Racconti editi

asiul

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Mi è capitato di leggere qua e là per il forum alcuni racconti postati da altri utenti ed ho deciso, per non perderli di vista, di aprire un thread dove raccoglierli.
Sono racconti celebri e comunque pubblicati, vi invito pertanto a non inserire racconti inediti, verrà aperto un altro topic per questi ultimi. ;)

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LA STANZA CHIUSA (1/2)
(Isaac Asimov - Tutti racconti Vol.I, Part 1)

" - Su, su - disse Shapur con molta cortesia (bisogna tenere presente che Shapur era un demonio). - Stai sprecando il mio tempo e anche il tuo, potrei aggiungere, dal momento che ti resta soltanto mezz'ora. - E la sua coda guizzò nell'aria.
- Non si tratta di dematerializazione? - chiese pensieroso Isidore Wellby.
- Ti ho già detto di no - rispose Shapur.
Per la centesima volta, Wellby guardò il bronzo che lo circondava da ogni
lato. Il demone aveva provato un piacere diabolico - che altro, se no? - nel fargli notare che il pavimento, il soffitto e le quattro pareti erano fatti di lastre di bronzo spesse sessanta centimetri, fuse insieme senza saldature.
Quella era la Prigione Assoluta, e Wellby aveva a disposizione soltanto
mezz'ora per uscirne, mentre il demonio lo osservava con un'espressione di
maligna attesa.

Era stato esattamente dieci anni prima che Isidore Wellby aveva firmato.
- Ti pagheremo in anticipo - disse Shapur in tono suasivo. - Per dieci anni potrai avere quello che vorrai, nei limiti del ragionevole; poi diventerai un demonio. Sarai uno di noi, con un nuovo nome di potenza diabolica, e numerosi privilegi, anche. Non ti accorgerai quasi di essere dannato. Se non firmi,invece, rischi di finire nel fuoco eterno proprio per l'ordine naturale delle cose. Non si può mai sapere... Ecco, ascoltami bene. Io non me la cavo troppo male.
Ho firmato, ho avuto i miei dieci anni e adesso eccomi qui. Non è così brutto,sai.
- E perché sei così impaziente di farmi firmare, se potrei essere dannato
comunque? - chiese Wellby.
- Non è molto facile reclutare nuovi quadri per l'inferno - disse il demonio,con una scrollata di spalle che fece diventare più intenso, nell'aria, l'odore dell'anidride solforosa. - Tutti vogliono tentare di finire in Cielo. È una possibilità molto debole, ma c'è. Credo che anche a te interesserebbe. Ma intanto noi abbiamo tante anime dannate da non sapere che farcene, mentre i funzionari del settore amministrativo cominciano a scarseggiare.
Wellby, che era appena stato congedato dall'esercito e non possedeva altro che una leggera zoppia e la lettera d'addio d'una ragazza di cui lui era ancora innamorato, si punse un dito e firmò.
Naturalmente, prima lesse attentamente il contratto. Dopo che lui l'avesse
sottoscritto con il sangue, sul suo conto personale sarebbe stato depositato un certo quantitativo di potere demoniaco. Non avrebbe saputo come questi poteri venivano manipolati, e neppure la natura di ciascuno di essi, tuttavia si sarebbe accorto che i suoi desideri si sarebbero adempiuti in modo tale da sembrare realizzarsi attraverso un meccanismo perfettamente normale.
Naturalmente, non avrebbe potuto venir esaudito nessun desiderio che
interferisse con i più alti fini della storia umana. Wellby alzò le
sopracciglia, leggendo quella clausola.
Shapur tossicchiò.
- È una precauzione che ci è stata imposta da... ehm... da Lassù. Ma tu sei una persona ragionevole. Queste limitazioni non ti arrecheranno disturbo, vedrai.
- Mi sembra che ci sia una specie di clausola-catenaccio, anche - disse
Wellby.
- In un certo senso si. Dopo tutto, noi dobbiamo accertarci che tu sia adatto al tuo futuro impiego. La clausola, come vedi, stabilisce che alla scadenza dei dieci anni ti verrà richiesto di portare a termine, per conto nostro, un determinato compito, che i tuoi poteri demoniaci ti renderanno possibile.
Adesso non possiamo rivelarti quale sarà la natura di questo compito, ma avrai a disposizione dieci anni per studiare la natura dei tuoi poteri. Considera la cosa come un esame di ammissione.
- E se non supererò questo esame, cosa accadrà?
- In questo caso - disse il demonio - tu sarai soltanto una semplice anima
dannata. - E, dal momento che era un demonio, gli occhi gli brillarono al
pensiero, le dita unghiate si contrassero, come se già le sentisse affondare nell'essenza vitale della vittima. Ma aggiunse, soavemente: - Su, l'esame sarà molto semplice. Preferiremmo utilizzarti come funzionario che avere anche te sulle spalle, sai?
Wellby era troppo preso da tristi pensieri sulla sua irraggiungibile amata per preoccuparsi di quello che sarebbe accaduto fra dieci anni: e così firmò.
I dieci anni trascorsero abbastanza in fretta. Isidore Wellby fu sempre molto ragionevole, come il demonio aveva previsto, e le cose andarono per il meglio.
Wellby accettò un impiego, e poiché aveva scelto l'impiego esatto nel momento esatto e poiché sapeva sempre dire la parola giusta all'uomo giusto, non passò molto tempo che venne promosso a un incarico di alta responsabilità.
Tutti gli investimenti che Wellby faceva erano immancabilmente redditizi e,cosa ancora più soddisfacente, la sua ragazza tornò a lui sinceramente pentita e più innamorata di prima.
Il matrimonio fu felice, e fu benedetto dalla nascita di quattro figli, due maschi e due femmine, tutti intelligenti e bene educati. Allo scadere dei dieci anni, Wellby era al vertice della sua autorità, della sua reputazione e della sua ricchezza, mentre sua moglie era diventata ancora più bella.

Ed esattamente dieci anni dopo la firma del contratto, si trovò, svegliandosi,non nella sua camera, ma in una orribile stanza di bronzo della più sconcertante solidità, senz'altra compagnia che un demonio impaziente.
- Basta che tu riesca ad uscire di qui e diventerai uno di noi - disse Shapur.
- E puoi riuscire perfettamente e logicamente, usando i tuoi poteri demoniaci,
purché tu sappia esattamente cosa stai facendo.
- La stanza è perfettamente chiusa? Non c'è nessun meccanismo segreto di
apertura?
- Non vi sono aperture né nel soffitto, né nel pavimento, né nelle pareti - disse il demonio, con una sfumatura di soddisfazione professionale per il proprio lavoro. - E nemmeno nelle intersezioni fra le varie superfici, se è per questo. Ti arrendi?
- No, no. Dammi soltanto un po' di tempo.
Wellby rifletteva con accanimento. La stanza non sembrava così chiusa come era in realtà. C'era perfino una lievissima corrente d'aria. Forse l'aria poteva entrarvi dematerializzandosi e passando attraverso le pareti. Forse il demonio vi era entrato dematerializzandosi e forse lo stesso Wellby avrebbe potuto uscirne in quel modo. Lo domandò al demonio.
Il demonio sogghigna.
- La dematerializzazione non è uno dei nostri poteri. Neppure io me ne sono servito, per entrare qui.
- Ne sei proprio sicuro?
- Questa stanza è una mia creazione - disse il demonio, in tono di vanteria. -
Ed è stata costruita appositamente per te.
- E tu sei entrato dall'esterno?
- Sicuro.
- Con i limitati poteri demoniaci di cui dispongo anch'io?
- Esattamente. Cerchiamo di essere più precisi. Non puoi spostarti attraverso la materia ma puoi muoverti in qualunque dimensione, con un semplice sforzo di volontà. Puoi muoverti verso l'alto, il basso, la destra, la sinistra, puoi muoverti obliquamente e così via, ma non puoi muoverti in alcun modo attraverso la materia.
Wellby continuò a pensare, e Shapur continuò a fargli osservare l'immutabile,suprema solidità delle pareti, del pavimento e del soffitto di bronzo; la loro assoluta, infrangibile perfezione.
A Wellby sembrò ovvio che Shapur, anche se credeva davvero nella necessità di reclutare quadri per l'inferno, avrebbe indubbiamente preferito avere a
disposizione una normale anima dannata con cui divertirsi...
- Per lo meno - disse Wellby, in un penoso tentativo di consolarsi con la
filosofia - avrò dieci anni felici da ricordare. E questa è una consolazione anche per un'anima dannata nell'inferno.
- Neanche per idea - disse il demonio. - L'inferno non sarebbe l'inferno, se fosse concessa qualche consolazione. Tutto ciò che un individuo ottiene sulla Terra grazie a un patto col diavolo, come nel tuo caso o nel mio, è
esattamente quello che lo stesso uomo potrebbe aver ottenuto senza tale patto,se soltanto avesse lavorato duramente e avesse avuto fede in... ehm, Lassù.
Ecco ciò che rende veramente diabolici i nostri patti. - E il demonio scoppiò a ridere.
- Vuoi dire - fece Wellby, indignato - che mia moglie sarebbe ritornata da me anche se io non avessi mai firmato il patto?
- Forse sì - disse Shapur. - Tutto ciò che accade è per volere di... ehm... di Lassù, capisci? Noi non possiamo alterare un bel niente.
L'angoscia di quel momento doveva avere aguzzato l'intelligenza di Wellby,
perché in quel momento svanì, lasciando la stanza completamente vuota, se si eccettua la presenza di un demonio sbalordito. E lo sbalordimento si trasformò in furore puro quando il demonio guardò il contratto di Wellby che, fino a quel momento, aveva tenuto stretto in pugno, in attesa dell'azione finale, qualunque essa fosse. "

