
1. Abolizione della proprietà privata della terra, delle materie prime e degli strumenti di lavoro, perché nessuno abbia il mezzo di vivere sfruttando il lavoro altrui, e tutti, avendo garantiti i mezzi per produrre e vivere, siano veramente indipendenti e possano associarsi agli altri liberamente, per l'interesse comune e conformemente alle proprie simpatie.
2. Abolizione del governo e di ogni potere che faccia la legge e la imponga agli altri: quindi abolizione di monarchie, repubbliche, parlamenti, eserciti, polizie, magistratura ed ogni qualsiasi istituzione dotata di mezzi coercitivi.
3. Organizzazione della vita sociale per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e di consumatori, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati dalla scienza e dall'esperienza e liberi da ogni imposizione che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile, volontariamente, si sottomette.
4. Garantiti i mezzi di vita, di sviluppo, di benessere ai fanciulli, ed a tutti coloro che sono impotenti a provvedere a loro stessi.
5. Guerra alle religioni ed a tutte le menzogne, anche se si nascondono sotto il manto della scienza. Istruzione scientifica per tutti e fino ai suoi gradi più elevati.
6. Guerra alle rivalità ed ai pregiudizi patriottici. Abolizione delle frontiere, fratellanza fra tutti i popoli.
7. Ricostruzione della famiglia, in quel modo che risulterà dalla pratica dell'amore, libero da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, da ogni pregiudizio religioso.

ECCO UNA BELLA IMMAGINE DI MALATESTA:

http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/299/img/19.jpg
 
GIUSEPPE SARAGAT

Figlio di immigrati sardi (il padre era nativo di Sassari), faceva parte di una famiglia appartenente alla media borghesia italiana. Nel 1922 aderì al socialismo, non tanto per vocazione ideologica, quanto per solidarietà nei confronti della gente povera, ovvero quel proletariato che andava organizzandosi, oppresso dai "figli di papà" come ebbe a dire lui stesso.

Socialista del filone riformista ed umanitario, si nutrì della cultura politica di Filippo Turati, divenendo così esponente di primo piano del Partito Socialista Unitario, il partito nato dalla scissione dei riformisti turatiani dal PSI, del quale Giacomo Matteotti era segretario.


Durante il ventennio fascista emigrò in Francia, Austria e Svizzera, stringendo con il socialista Pietro Nenni un'alleanza politica che porterà alla riunificazione di PSI e PSU con il Movimento di Unità Proletaria, dando così vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP). Questi furono anni in cui Saragat entrò anche in contatto con molti autorevoli esponenti dell'"Austromarxismo" che teorizzarono la conciliabilità del pensiero di Marx con la socialdemocrazia (in particolare Renner e Bauer), e più in generale personalità della socialdemocrazia mittleuropea che influenzò la sua formazione intellettuale.

Tornò in patria nel 1943 per combattere contro la Repubblica di Salò: arrestato e consegnato alle autorità tedesche in seguito alla repressione voluta dal generale Enrico Adami Rossi, venne rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli, dove divise la cella con un altro futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Riuscì ad evadere, insieme a Pertini, grazie a un gruppo di partigiani che falsificarono un ordine di scarcerazione e si trasferì a Milano, dove lavorò per il partito socialista. Fu Ministro senza portafoglio nel 1944 durante il governo Bonomi II, nel 1945 fu ambasciatore d'Italia a Parigi per un brevissimo periodo.


Nel 1946 venne eletto deputato all'Assemblea Costituente, di cui fu presidente sino al 1947, anno in cui Alcide De Gasperi ruppe l'accordo con socialisti e comunisti. Contrario all'alleanza tra i socialisti ed il Partito Comunista Italiano, nel gennaio del 1947 diede vita alla cosiddetta "scissione di palazzo Barberini", in cui vide la nascita il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, che nel 1951 divenne Partito Socialista Democratico Italiano in seguito alla fusione con il nuovo Partito Socialista Unitario di Giuseppe Romita.