(segue)
 

asiul

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La stanza chiusa parte 2/2 Isaac Asimov

....

"Fu esattamente dieci anni dopo che Isidore Wellby aveva firmato il patto con Shapur che il demonio entra nel suo ufficio e disse, infuriato:
- Stammi a sentire...
Wellby alzò gli occhi dal suo lavoro, sbalordito.
- Chi sei?
- Sai benissimo chi sono - disse Shapur.
- Per niente - disse Wellby.
Il demonio lo fissò con uno sguardo penetrante.
- Vedo che stai dicendo la verità, ma non riesco a capire i particolari. - E inondò prontamente la mente di Wellby con gli eventi di quegli ultimi dieci
anni.
- Ah sì - fece Wellby. - Posso spiegare tutto, naturalmente, ma sei sicuro che non ci interromperanno?
- Non ci interromperanno - disse cupo il demonio.
- Io me ne stavo in quella stanza di bronzo - cominciò Wellby. - E...
- Lascia perdere - disse in fretta il demonio. - Voglio sapere...
- Prego. Lasciami raccontare i fatti a modo mio.
Il demonio strinse i denti, trasudando anidride solforosa fino a che Wellby tossì, semisoffocato.
- Ti dispiace scostarti un po'? - chiese Wellby. - Grazie - dunque, me ne
stavo nella stanza di bronzo e pensavo che tu avevi insistito sull'assoluta infrangibilità delle quattro pareti, del pavimento e del soffitto. E mi chiedevo perché avessi tenuto a specificare. Cosa c'era, d'altro, lì dentro, oltre le pareti, il pavimento e il soffitto? Tu avevi definito uno spazio compiutamente chiuso nelle tre dimensioni.
"Ecco che cos'era: tridimensionale! La stanza non era chiusa nella quarta
dimensione; non esisteva indefinitamente nel passato. Dicevi che l'avevi
creata per me. Così, se uno si spostava nel passato, si sarebbe trovato
finalmente in un tempo in cui la stanza non esisteva e in questo modo si
sarebbe trovato fuori della stanza.
"Per giunta, avevi detto che potevo spostarmi in qualsiasi dimensione, e il tempo può essere visto, senza dubbio, come una dimensione. Ad ogni modo, non appena ebbi deciso di muovermi verso il passato, mi trovai a vivere a ritroso a una velocità tremenda, e improvvisamente attorno a me non vi fu più la stanza di bronzo."
- Posso capirlo! - esclamò angosciato Shapur. - Non avresti potuto fuggire in alcun altro modo. È per il tuo contratto che sono preoccupato. Se tu non sei una normale anima dannata, benissimo, questo fa parte del gioco. Ma tu devi diventare per lo meno uno di noi, un funzionario dell'inferno. Sei stato pagato per questo e, se non mi spiccio a consegnarti laggiù, mi troverò in un bel guaio. Wellby scrolla le spalle.
- Mi dispiace per te, naturalmente, ma non posso aiutarti. Tu devi aver creato la stanza di bronzo immediatamente dopo che io ho firmato il contratto, perché, quando uscii dalla stanza, mi trovai proprio in quel momento del tempo in cui stavo concludendo il patto con te. C'eri tu e c'ero anche io; tu stavi spingendo il contratto verso di me insieme a uno stilo con il quale avrei dovuto pungermi il dito. Mentre io arretravo nel tempo, la mia memoria di quello che era accaduto in futuro svaniva, ma non è svanita completamente, a quanto sembra. Quando tu mi hai sottoposto il contratto, io mi sono sentito a disagio. Non potevo ricordare perfettamente il futuro, ma mi sentivo a disagio. Così, non ho firmato.
Shapur digrignò i denti.
- Avrei dovuto saperlo. Se le leggi della probabilità avessero influenza anche sui demoni, io mi sarei trovato, insieme a te, in questo nuovo mondo
ipotetico. Così, posso dire soltanto che tu hai perso i dieci anni felici che ti avevamo pagato. Questa è una consolazione. E poi ti prenderemo ugualmente, alla fine. E questa è un'altra consolazione.
- Ah sì? - fece Wellby. - Esistono consolazioni, all'inferno? In quanto ai
dieci anni che ho appena trascorsi, non sapevo niente di quello che avrei
potuto ottenere. Ma adesso che mi hai richiamato alla memoria i dieci anni che avrei potuto vivere, mi ricordo anche che, nella stanza di bronzo, tu mi hai detto che nessun patto con il diavolo può dare qualcosa che non possa essere ottenuto con il lavoro e con la fede in Lassù. Io ho lavorato e ho avuto fede.
Lo sguardo di Wellby cadde sulla fotografia della bella moglie e dei quattro bei bambini, poi indugiò sulla lussuosa eleganza dell'ufficio.
- Posso perfino sfuggire all'inferno. Perché, vedi, non è in tuo potere
decidere questo.
E il demonio, con un grido terribile, scomparve per sempre."


Titolo originale: The Brazen Locked Room
(a.k.a. Gimmicks Three)
Prima edizione: Magazine of Fantasy and S.F., novembre 1956
Traduzione di Riccardo Valla
 

asiul

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Catene, Frigyes Karinthy

Catene - F. Karinthy
Catene
di Frigyes Karinthy
(…)
“C’è sicuramente un aspetto interessante”, dissi quando la discussione cominciò ad animarsi. (Si stava parlando del progresso, di quale fosse la sua direzione, se si trattasse semplicemente di un gioco di tempi che tornano indietro, di ripetizioni di ciò che è già accaduto).
Non so spiegarmi meglio: non amo ripetermi. Forse posso provare così: la terra non è mai stata tanto piccola come adesso. Ovviamente, la mia affermazione è relativa. La rapidità con cui si diffondono le notizie e l’utilizzo di mezzi di trasporto sempre più veloci ha reso il mondo più piccolo rispetto al passato. “E’ successo questo, quello, tutto, ma non era ancora successo mai che ciò che penso, faccio, voglio o desidero, che mi piaccia o no, possa venirlo a sapere, in pochi secondi, chiunque. E se voglio verificare qualcosa che è accaduto a mille chilometri da me, in pochi giorni posso trovarmi lì, di persona o con la mia parola, ed effettuare la mia verifica.

Il fatto che oggi si possa percorrere la Terra con gli stivali delle sette leghe, ha deluso qualcuno perché ciò che si pensava fosse il Paese delle Meraviglie è diventato un luogo incredibilmente piccolo rispetto a quanto si era creduto fino a quel momento. Da qualche parte Chesterton scrive che non capisce perchè i metafisici vogliano a ogni costo rappresentare l’Universo come un qualcosa d’immenso, a lui piace di più l’idea di un’intimità, dell’infinitamente piccolo. Trovo molto rappresentativa questa idea nel secolo dei mezzi di comunicazione e dei trasporti, al di là di quanto sia vera, proprio perche’ Chesterton, anti evoluzionista e reazionario negazionista della scienza e della tecnica, doveva necessariamente ammettere che il Paese delle meraviglie, che cita spesso nei suoi scritti, era venuto fuori, come per magia, grazie all’evoluzione della scienza.