Nelle elezioni politiche del 1948 si scagliò contro il Fronte Democratico Popolare, l'alleanza social-comunista in cui militava anche il "caro nemico" Nenni: durante la campagna elettorale il Fronte gli rimproverò l'alleanza con la Democrazia Cristiana, usando contro Saragat alcune espressioni politicamente denigratorie quali social-fascista, social-traditore, rinnegato. In quelle consultazioni il suo cartello politico, denominato per l'occasione Unità Socialista, ottenne poco più del 7% dei voti alla Camera dei deputati e circa il 4,1% al Senato della Repubblica, ottenendo 43 seggi in totale nel Parlamento italiano.


Giuseppe Saragat con Sandro Pertini (1979)Più volte vicepresidente del Consiglio nei governi De Gasperi, fu anche ministro degli Esteri dal 1963 al 1964 e si schierò a favore della formula politica del centro-sinistra.


Il 28 dicembre del 1964 fu eletto Presidente della Repubblica italiana al 21º scrutinio, grazie anche ai voti decisivi dei socialisti e dei comunisti. Terminato il suo mandato nel 1971, Saragat divenne di diritto senatore a vita, ma ebbe anche l'occasione di ritornare al suo partito, di cui divenne presidente nel 1976.

Socialista liberale, Saragat viene oggi considerato il padre della dottrina socialdemocratica italiana. Riformista, egli accettò l'adesione dell'Italia all'alleanza occidentale (fu favorevole al Piano Marshall e all'ingresso del nostro paese nella NATO); Saragat era convinto che la socialdemocrazia potesse essere politicamente un valore aggiunto e che avrebbe potuto avere una posizione elettoralmente egemonica, come del resto avveniva nei paesi del nord-Europa

ECCOLO IN UNA BELLA FOTO CON IL SUO EX COMPAGNO DI CELLA E CONDANNNATO A MORTE PERTINI:

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/dd/Sandro_Pertini_e_Giuseppe_Saragat.jpg
 
GIACOMO MATTEOTTI

Giacomo Matteotti nacque il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, un piccolo paese non distante da Rovigo. Era una famiglia di modesta estrazione la sua e Giacomo era ancora uno studente del liceo Celio di Rovigo quando la politica entrò nella sua vita.
Fu il primogenito della famiglia Matteotti, Matteo, a far incontrare all’allora tredicenne Giacomo il socialismo. Dopo le prime esperienze di militanza attiva nella sezione giovanile del partito prese la tessera nel 1904. Il Psi era nato da poco e la sua struttura doveva ancora formarsi. I partiti di massa erano un’assoluta novità del nuovo secolo. Fino a qualche decina di anni prima in Italia, attraverso sbarramenti di censo e di istruzione, gli ammessi al voto erano poche migliaia.
Esisteva un rapporto pressoché personale tra gli eletti e gli elettori. Il neonato Partito Socialista, riuscì ad affermarsi perché già radicato sul territorio. Esisteva infatti una fitta rete di leghe, cooperative agricole, associazioni, che oltre ad occuparsi di istruzione e formazione, aiutavano i militanti nei momenti di difficoltà e li federavano. A questa parte di mutuo soccorso si aggiunse negli anni quella più strettamente politica. Il giovane Giacomo operò attivamente e a lungo nelle cooperative.


La grande guerra
Si laureò in legge a Bologna nel 1907, ma quando venne candidato alle elezioni per il Consiglio provinciale di Rovigo e venne poi eletto lascio la giurisprudenza per occuparsi a tempo pieno di politica. Tra massimalisti e riformisti, Giacomo scelse i secondi e come rappresentante di questa corrente divenne consigliere in una decina di comuni, Sindaco di Villamarzana del 1912 e di Boara Polesine dal 1914, guidò poi l’opposizione socialista nel Consiglio provinciale di Rovigo.
I vertici del partito si accorsero di lui in occasione del congresso dei comuni socialisti tenutosi a Bologna nel 1916 e, nello stesso anno, Matteotti fu eletto segretario. Era intanto scoppiata la Prima Guerra Mondiale, destinata a cambiare per sempre gli equilibri tra le nazioni europee, ma anche la gestione interna del potere all’interno dei singoli Stati. L’Italia all’inizio si tenne fuori dal conflitto. Giolitti sperava di mercanteggiare la neutralità del nostro paese per ottenere, senza spargimento di sangue, i territori che le guerre di indipendenza non avevano ancora annesso all’Italia, ma nel 1915, spinto dalla piazza e dalla corona, il Parlamento dichiarò guerra all’Austria.
Matteotti, dalle colonne del periodico polesano Lotta proletaria, di cui era redattore dal 1912, fu in prima linea nella lotta del Partito Socialista per tentare di impedire la carneficina. Anche tra le forze di sinistra c’era chi aveva spinto per la guerra, vedendo in essa l’opportunità di lottare contro i governi reazionari. Matteotti non cadde in questo equivoco e pagò in prima persona il suo strenuo impegno antibellicista, scontando una condanna a trenta giorni di reclusione.
Chiamato alle armi nel luglio 1916 venne congedato nel marzo 1919. Immediatamente tornò alla polita a tempo pieno e riprese l’opera di amministratore ed organizzatore. Le difficili lotte dei bracciantili del Polesine lo videro ancora in prima linea. Quest’impegno fu ciò che lo traghettò alla Camera. Fu eletto deputato nella circoscrizione di Ferrara-Rovigo, carica confermata nel 1921 e 1924 per la circoscrizione di Padova-Rovigo. La lunga attività nelle cooperative, l’esperienza nelle leghe l’aveva reso particolarmente competente in materia finanziaria e amministrativa.


Il fascismo
Così entrò nella giunta del bilancio e della commissione finanza e tesoro della Camera. Comprese il fascismo fin da subito. Per molti il Partito dei Fasci da combattimento era uno dei tanti movimenti post bellici, che crescevano nel malcontento e nella frustrazione degli ex combattenti. Una piccola formazione destinata a scomparire, ad essere riassorbita, non appena la vita della nazione fosse tornata alla normalità. Così il vecchio partito liberare lasciava correre le violenze, evitava che l’esercito o la polizia intervenissero durante le spedizioni punitive che i fascisti compivano contro i giornali, contro le cooperative di mutuo soccorso, contro chi manifesta e scioperava.
Gli industriali che si erano arricchiti con la guerra, gli agrari del nord, trovarono così in esso quella mano forte che poteva fermare i movimenti popolari. Ma Matteotti, fin dal suo nascere, fu un critico intransigente del fascismo, comprendendone il pericolo e la carica eversiva. Per questo fu duramente perseguitato e costretto a lasciare la sua regione già dal 1921.
La crisi in cui l’Italia versava si rifletteva anche nei partiti di sinistra. Nell’ottobre 1922, dopo la scissione tra massimalisti e riformisti, Matteotti divenne segretario del nuovo Psu, impostandone la linea politica come lotta ad oltranza contro il fascismo. Pur privato del passaporto espatriò clandestinamente per assistere al congresso del Partito operaio belga, per incontrarsi con alcuni dirigenti del Labour party e delle Trade unions e per ridimensionare, attraverso tali colloqui, il mito mussoliniano, sottolineando la pericolosità potenziale del regime fascista anche per le altre potenze europee.
Nel 1924 in Parlamento denunciò i brogli ed il clima di violenza nel quale si era espressa l’ultima consultazione elettorale. Il 10 giugno dello stesso anno venne rapito e ucciso da sicari fascisti. Il suo corpo venne ritrovato il 16 agosto successivo nei dintorni di Roma.

Ecco nel LINK una bella foto del martire polesano:


http://www.circolopertini.it/wp-content/uploads/2010/08/giacomo-matteotti.jpg
 
GIORGIO PERLASCA


Gli anni Trenta
Coerentemente con le sue idee, parte come volontario prima per l’Africa Orientale e poi per la Spagna, dove combatte in un reggimento di artiglieria al fianco del generale Franco.
Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, entra in crisi il suo rapporto con il fascismo. Essenzialmente per due motivi: l’alleanza con la Germania contro cui l’Italia aveva combattuto solo vent’anni prima e le leggi razziali entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani. Smette perciò di essere fascista, senza però mai diventare un antifascista.