Certo, tutto torna e si rinnova, ma non vi accorgete che la velocita’ di questa ripetizione e di questo rinnovamento tende ad accelerare in misura mai vista nello spazio e nel tempo? In pochi attimi il mio pensiero fa il giro del globo, in pochi anni bruciamo le tappe della storia come una lezione ascoltata mille volte. Da ciò si dovrebbe dedurre qualcosa. Se riuscissi a capire quale! In realtà ero quasi arrivato a una conclusione, ma poi me la sono dimenticata. Sono assalito dai dubbi, forse proprio perchè ho sfiorato la verità. Quando si è nei pressi del Polo l’ago magnetico oscilla e pare che la fede abbia lo stesso comportamento quando si trova nelle vicinanze di Dio.

Comunque, dalla discussione venne fuori un’idea interessante. Uno di quelli che vi partecipava propose un gioco per dimostrare che gli abitanti del globo terrestre sono molto piu’ vicini l’uno all’altro, sotto molti punti di vista, di quanto lo siano stati nel passato. Dato un individuo qualunque tra il miliardo e mezzo di abitanti della terra, che vive in un posto qualsiasi, lui sosteneva di riuscire a mettersi in contatto con quell’ individuo al massimo attraverso cinque altri individui che si conoscessero tra loro personalmente.

Faccio un esempio: tu conosci XY e gli dici di riferire a ZV, suo conoscente, che deve dare un messaggio a…ecc.ecc.
“Be’, sono curioso” replicò qualcuno. “ecco, diciamo… diciamo Lagerlöf Zelma.”
“Lagerlöf Zelma.” ripetè il nostro amico. “niente di piu’ facile.”
Gli ci vollero solo due secondi per rispondere.“Dunque, Lagerlöf Zelma, come vincitrice di premio Nobel, conoscerà sicuramente re Gustavo di Svezia, infatti fu proprio lui a consegnargli il premio, come da consuetudine. . A sua volta, re Gustavo di Svezia è un appassionato giocatore di tennis, partecipa a gare internazionali e nel passato ha giocato con Kehrling, che mi conosce molto bene.”
(Io stesso conosco Kehrling).
“Ecco la catena, abbiamo avuto bisogno solo di due anelli rispetto al massimo dei cinque stabiliti dalla mia teoria. E’ normale che siano stati così pochi perché è più facile tracciare dei legami con gli uomini famosi rispetto a quelli che non lo sono. Infatti i primi conoscono più persone. Per favore, stavolta trovatemi qualcosa più difficile di questa!”
Ed ecco una prova più complicata: entrare in contatto con un metalmeccanico della Ford. Fui io a prendermi l’incarico e riuscii a dimostrare di essere separato dall’operaio in questione soltanto da quattro anelli. L’operaio conosce il direttore della fabbrica, il direttore conosce Ford stesso, Ford e’ in buoni rapporti con il direttore generale Hearst, l’anno scorso il direttore generale Hearst ha avuto modo di conoscere approfonditamente il signor Pasztor Arpad, che non solo e’ un mio conoscente, ma, per quanto ne so, un mio grande amico. Perciò basterebbe che gli dicessi di telegrafare al direttore generale Hearst, che dicesse a Ford di dire al direttore della fabbrica che quel certo operaio metalmeccanico mi deve montare urgentemente una macchina.
Il gioco proseguì e il nostro amico aveva ragione: non ci fu mai bisogno più di cinque anelli di catena per fare in modo che un qualsiasi individuo del gruppo potesse essere messo in contatto, esclusivamente attraverso conoscenze personali, con un uomo qualunque della Terra.

E ora vi pongo una domanda: c’è mai stato un periodo storico precedente al nostro in cui questa teoria sarebbe stata possibile? Giulio Cesare fu un uomo potente, ma se, per esempio, gli fosse venuto in mente di contattare, entro poche ore o pochi giorni, uno sciamano azteco o maya dell’America di allora, non sarebbe stato in grado di realizzare ciò nè attraverso cinque, nè attraverso trecento anelli di catena perché a quei tempi si sapeva dell’America e dei suoi possibili o non possibili abitanti assai meno di quanto oggi sappiamo noi di Marte e della sua popolazione. Qualcosa c’è, qualcosa continua, al di là dei cambiamenti Qualcosa si restringe e diventa più piccola, qualcosa si gonfia e diventa sempre più grande.
E’ possibile che questo restringimento e rimpicciolimento e questo Gonfiamento e Ingrandimento cominciassero proprio da quella piccola scintilla che milioni di anni fa comparve nella fredda gelatina uomo-animale e che gonfiandosi e ingrandendosi e infiammando tutto quello che incontrava, causasse un’implosione, riducesse in cenere l’intero mondo fisico? E’ possibile che la forza vinca la materia, che l’anima sia più forte e reale del corpo, che la vita abbia un senso e che sopravviva alla vita stessa, che il bene prevalga sul male, che Dio sia più potente del diavolo?

Perchè, ecco, mi vergogno, ma voglio confessarvi una cosa che faccio e che invece non dovrei fare perché la gente mi considera un pazzo per questo. Spesso mi cimento in questa teoria degli anelli non solo collegando tra loro le persone, ma pure le cose. Purtroppo, è diventata un’attività che non è più sotto il mio controllo, come la tosse. E’ un esercizio inutile, che non mi porta da nessuna parte. Sono diventato come il giocatore d’azzardo che ha perso tutti i suoi averi nelle bische clandestine e continua a giocare scommettendo poco, o nulla, senza più nessuna speranza di vincere.

Lo strano gioco del Pensiero procede sbuffando inesorabilmente dentro di me. Due anelli di catena, tre anelli di catena, al massimo cinque anelli di catena. Come posso mettere in contatto, in relazione le piccole cose della vita che mi si parano davanti, come posso incastrare un fenomeno all’altro, come posso unire il relativo e transiente con il non relativo e permanente – come posso collegare la singola parte al tutto? Sarebbe bello vivere, divertirsi, essere felici, prendere gli avvenimenti per quello che sono, che portino gioia o procurino dolore, e invece mi è impossibile! Mi eccita il gioco di trovare qualcos’altro in quegli occhi che mi sorridono o in quel pugno che mi minaccia. Mi lascia piuttosto indifferente il fatto che io debba avvicinarmi a quegli occhi o difendermi da quell pugno. Qualcuno mi ama, qualcuno si arrabbia con me e io mi chiedo: perchè mi ama, perchè è arrabbiato con me? Due non vanno d’accordo e io devo comprenderli entrambi. Ma come?

Vendono uva sulla strada, mio figlio piange nell’altra stanza. La moglie di un nostro conoscente lo tradisce, nell’incontro di Dempsey 150 uomini gridavano. Il nuovo libro di Romain Rolland non lo voleva nessuno, il mio amico X ha cambiato la sua opinione su Y. Giro, giro, girotondo. Come si puo’ trovare una linea che unisca tutti gli elementi, gli avvenimenti, le azioni in questa confusione? E ciò, inoltre, deve essere fatto in un modo veloce e diretto, non con trenta volumi di filosofia! E soprattutto con consequenzialità, in modo che la catena che inizia da quel determinato oggetto riconduca a quello nel suo ultimo anello, ossia porti all’origine di tutte le cose.

Come se… Come se questo signore… questo signore, che è venuto al mio tavolo… mentre scrivo questo, è venuto e mi ha disturbato con una domanda insignificante e mi ha fatto scappar via quello che stavo per dire. Perchè è venuto a disturbarmi? Primo anello: non considera importante il mio scribacchiare Perchè? Secondo anello: di solito il mondo non tiene troppo in considerazione la scrittura, come invece accadeva un quarto di secolo fa.

La causa del mutamento del mondo che ha influenzato la mia psiche, dal momento che ha partorito questa teoria. Non posso sperare di raggiungere le grandi menti del secolo passato, coloro che hanno osservato con metodo l’universo. Terzo anello: per questo domina sull’Europa l’isteria della Paura e dell’Oppressione, l’Ordine e’ stato distrutto. Quarto anello! Venga quindi il nuovo ordine, venga il nuovo redentore del mondo, si manifesti di nuovo il Dio del mondo nel rovo che brucia, sia pace, sia guerra, sia rivoluzione, “oh, quinto anello”, che non succeda piu’ che qualcuno provi a disturbarmi quando gioco, quando fantastico, quando penso!

(fonte: alessandragaletta.com)

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postato da Zefiro qui
 

asiul

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Il gatto temporale di I. Asimov


Il gatto temporale
(di Isaac Asimov)

Quello che sto per dirvi mi fu raccontato molto tempo fa dal vecchio Mac, che viveva in una baracca sulla collina dietro casa mia. Aveva fatto il cercatore di minerali sugli Asteroidi, durante la Corsa del '37, ed ora passava la maggior parte del tempo a dar da mangiare ai suoi sette gatti.
- Come mai vi piacciono tanto i gatti, signor Mac? - gli chiesi.
Il vecchio minatore mi guardò grattandosi il mento. - Ecco -rispose - mi ricordano le mie care bestíole di Pallas. Assomigliavano un pochino ai gatti.La testa era uguale, o pressappoco, ed erano gli animali più simpatici e intelligenti che abbia mai conosciuto. Sono morti tutti.
Mi spiaceva e glíelo dissi. Mac sospirò.
-Bestiole intelligenti -ripeté. -Erano miei a quattro dimensioni.
- A quattro dimensioni, signor Mac? Ma la quarta dimensione è il tempo - dissi. L'avevo imparato l'anno precedente, quando frequentavo la terza.
Ah, sei istruito, eh? - Estrasse la pipa e la caricò lentamente. Certo, la quarta dimensione è il tempo. Quei mici erano lunghi trenta centimetri, alti quindici, larghi dieci, e si estendevano fino a metà della settimana prossima. Questo significa che avevano quattro dimensioni, no? Ecco, se gli grattavate la testa, agitavano la coda solo 9 giorno dopo, tanto per dirne una.
I più grossi l'agitavano magari dopo due giorni.
Io non ci credevo molto, ma non glielo dissi.
- Erano i più bravi cani da guardia di tutto il creato - proseguì Mac. - Per forza. Se scorgevano un ladro o un qualsiasi individuo sospetto, strillavano come sirene. E se uno di loro scopriva un ladro oggi, strillava ieri, così noi avevamo ventiquattr'ore di preavviso.
Rimasi a bocca aperta. - Davvero?
- Lo giuro sul mio onore. Sai come li nutrivamo? Dovevamo aspettare che si' addormentassero, capisci, e allora sapevamo che stavano digerendo. Quei gatti digerivano i pasti sempre esattamente tre ore prima di mangiare, perché il loro stomaco avanzava di tanto nel tempo. Così, quando si addormentavano noi guardavamo l'ora ed esattamente dopo tre ore gli davamo da mangiare.
Aveva acceso la pìpa, e sbuffando nuvolette di fumo, continuò scrollando la testa con mestizia: - Purtroppo, una. volta sbagliai. Povero gatto. Sì chiamava Joe, e per di più era il mio preferito. Si mise a dormire una mattina alle nove, e chissà perché io ero fisso che fossero le otto. Così gli diedi da mangiare alle undici. Lo cercai dappertutto, ma non riuscii a trovarlo.
- Cos' era successo, signor Mac?
- Ecco, lo stomaco di un gatto temporale non può ingerire il cibo soltanto due ore dopo averlo digerito. E' pretendere troppo. Lo trovai, finalmente, sotto la cassetta degli attrezzi nel capannone. Era strisciato fin là ed era morto d'indigestione un ora prima. Povero micio ! Dopo quella volta caricai sempre la sveglia per essere sicuro di non sbagliare più.'
Seguì un breve, triste silenzio, che io ruppi sussurrando rispettosamente: - Prima avete detto che sono morti tutti. Come mai? Sono morti tutti d'indigestione?
Mac fece un solenne cenno di diniego. -'No! Prendevano il raffreddore da noi, e morivano otto o dieci giorni prima di averlo preso. Erano già pochi fin dal principio, e un anno dopo l'arrivo dei minatoti su Pallas ne erano rimasti solo dieci. deboli e malandati. Il brutto, povere bestie, è che quando morivano andavano subito a pezzi, si decomponevano immediatamente. Specie quello strano congegno quadridimensionale che avevano nel cervello e che li costringeva a comportarsi come si comportavano. Ci costò milioni di dollari.
- Che cosa, signor Mac?
- Devi sapere che alcuni scienziati, giù sulla Terra, vennero a sapere. dei gatti, e sapevano ~ che sarebbero morti, tutti prime della prossima stagione degli accoppiamenti. Così ci offrirono un milione dì dollari per ogni gatto temporale che fossimo riusciti a salvare.
- E voi ci riusciste?
- Ce la mettemmo tutta, ma inutilmente. Dopo morti non servivano più a niente, e non ci restava che seppellirli. Cercammo di metterli in ghiaccio, ma questo serviva solo a mantenere intatto l'esterno. Dentro erano tutti marci e putrefatti, e agli scienziati interessava proprio quello che c'era dentro. Naturalmente, sapendo che per ogni gatto che moriva perdevamo un milione di dollari, facemmo di tutto perché continuassero a vivere. Uno di noi pensò che se ne avessimo messo uno nell'acqua calda quando stava per morire, l'acqua l'avrebbe impregnato tutto. Poi, dopo morto, avremmo fatto raffreddare l'acqua e lui sarebbe stato tutt'uno col blocco di ghiaccio, e sarebbe rimasto intatto anche dentro.
Lo guardavo a bocca aperta. - E funzionò?
- Provammo e riprovammo, ma non riuscivamo mai a far gelare abbastanza in fretta l'acqua.
Nel tempo che ci metteva a ghiacciare,il congegno a quattro dimensioni nel cervello del gatto si guastava.
Insistemmo, facendo gelare l'acqua più in fretta, ma non serviva niente. Alla fine restò in vita un solo gatto, ma ne aveva per poco anche lui,lo si capiva benissimo.Eravamo disperati...finchè a uno di noi venne un'idea.
Escogitò un marchingegno capace di far gelare l'acqua così...zac! in un secondo. Prendemmo il gatto superstite, lo tuffammo nell'acqua calda e collegammo tutto alla macchina. Quel poveretto ci guardò per l'ultima volta, mandò un lamento pietoso, e morì.Noi schiacciammo il pulsante e dopo un quarto di secondo tutto quanto si era trasformato in un solido blocco di ghiaccio.....- A questo punto Mac esalò un sospiro che avrebbe smosso una tonnellata.
- Ma non servì. Dopo un quarto d'ora il gatto era tutto marcio dentro, e noi perdemmo l'ultimo milione di dollari. -Ma, signor Mac, avete detto che si era congelato in un quarto di secondo.Non poteva essersi putrefatto. Non aveva avuto il tempo!
- Proprio qui sta il guaio, amico - disse lui con aria grave. - Avevamo fatto tutto troppo in fretta. Il fatto temporale non resistette perchè avevamo raffreddato l'acqua bollente talmente in fretta che il ghiaccio era ancora caldo!

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Postato da Zefiro ---> Link
 

asiul

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La Sentinella, Fredrick Brown

LA SENTINELLA
(di Fredrick Brown)

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano 50mila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d'ogni movimento un'agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d'anni, quest'angolo di guerra non era cambiato.

Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato.

E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica altra razza intelligente della galassia... crudeli schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all'erta, il fucile pronto. Lontano 50mila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.

E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.

Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante e senza squame...