Gli anni di Budapest
Scoppiata la seconda guerra mondiale, è mandato come incaricato d’affari con lo status di diplomatico nei paesi dell’Est per comprare carne per l’Esercito italiano.
L’Armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) lo coglie a Budapest: sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà prestato al Re rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici.
Quando i tedeschi prendono il potere (metà ottobre 1944) affidano il governo alle Croci Frecciate, i nazisti ungheresi, che iniziano le persecuzioni sistematiche, le violenze e le deportazioni verso i cittadini di religione ebraica.
Si prospetta il trasferimento degli internati diplomatici in Germania. Approfittando di un permesso a Budapest per visita medica Perlasca fugge.
Si nasconde prima presso vari conoscenti, quindi grazie a un documento che aveva ricevuto al momento del congedo in Spagna trova rifugio presso l’Ambasciata spagnola, e in pochi minuti diventa cittadino spagnolo con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca, e inizia a collaborare con Sanz Briz, l'Ambasciatore spagnolo che assieme alle altre potenze neutrali presenti (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano) sta già rilasciando salvacondotti per proteggere i cittadini ungheresi di religione ebraica.
A fine novembre Sanz Briz deve lasciare Budapest e l’Ungheria per non riconoscere de jure il governo filo nazista di Szalasi che chiede lo spostamento della sede diplomatica da Budapest a Sopron, vicino al confine con l’Austria.
Il giorno dopo, il Ministero degli Interni ordina di sgomberare le case protette perché é venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz.
È qui che Giorgio Perlasca prende la sua decisione: “Sospendete tutto! State sbagliando! Sanz Briz si è recato a Berna per comunicare più facilmente con Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il Ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza”.
E’ creduto e le operazioni di rastrellamento vengono sospese.
Il giorno dopo su carta intestata e con timbri autentici compila di suo pugno la sua nomina a rappresentante diplomatico spagnolo e la presenta al Ministero degli Esteri dove le sue credenziali vengono accolte senza riserve.

Dicembre 1944 – Gennaio 1945: i 45 giorni di Jorge Perlasca
Nelle vesti di diplomatico regge pressoché da solo l’Ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile “impostura” che lo porta a proteggere, salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati in “case protette” lungo il Danubio.
Li tutela dalle incursioni delle Croci Frecciate, si reca con Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del Re di Svezia, alla stazione per cercare di recuperare i protetti, tratta ogni giorno con il Governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilascia salvacondotti che recitano “parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non verranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà qui sotto la protezione del governo spagnolo”.
Li rilascia utilizzando una legge promossa nel 1924 da Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (di antica origine spagnola, cacciati alcune centinaia di anni addietro dalla Regina Isabella la Cattolica) sparsi nel mondo.
La legge Rivera è dunque la base legale dell’intera operazione organizzata da Perlasca, che gli permette di portare in salvo 5218 ebrei ungheresi.