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asiul

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Cinquanta scontri col signor Veneranda, Manzoni Carlo

Davanti al portone
Il signor Veneranda si fermò davanti al portone di una casa, guardò le finestre buie e spente e fischiò più volte come volesse chiamare qualcuno.
A una finestra del terzo piano si affacciò un signore.
- È senza chiave? - chiese il signore gridando per farsi sentire.
- Si, sono senza chiave - gridò il signor Veneranda.
- E il portone è chiuso? - gridò di nuovo il signore affacciato.
- Si è chiuso - rispose il signor Veneranda.
- Allora le butto la chiave.
- Per fare cosa? - chiese il signor Veneranda.
- Per aprire il portone - rispose il signore affacciato.
- Va bene, - gridò il signor Veneranda - se vuole che apra il portone, butti pure la chiave.
- Ma lei deve entrare?
- Io no. Cosa dovrei entrare per fare?
- Ma non abita qui lei? - chiese il signore affacciato, che cominciava a non capire.
- Io no - gridò il signor Veneranda.
- E allora perché vuole la chiave?
- Se lei vuole che apra il portone non posso mica aprirlo con la pipa, le pare?
- Io non voglio aprire il portone, - gridò il signore affacciato - io credevo che lei abitasse qui: ho sentito che fischiava.
- Perché, tutti quelli che abitano in questa casa fischiano? - chiese il signor Veneranda, sempre gridando.
- Se sono senza chiave si! - rispose il signore affacciato.
- Io sono senza chiave - gridò il signor Veneranda.
- Insomma si può sapere cosa avete da gridare? Qui non si può dormire - urlò un signore affacciandosi a una finestra del primo piano.
- Gridiamo perché quello sta al terzo piano e io sto in strada - disse il signor Veneranda - se parliamo piano non ci si capisce.
- Ma lei cosa vuole? - chiese il signore affacciato al primo piano.
- Lo domandi a quello del terzo piano cosa vuole, - disse il signor Veneranda - io non ho ancora capito: prima vuol buttarmi la chiave per aprire il portone, poi non vuole che io apra il portone, poi dice che se fischio debbo abitare in questa casa. Insomma io non ho ancora capito. Lei fischia?
- Io? Io no... perché dovrei fischiare? - chiese il signore affacciato al primo piano.
- Perché abita in questa casa - disse il signor Veneranda -; l'ha detto quello del terzo piano che quelli che abitano in questa casa fischiano! Be', ad ogni modo non mi interessa, se vuole può anche fischiare.
Il signor Veneranda salutò con un cenno del capo e si avviò per la strada, brontolando

che quello doveva essere una specie di manicomio.

L'ufficio postale
Il signor Veneranda entrò nell’ufficio postale. "Scusi" disse il signor Veneranda all’impiegato allo sportello; "è arrivato un pacco per me?" "Non è arrivato nessun pacco per lei" rispose l’impiegato; "se fosse arrivato, lei avrebbe ricevuto l’avviso. Ha ricevuto l’avviso?" "Non ho ricevuto nessun avviso" disse il signor Veneranda; "ma a me l’avviso non serve a niente; mi servirebbe il pacco, perché dentro al pacco c’è sempre qualcosa". "L’avviso serve per avvertirla che le è arrivato un pacco". "Ecco, proprio questo volevo, il pacco che è arrivato per me". "Ma non è arrivato nulla per lei". "Ma come, ha appena detto, e sono le sue parole, l’avviso serve per avvertirla che le è arrivato un pacco; ed io sono qui a ritirare il pacco". "Io ho solo detto che l’avviso serve solo per avvertirla che le è arrivato il pacco". "Ah, ho capito, lei mi manda un avviso per avvertirmi che è arrivato il pacco; allora, guardi, faccia a meno di mandarmi l’avviso perché io sono già qua a ritirare il pacco". "No, non ci siamo capiti, le dicevo che qualora arrivasse un pacco per lei, solo allora le manderemmo un avviso per avvertirla che da noi c’è un pacco per lei; ci siamo capiti ora?" "Certo che ci siamo capiti, mi crede imbecille; ma, mi dica, da dove arriva il pacco?" "Io… – balbettò l’impiegato – io non so da dove le venga spedito il pacco; io non ne so nulla; lo saprà lei da dove aspetta il pacco". "Io non aspetto nessun pacco" disse il signor Veneranda "e non ho nessuna idea di chi potrebbe spedirmi un pacco; ma se lei dice che mi arriverà un avviso che mi avverte che c’è un pacco per me da lei, io vengo da lei per sapere da dove mi arriva il pacco". "Io… io non ne so nulla del suo pacco!" "Ma allora perché mi dice che mi deve arrivare un avviso per ritirare un pacco?" esclamò il signor Veneranda arrabbiandosi; "ma guarda un po’ che tipo! Prima mi dice che mi arriverà un avviso, poi che devo passare qui a prendere il pacco, poi casca dalle nuvole! Oh, ma che razza di servizio postale!" E il signor Veneranda si allontanò scuotendo la testa e brontolando

In autostrada
Il signor Veneranda si fermò all'ingresso dell'autostrada Milano -Torino.
"Torino" disse il signor Veneranda al bigliettaio.
Il bigliettaio guardò il signor Veneranda e poi si guardò attorno nel piazzale deserto dove non sostava nemmeno un'automobile.
"Ma..." balbettò il bigliettaio, "e la macchina?"
"Che macchina?" domandò il signor Veneranda, stupito.
"L'automobile," disse il bigliettaio, "lei non ha l'automobile?"
"Io no," disse il signor Veneranda, "io non ho l'automobile. Perché? Cosa c'è di strano? C'è tanta gente che non ha l'automobile e perché la dovrei avere io? Le pare che io abbia la faccia di uno che dovrebbe avere l'automobile?"
"Io non so," balbettò il bigliettaio, "ma se lei vuole andare a Torino con l'autostrada, dovrà pure avere un'automobile."
"Io non vado a Torino con l'autostrada," disse il signor Veneranda. "Non posso andarci appunto perché non ho l'automobile. E poi cosa dovrei andare a fare a Torino?"
"Non so... è lei che ha detto Torino," balbettò il bigliettaio che non sapeva cosa dire.
"Io ho detto Torino, certamente" disse il signor Veneranda, "questo non lo nego. Ma tutti possono dire
Torino quando vogliono, le pare? Non capisco perché quando uno dice Torino dovrebbe, secondo lei,
andarci in automobile."
"Va bene, ma allora lei, che cosa vuole da me?" balbettò il bigliettaio sempre più confuso.
"Io niente," disse il signor Veneranda. "Ho detto Torino come potevo dire Roma o Genova o un'altra città. Le dispiace?"
"No, ma... senta, se lei non entra in autostrada con l'automobile, mai lasci in pace," brontolò il bigliettaio.
"Eh, accidenti!" gridò il signor Veneranda perdendo la pazienza, "adesso dovrò comprarmi un'automobile per far piacere a lei! Ma sa che è un bel tipo? Ma guarda che razza di gente!"
E il signor Veneranda voltò le spalle al bigliettaio e si allontanò brontolando

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asiul

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L'avventura di due sposi , Italo Calvino

L'avventura di due sposi
Ho sempre amato molto, senza riserve, questa particolarissima raccolta di racconti su ciò che non accade, sugli incontri mancati, sull’assenza di qualcosa, di qualche circostanza, di qualcuno. L’intuizione che talvolta è esattamente qui, in ciò che non è, che prende consistenza ciò che conta davvero.

Per dare il flavour di cosa si tratta, copio ed incollo qui uno dei racconti, “L’ avventura di due sposi” , dove la “tenerezza” di una assenza è narrata nel corso del racconto, fino alla stilettata finale delle ultime righe, con concretissimo “calore”. E sono certo che ciascuno di noi, leggendolo, avrà rimandi personalissimi ad una cosa così.
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"L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide.
Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi.
Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè.
Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari.
Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui.
S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.
A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, Lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.
Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale.
Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’”undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni.
Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto.
Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera.
Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato.
Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro.
In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare.
Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimentoche li pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano.
Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale.
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce.
Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito,per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza"

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asiul

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Kafka...

Il messaggio dell'imperatore
L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera



Il silenzio delle Sirene

Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.
Per difendersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all'albero maestro. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già sedotto da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire. Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione dei sedotti avrebbe spezzato ben più che catene e albero. Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse. Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con innocente gioia per i suoi mezzucci, andò direttamente incontro alle Sirene.
Ora, le Sirene hanno un'arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.

E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere quell'avversario, sia che, alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticassero proprio di cantare.
Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall'udirle. Di sfuggita vide sulle prime il movimento dei loro colli, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle arie che non udite risuonavano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua risolutezza e, proprio quando era più vicino a loro, non seppe più niente di loro.
Quelle - più belle che mai - si stirarono e si girarono, fecero agitare al vento i loro tremendi capelli sciolti e tesero le unghie sulle rocce. Non volevano più sedurre, volevano solo carpire il più a lungo possibile lo sguardo dei grandi occhi di Odisseo.
Se le Sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, e solo Odisseo sfuggì a loro.
A questo punto, si tramanda ancora un'appendice. Odisseo, si dice, era così astuto, era una tale volpe, che neppure la Parca del destino poteva penetrare nel suo intimo. Egli, benché questo non si possa capire con l'intelletto umano, forse si è realmente accorto che le Sirene tacevano e ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione

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asiul

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Nove volte sette -Isaac Asimov (part 1/3)

"Jehan Shuman era abituato a trattare con gli uomini che da molti anni
dirigevano lo sforzo bellico terrestre. Non era un militare, Shuman, ma a lui
facevano capo tutti i laboratori di ricerche incaricati di progettare i
cervelli elettronici e gli automi impiegati nel conflitto.
Di conseguenza, i generali gli prestavano ascolto. E lo stavano a sentire
perfino i capi delle commissioni parlamentari.
C'erano due esemplari di entrambe queste specie nella saletta del Nuovo
Pentagono. Il generale Weider aveva il volto bruciato dagli spazi e la bocca
molto piccola, quasi sempre atteggiata in una smorfia. Il deputato Brant aveva
guance tonde, lisce, e occhi chiari. Fumava tabacco denebiano con
l'indifferenza di un uomo il cui patriottismo è notorio e che può quindi
permettersi certe libertà.
Shuman, alto, elegante, e Programmatore di prima classe, li affrontò senza
esitazione.
Disse: - Signori, questo è Myron Aub.
- Sarebbe lui l'individuo dotato di speciali capacità, che avete scoperto per
caso? - disse il deputato Brant, senza scomporsi.
- Bene! - Con bonaria curiosità squadrò l'omettino calvo, con la testa a uovo.
L'ometto reagì intrecciando nervosamente le dita. Non era mai stato a contatto
di persone così importanti in vita sua. Era un Tecnico d'infimo rango, già
abbastanza avanti negli anni, che dopo aver fallito tutte le prove di
selezione destinate a individuare i cervelli umani meglio dotati, s'era ormai
rassegnato da anni a un lavoro oscuro e monotono. Ma poi il Grande
Programmatore aveva scoperto il suo hobby e l'aveva trascinato qui.
Il generale Weider disse: - Questa atmosfera di mistero mi sembra puerile.
- Un minuto di pazienza - disse Shuman - e vedrà che cambierà idea. Si tratta
di una cosa che non va assolutamente divulgata... Aub! - Pronunziò il nome
monosillabico come se fosse un comando militare, ma era un Primo Programmatore
e parlava a un semplice Tecnico. - Aub! Quanto fa nove volte sette?
Aub esitò un istante. I suoi occhi smorti ebbero un fioco lampo di ansietà. -
Sessantatré - disse.
Il deputato Brant inarcò le sopracciglia. - È giusto?
- Controlli lei stesso, onorevole.
Il deputato trasse la sua calcolatrice tascabile, ne sfiorò con le dita due
volte il bordo zigrinato, guardò il quadrante e la ripose in tasca. Disse: - E
sarebbe questo il fenomeno che lei ci ha chiamato qui ad ammirare? Un
illusionista?
- Molto di più, onorevole. Aub ha mandato a memoria alcune operazioni e sa
calcolare sulla carta.
- Una calcolatrice di carta? - disse il generale. Sembrava deluso.
- No, generale - disse Shuman, paziente. - Non è una calcolatrice di carta.
Semplicemente un foglio di carta. Generale, vuol essere così gentile da
proporre un numero qualsiasi?
- Diciassette - disse il generale.
- E lei, onorevole?
- Ventitré.
- Bene! Aub, moltiplichi questi due numeri e faccia vedere a questi signori in
che modo esegue l'operazione.
- Sissignore - disse Aub, chinando il capo. Trasse un taccuino da una tasca
della camicia e una sottile matita da pittore dall'altra. La sua fronte era
tutta aggrottata mentre tracciava faticosamente sulla carta dei piccoli segni.
Il generale Weider lo interruppe in tono asciutto. - Mi faccia vedere.
Aub gli porse il taccuino e Weider commentò: - Be', sembra il numero
diciassette.
Il deputato Brant annuì e disse: - Proprio così, ma è chiaro che chiunque può
copiare dei numeri da una calcolatrice. Io stesso, credo, sarei capace di
disegnare un diciassette passabile, anche senza esercizio.
- Se i signori non hanno nulla in contrario, Aub potrebbe continuare -
intervenne soavemente Shuman.
Aub continuò, la mano un po' tremante. Infine disse a bassa voce: - La
risposta è trecentonovantuno.

Il deputato Brant consultò una seconda volta la sua calcolatrice tascabile. -
Perdio, è esatto. Come ha fatto a indovinare?
- Non ha indovinato, onorevole - disse Shuman. - Ha calcolato il risultato.
L'ha fatto su questo foglietto di carta.
- Storie - disse il generale con impazienza. - Una calcolatrice è una cosa e
dei segni sulla carta un'altra.
- Spieghi lei, Aub - disse Shuman.
- Sissignore... Ecco, signori, io scrivo diciassette e subito sotto scrivo
ventitré. Poi mi dico: sette volte tre...
Il deputato lo interruppe pacatamente. - Attento, Aub, il problema è
diciassette volte ventitré.
- Sì, lo so, lo so - Sì affrettò a spiegare il piccolo Tecnico - ma io
comincio col dire sette volte tre perché è così che funziona. Ora, sette volte
tre fa ventuno.
- E come lo sa lei? - chiese il deputato.
- Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L'ho controllato
innumerevoli volte.
- Questo non significa che lo darà sempre, però - disse il deputato.
- Forse no - balbettò Aub. - Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati
sono sempre esatti.
- Vada avanti.
- Sette volte tre fa ventuno, e io scrivo ventuno. Poi tre per uno fa tre,
così io scrivo tre sotto il due di ventuno.
- Perché sotto il due? - chiese il deputato Brant, secco.
- Perché... - Aub lanciò un'occhiata implorante al suo superiore. - È
difficile da spiegare.
Shuman intervenne: - Direi che per il momento convenga accettare per buono il
suo metodo e lasciare i particolari ai matematici.
Brant si arrese.
Aub proseguì: - Tre più due fa cinque, e perciò il ventuno diventa un
cinquantuno. Ora, lasciamo stare per un momento questo numero e cominciamo da
capo. Si moltiplica sette per due, che ci dà quattordici, e uno per due che ci
dà due. Li scriviamo così e la somma ci dà trentaquattro. Ora se mettiamo il
trentaquattro sotto il cinquantuno in questo modo, sommandoli otteniamo
trecentonovantuno, che è il risultato finale.
Vi fu un istante di silenzio e il generale Weider disse: - Non ci credo. È una
bellissima filastrocca e tutto questo giochetto di numeri sommati e
moltiplicati mi ha divertito molto, ma non ci credo. È troppo complicato per
non essere una ciarlatanata.
- Oh, no, signore - disse Aub, tutto sudato. - Sembra complicato perché lei
non è abituato al meccanismo. Ma in realtà le regole sono semplicissime e
funzionano con qualsiasi numero.
- Qualsiasi numero, eh? - disse il generale. - Allora vediamo.
- Trasse di tasca la sua calcolatrice (un severo modello militare) e la toccò
a caso. - Scriva sul suo taccuino cinque sette tre e otto.
Cioè cinquemilasettecentotrentotto.
- Sissignore - disse Aub staccando un nuovo foglio di carta.
- Ora - toccò di nuovo a caso la calcolatrice - sette due tre e nove.
Settemiladuecentotrentanove.
- Sissignore.
- E adesso moltiplichi questi due numeri.
- Ci vorrà un po' di tempo - balbettò Aub.
- Non abbiamo fretta - disse il generale.
- Cominci pure Aub - disse Shuman, tagliente.
Aub cominciò a lavorare tutto chino. Staccò un secondo foglio di carta, poi un
terzo. Finalmente il generale trasse di tasca l'orologio e lo considerò con
impazienza. - Allora, ha finito coi suoi esercizi di magia?
- Ci sono quasi arrivato, signore... Ecco il prodotto, signore. Quarantun
milioni, cinquecentotrentasettemilatrecentottantadue. - Mostrò la cifra
scarabocchiata in fondo all'ultimo foglio.
Il generale Weider sorrise condiscendente. Premette il pulsante di
moltiplicazione sulla sua calcolatrice e attese che il ronzio dei meccanismi
tacesse. Poi guardò il quadrante della minuscola macchina e disse con voce
rauca dallo stupore: - Grande Galassia, l'ha azzeccato in pieno."(segue)
 

asiul

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Nove volte sette - Isaac Asimov ...(part.2/3)