La Shoah in Ungheria
Sino alla Prima Guerra Mondiale gli ebrei si sentivano ed erano pienamente integrati (nel 1910 erano 911.227 il 4,3% della popolazione della Grande Ungheria) con un volontario processo di "magiarizzazione" in tutti i campi. Questa fedeltà alla nazione e fervente patriottismo ottenne in cambio un'attenzione particolare nel reprimere ogni atteggiamento antisemita. Questo rapporto di amicizia con il popolo ungherese iniziò ad incrinarsi subito dopo la sconfitta del 1918. L'Ungheria con il Trattato di Trianon dovette cedere oltre i due terzi del suo territorio e circa 14 milioni di abitanti. In tale atmosfera maturarono una serie di movimenti ultranazionalistici il cui scopo principale fu quello di trovare un colpevole a cui attribuire le responsabilità di tale situazione. Il capro espiatorio fu trovato negli Ebrei. Venne introdotto nel 1920 il "Numerus clausus", stabilendo che la percentuale degli ebrei ammessi a frequentare le scuole superiori e le università non potesse superare il 6% del totale degli iscritti. Negli anni '30 vi fu un sostanziale avvicinamento con la Germania nazista e nel triennio 1938-41 furono promulgate tre leggi razziali sul modello delle leggi di Norimberga. La politica verso gli Ebrei si caratterizzò da accelerazioni e rallentamenti determinati innanzitutto dagli interessi della politica ungherese che li usava come merce di scambio per ottenere "favori" da Hitler. L'Ungheria, dopo aver recuperato la quasi totalità dei territori perduti con il Trattato di Trianon, esauriva il desiderio di collaborare pienamente con i Tedeschi e di fare alla Germania ulteriori concessioni sulla "questione ebraica". Ma quando nel giugno 1941 l'Ungheria entrò in guerra alleata alla Germania, le condizioni degli Ebrei peggiorarono notevolmente. I cittadini ebrei dai 22 anni in avanti dovettero prestare servizio nei "Battaglioni di lavoro" in abiti civili e un collare al braccio che li identificasse come ebrei. Peggiorando le sorti della guerra, l'Ungheria tentò di riprendersi una autonomia consumando la rottura totale nel settembre 1943 quando riconobbe la legittimità del governo italiano di Badoglio ma soprattutto quando prese posizione in difesa degli Ebrei. A quel punto l'unica soluzione valida per la Germania fu quella di rovesciare il governo ungherese e l'operazione "Margarethe I" fu il nome in codice scelto per l'occupazione del Paese (12 marzo 1944) e il 22 venne nominato un governo gradito ai Tedeschi. In quei giorni Eichmann e i suoi più fidati collaboratori arrivarono in Ungheria e il 28 aprile partirono i primi convogli: in meno di tre mesi Eichmann riuscì a deportare oltre 300.000 persone verso i campi di sterminio. Il 6 giugno lo sbarco in Normandia degli Alleati apriva un nuovo fronte di guerra: Horthy, il Reggente, sempre più preoccupato chiese il ritiro delle truppe tedesche senza risultato. Il 28 agosto l'Armata rossa raggiungeva la Transilvania minacciando direttamente l'Ungheria. Horthy tentò di trattare una pace separata. L'11 ottobre accettava le condizioni imposte dai Russi e il 15 annunciò l'armistizio alla radio. I nazisti ungheresi, le croci frecciate, spalleggiati dai tedeschi, occuparono la sede della radio annunciando che Horthy era stato deposto incitando la popolazione ungherese a continuare la lotta a fianco dei Tedeschi. A Budapest si trovavano tra i 150.000 e i 160.000 Ebrei ed altrettanti sopravvivevano ancora nel resto dell'Ungheria utilizzati nei "Battaglioni di lavoro". Il 17 Eichmann tornava a Budapest per riprendere l'opera lasciata interrotta pochi mesi prima. Il 21 squadre di nylas iniziavano a rastrellare casa per casa gli Ebrei di Budapest. Molti vennero impegnati in lavori disumani in città, altri organizzati in 70 "Battaglioni di lavoro" e mandati in Germania, a piedi, oltre 200 chilometri in 7 giorni, al freddo e senza cibo. Chi non resisteva veniva ucciso. Altri inviati nei campi di sterminio, altri uccisi e gettati nel Danubio, altri concentrati nel Ghetto a morire di stenti. Alla liberazione dei 786.555 ebrei ungheresi (censimento del 1941) solo 200.000 sopravvissero

Il ritorno a casa
Dopo l’entrata in Budapest dell’Armata Rossa, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia.
Da eroe solitario diventa un “uomo qualunque”: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà.

Gli anni Ottanta: la scoperta di un uomo Giusto
Grazie ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca esce dal silenzio.
Le testimonianze dei salvati sono numerose, arrivano i giornali, le televisioni, i libri, e lo stesso Perlasca si reca nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma proprio perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché tali follie non abbiano mai più a ripetersi.

Giorgio Perlasca è morto il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà a pochi chilometri da Padova. Ha voluto essere sepolto nella terra con al fianco delle date un’unica frase: “Giusto tra le Nazioni”, in ebraico.

QUI SOTTO POSTO UNA SUA BELLA IMMAGINE:

http://www.italiamiga.com.br/noticias/artigos/imagens/giorgio_perlasca.jpg
 
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