"Il Presidente della Federazione Terrestre stentava ormai a mascherare, in
pubblico, la tensione che lo rodeva e, in privato già permetteva che un'ombra
di malinconia velasse i suoi lineamenti delicati, di uomo sensibilissimo. La
guerra denebiana, dopo l'entusiasmo e l'unanime slancio dei primi anni, s'era
rattrappita a un gioco inane di manovre e contromanovre. Sulla Terra lo
scontento cresceva ogni giorno e cresceva forse anche su Deneb.
E ora il deputato Brant, capo dell'importantissima Commissione Parlamentare
sull'Organizzazione della Difesa, stava allegramente e placidamente dissipando
la sua mezz'ora di colloquio in chiacchiere inutili.
- Calcolare senza una calcolatrice - osservò il presidente con impazienza - È
una contraddizione in termini.
- Calcolare - disse il deputato - È soltanto un sistema per elaborare dei
dati. Può farlo una macchina come può farlo il cervello umano. Permetta che le
dia un esempio. - E, servendosi delle capacità da poco acquisite, prese a
calcolare somme e prodotti finché il presidente suo malgrado sentì nascere un
certo interesse.
- E funziona sempre?
- Infallibilmente, signor Presidente. Non sbaglia un colpo.
- È difficile da imparare?
- Mi ci è voluta una settimana per impadronirmi perfettamente del sistema. Ma
immagino che lei...
- Effettivamente - disse il presidente, pensoso - È un giochetto molto
interessante. Ma a che cosa serve?
- A che cosa serve un neonato, signor Presidente? Sul momento non serve a
nulla, ma non vede che questo è il primo passo verso la liberazione dalle
macchine? Consideri, signor Presidente - il deputato si alzò e la sua voce
profonda prese automaticamente le cadenze dei discorsi parlamentari - che la
guerra denebiana è una guerra di calcolatrici contro calcolatrici. Le
calcolatrici nemiche formano uno scudo impenetrabile di contro-missili che
fermano i nostri missili, e le nostre bloccano i loro nello stesso modo. Ogni
volta che noi perfezioniamo le nostre calcolatrici, i Denebiani fanno lo
stesso, e ormai da cinque anni si è creato un precario e inutile equilibrio di
forze. Ora noi siamo in possesso di un metodo che ci permetterà di vincere le
calcolatrici, di scavalcarle, di attraversarle. Potremo combinare la meccanica
del calcolo automatico con il pensiero umano, avremo per così dire delle
calcolatrici intelligenti; a miliardi. Non posso prevedere esattamente quali
saranno le conseguenze; ma è chiaro che questa innovazione avrà una portata
incalcolabile. E se Deneb ci arriva prima di noi, sarebbe una vera catastrofe.
Con aria preoccupata il presidente disse: - Che cosa dovrei fare secondo lei?
- Conceda il pieno appoggio del governo a un piano segreto per lo sviluppo del
calcolo umano. Lo chiami Progetto 63, se vuole. Io rispondo della mia
commissione, ma avrò bisogno del sostegno del governo.
- Ma fin dove può arrivare il calcolo umano?
- Non c'è limite. Secondo il Programmatore Shuman, che mi ha parlato per primo
di questa scoperta...
- Sì, ho sentito parlare di lui.
- Bene, il dottor Shuman mi dice che in teoria tutto ciò che sa fare una
calcolatrice lo può fare anche una mente umana. In sostanza la calcolatrice
non fa altro che prendere un numero finito di dati ed eseguire con essi un
numero finito di operazioni. La mente umana è perfettamente in grado di
ripetere il procedimento.
Il presidente rifletté per qualche istante. Infine disse: - Se lo dice Shuman,
non ho motivo di dubitarne... Sarà verissimo. Almeno in teoria. Ma in pratica
com'è possibile sapere in che modo lavora una calcolatrice?
Brant sorrise affabilmente. - Le dirò, signor Presidente; gli ho fatto la
stessa domanda. E sembra che un tempo le calcolatrici venissero progettate e
disegnate direttamente dagli esseri umani. Si trattava naturalmente di
macchine molto rudimentali, dato che ciò avveniva prima che si fosse affermato
il principio, ben più razionale, di affidare alle stesse calcolatrici la
progettazione di calcolatrici ancor più perfezionate.
- Sì, sì. Continui.
- Il Tecnico Aub aveva uno strano hobby: si divertiva a ricostruire queste
macchine arcaiche e così facendo ebbe modo di studiare il loro funzionamento e
scoprì che poteva imitarle. La moltiplicazione che ho eseguito poco fa è
un'imitazione del funzionamento di una calcolatrice.
- Straordinario!
- Il deputato tossì leggermente. - E c'è un'altra cosa che vorrei farle
presente, signor Presidente... quanto più riusciremo a sviluppare e ad
estendere questo nostro progetto, con le sue infinite applicazioni, tanto
maggiore sarà la percentuale di investimenti federali che potremo distogliere
dalla produzione e dalla manutenzione delle calcolatrici. Via via che il
cervello umano si sostituisce alla macchina, una parte crescente delle nostre
energie o delle nostre risorse può essere dedicata a impieghi pacifici e in
tal modo il peso della guerra sull'uomo comune andrà decrescendo
progressivamente. Ed è inutile dire quanto un fatto simile favorisca il
partito al potere.
- Ah - disse il presidente. - Capisco ciò che lei intende. Bene, si accomodi,
onorevole, si accomodi. Ho bisogno di riflettere sulla sua proposta... Ma
intanto, mi faccia ancora vedere quel trucchetto della moltiplicazione.
Vediamo se riesco a capire come funziona.

Il Programmatore Shuman non tentò di affrettare le cose. Loesser era un
conservatore, un uomo molto legato alla tradizione, e aveva per le
calcolatrici la stessa passione che aveva animato suo padre e suo nonno prima
di lui. Controllava tutta la rete di calcolatrici dell'Europa occidentale, e
ottenere il suo pieno appoggio al Progetto 63 avrebbe rappresentato un passo
avanti di notevole importanza.
Ma Loesser esitava ancora. Disse: - Non vedo troppo di buon occhio quest'idea
di mettere in secondo piano le calcolatrici. La mente umana è capricciosa. Una
calcolatrice ci dà infallibilmente la stessa soluzione allo stesso problema,
ogni volta. Chi ci garantisce che la mente umana sappia fare altrettanto?
- La mente umana, Calcolatore Loesser, non fa che manipolare dei dati. E
allora non ha importanza se ad eseguire l'operazione è la mente umana o la
macchina. L'una e l'altra sono semplicemente degli strumenti, dei mezzi.
- D'accordo, d'accordo. Ho studiato a fondo la sua ingegnosa dimostrazione e
mi rendo conto che la mente è in grado di ripetere esattamente i procedimenti
della macchina. Ma mi sembra lo stesso una cosa campata in aria. Anche
ammettendo la validità della teoria, che ragioni abbiamo per credere che la
teoria si possa applicare in pratica?
- Ritengo che vi siano ragioni molto valide. Gli uomini non si sono sempre
serviti delle calcolatrici. Gli abitanti delle caverne, con le loro triremi,
le loro scuri di pietra e le loro ferrovie, non avevano calcolatrici.
- E probabilmente non calcolavano nulla.
- Lei sa bene che non è così. Perfino la costruzione di una strada ferrata o
di una ziggurat richiedeva dei calcoli, sia pure elementari, e questi calcoli
venivano evidentemente eseguiti senza macchine.
- Lei intende dire che gli antichi calcolavano col metodo che lei mi ha
dimostrato?
- Probabilmente no. È un fatto che questo metodo (a proposito, noi l'abbiamo
battezzato "grafitica", dalla vecchia parola europea "grafo", cioè "scrivere")
deriva direttamente dalle calcolatrici, e dunque non può essere anteriore.
Tuttavia i cavernicoli dovevano pur avere un loro metodo, no?
- Arti perdute! Se lei mi vuol parlare delle arti perdute...
- No, no, io non sono un fanatico delle arti perdute, anche se non posso
escludere che ce ne siano state. Dopo tutto, l'uomo mangiava grano anche prima
dell'idroponica, e se i primitivi mangiavano grano dovevano per forza
coltivarlo nel suolo. Che altro sistema potevano avere?
- Non lo so, ma crederò nella coltura in terra quando vedrò del grano crescere
direttamente dal suolo. E crederò che si possa ottenere il fuoco strofinando
due schegge di pietra quando lo vedrò fare sotto i miei occhi.
Shuman divenne suadente. - Comunque sia, torniamo alla grafitica. Secondo me,
va considerata un aspetto del generale processo di eterealizzazione. Il
trasporto mediante veicoli più o meno ingombranti sta cedendo il posto al
trasferimento diretto. I mezzi di comunicazione tradizionali diventano sempre
più maneggevoli ed efficienti. Provi per esempio a confrontare la sua
calcolatrice tascabile con gli enormi cervelli elettronici di mille anni fa.
Perché non dovremmo fare l'ultimo passo su questa via, ed eliminare
completamente le calcolatrici? Andiamo, il Progetto 63 è già in corso di
realizzazione; già si registrano notevoli progressi. Ma abbiamo bisogno del
suo aiuto. Se il patriottismo non basta a farle prendere una decisione,
consideri la prodigiosa avventura intellettuale che ci sta di fronte.
Loesser disse in tono scettico: - Che progressi? Che potete fare oltre la
moltiplicazione? Potete integrare una funzione trascendentale?
- Col tempo arriveremo anche a questo. Durante il mese scorso ho imparato ad
eseguire le divisioni. Sono in grado di determinare con assoluta precisione
quozienti interi e quozienti decimali.
- Quozienti decimali? Con quanti decimali?
Il Programmatore Shuman si sforzò di dare alla sua voce un tono indifferente.
- Non ci sono limiti.
Loesser lo guardò sbalordito. - Senza calcolatrice?
- Mi ponga lei stesso un problema.
- Provi a dividere ventisette per tredici. Con sei decimali.
Cinque minuti dopo Shuman disse: - Due virgola zero sette sei nove due tre.
Loesser controllò il risultato. - Ma è straordinario. Le moltiplicazioni non
mi avevano impressionato gran che, perché, insomma, comportano solo dei numeri
interi, e avevo l'impressione che potesse trattarsi di un trucco. Ma i
decimali...
- E questo non è tutto. Stiamo lavorando in una direzione che fino a questo
momento è ancora segretissima e che, a rigore, non dovrei rivelare a nessuno.
Comunque... Stiamo per aprire una breccia nel fronte della radice quadrata.
- La radice quadrata?
- La cosa comporta naturalmente alcuni passaggi difficilissimi e ancora non
disponiamo di tutti gli elementi, ma il Tecnico Aub, l'uomo che ha inventato
la nuova scienza e che è dotato di una intuizione stupefacente, in questo
campo, afferma di aver quasi risolto il problema. Ed è soltanto un Tecnico. Un
uomo come lei, un matematico espertissimo e con un'intelligenza superiore, non
dovrebbe trovare nessuna difficoltà.
- Radici quadrate - mormorò affascinato Loesser.
- Anche cubiche. Allora, possiamo considerarla dei nostri?
Loesser gli tese di scatto la mano. - D'accordo."(segue...)
 

asiul

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Nove volte sette - Isaac Asimov ... (part.3/3)

"Il generale Weider camminava avanti e indietro a un'estremità del lungo
salone, rivolgendosi ai suoi ascoltatori con i modi di un insegnante severo
che ha di fronte una classe indisciplinata. Al generale non faceva né caldo né
freddo che il suo pubblico fosse composto dagli scienziati civili che
dirigevano il Progetto 63. Egli era il supervisore, la massima autorità, e
tale si considerava in ogni attimo della sua giornata.
Disse: - Le radici quadrate sono una bellissima cosa. Personalmente, non sono
capace ad estrarle e neppure capisco le operazioni relative, ma sono
certamente una bellissima cosa. Tuttavia, il governo non può permettere che il
Progetto si perda appresso a quelli che alcuni di voi chiamano gli aspetti
fondamentali del problema. Sarete liberi di giocare con la grafitica e
adoperarla in tutti i modi che vorrete quando la guerra sarà finita; ma adesso
abbiamo da risolvere dei problemi pratici della massima importanza.
In un angolo il Tecnico Aub ascoltava con dolorosa attenzione. Non era più,
naturalmente, un Tecnico; lo avevano sollevato dalle sue vecchie funzioni, e
destinato al progetto, con un titolo altisonante e un lauto stipendio. Ma le
differenze sociali restavano, e gli scienziati d'alto rango non avevano mai
accondisceso ad ammetterlo nelle loro file su un piede di parità. Né, per
rendere giustizia ad Aub, egli lo desiderava. Con loro si sentiva a disagio
come loro con lui.
Il generale diceva: - Il nostro obiettivo è semplice, signori; sostituire la
calcolatrice. Un'astronave che può navigare nello spazio senza avere a bordo
un cervello elettronico può essere costruita in un tempo inferiore di cinque
volte, e con una spesa inferiore di dieci volte, a una nave munita di
calcolatrice. Se potessimo eliminare le calcolatrici saremmo in condizione di
costruire delle flotte cinque, dieci volte più numerose di quelle di Deneb. E
al di là di questo primo grande passo, io intravedo qualcosa di ancor più
rivoluzionario; un sogno, per ora; ma in futuro io vedo il missile guidato
dall'uomo!
Tra il pubblico si diffuse un lungo mormorio.
Il generale proseguì. - Attualmente, la nostra più grave "strozzatura" è data
dal fatto che i missili dispongono di una intelligenza limitata. La
calcolatrice che li guida può non superare certe dimensioni e un certo peso,
ed è per questo che trovandosi in una situazione imprevista, di fronte a un
nuovo tipo di sbarramento anti-missile, i nostri apparecchi danno risultati
così mediocri. Pochissimi, come sapete, raggiungono gli obiettivi, e la guerra
missilistica è ormai una continua elisione; infatti il nemico è fortunatamente
nelle stesse condizioni nostre. Mentre un missile avente a bordo uno o due
uomini, in grado di dirigere il volo mediante la grafitica, sarebbe molto più
leggero, più mobile, più intelligente. Ci darebbe quel margine di superiorità
che ci porterà alla vittoria. Inoltre, signori, le esigenze della guerra ci
obbligano a tener presente anche un altro punto. Un uomo è uno strumento
infinitamente più economico di una calcolatrice. I missili con equipaggio
umano potrebbero essere lanciati in numero tale e in tali circostanze quali
nessun generale sano di mente oserebbe mai prendere in considerazione se
avesse a sua disposizione soltanto dei missili automatici...
Disse ancora molte altre cose, ma il Tecnico Aub aveva sentito abbastanza.

Nell'intimità della sua stanza, il Tecnico Aub passò molto tempo a correggere
e ricorreggere la lettera che intendeva lasciare. Il testo definitivo, quando
lo rilesse, suonava così:

Quando cominciai a studiare la scienza che oggi si chiama grafitica, la
consideravo alla stregua di un passatempo privato. Non vedevo, in essa, altro
che un divertimento stimolante, un esercizio mentale.
Quando il Progetto 63 venne istituito, io ritenevo che i miei superiori
vedessero più lontano di me; che la grafitica potesse essere messa al servizio
dell'umanità, potesse contribuire, per esempio, alla realizzazione di congegni
veramente pratici per il trasporto individuale. Ma ora capisco che sarà usata
solo per spargere morte e distruzione.
Non posso sopravvivere alla responsabilità di aver inventato la grafitica.

Lentamente, diresse verso se stesso un depolarizzatore delle proteine e, senza
provare alcun dolore, cadde istantaneamente fulminato.

Erano tutti raccolti, sull'attenti, intorno alla tomba del piccolo Tecnico,
mentre veniva reso omaggio alla grandezza della sua scoperta.
Il Programmatore Shuman chinò solennemente il capo insieme agli altri, ma non
era commosso. Il Tecnico aveva fatto la sua parte, e ormai non c'era più
bisogno di lui. Certo, era stato lui a inventare la grafitica, ma ora che la
nuova scienza aveva messo le ali, avrebbe continuato da sola, di trionfo in
trionfo, fino al giorno in cui i missili avrebbero solcato gli spazi guidati
dall'uomo. E oltre ancora.
Nove volte sette, pensò Shuman con profonda contentezza, fa sessantatré, e non
ho bisogno che me lo venga a dire una calcolatrice. La calcolatrice ce l'ho
nella testa.
E questo gli dava un senso di potenza davvero esaltante."



Titolo originale: The Feeling of Power Prima edizione: If, febbraio 1958
Traduzione di Carlo Fruttero
 
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