II Concorso letterario Forumlibri----> I racconti

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Brethil

Owl Member
Buonasera Scrittevoli e Scrittevole, Giurevoli e Giurevole, Signori e Signore :D

L’Imprevisto è il tema dei racconti che mi accingo a postare, senza dilungarmi troppo posso solo dire che è stato un piacere leggervi e che credo vi siate impegnati anche di più di quanto già abbiate fatto per il primo concorso. Bravissimi :ABBB

I Racconti in gara e i loro scrittevoli:

Andar fuori – Anonimo - Bab
Non aprite quella porta – Soushita Nakagata - aka Germano D. C.
Anfratti d’amicizia – Stilo aka Dorylis
Soli – Melchiorre aka Dory
La casa ha deciso – Elvio Bongorino aka Shoofly
Accade ogni giorno, forse – Anonimo - Ulysse
Ulver – AK11 aka Sir

Giurevoli riuniti:
(soprannomi dovuti al colore abbinato ai loro giudizi, Cluedo docet)

Skitty – Lady Scarlett
El_Tipo – Doc. Brown
Luisa – Professoressa Violet
Sopraesistito – Reverendo Green
Nerst – Madame Bordeaux
Bianca – Miss Bluette
Risus – Colonnello Grey
Darida – Madame d’Orange
Irene – Miss Pinky

Vi invito a non scrivere nulla in questo thread che è dedicato soltanto a racconti e relativi giudizi, appena avrò pubblicato tutti i racconti aprirò uno spazio per totoautore e per gli onorevolissimi giurati popolari.

Grazie e buona lettura a tutti! :YY
 
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Brethil

Owl Member
Andar fuori

Alla finestra romana. Guarda le formiche che fanno treno.
Interno Zero. La finestra del portiere diventata la finestra che sbircia il salotto. Ci hanno appeso delle cartoline finita l'estate. Insieme a qualche immagine ritirata da riviste degli anni Cinquanta abbandonate in parte al cassonetto della carta. La domenica mattina sul viale della colazione le avevano raccolte dalla pioggia, poi davanti al cappuccino avevano riso leggendone alcune parti. Un marito si lamentava della moglie che la sera andava al bar del paese a guardare Lascia o Raddoppia, abbandonando il focolare domestico. Suor Anna che curava la rubrica rispondeva alla lettera indignata di fronte al comportamento sconsiderato della donna, da sempre “regina della casa”, pertanto il suo posto doveva essere quello. E poi i consigli dietetici, i menu che prevedevano pasti succulenti con minestrine in brodo di carne o risotti col midollo di bue, arrosti o scaloppine e terminavano con banane flambè. Gli anni dopo la guerra, quelli in cui la tavola si rifocillava.
Appena a casa avevano ritagliato le immagini e gli slogan che promuovevano tour turistici alla scoperta delle Alpi. Ora lì appesi si facevano solcare dalla fila nera di formiche.
C'era da aspettarselo che le formiche sarebbero entrate prima o poi. Tutta la frutta sparsa in giro. Appoggiata a sostenere libri. Sormontata da carte e bollette sul mobiletto d'ingresso. Rotolata dal cesto.
E' il nonno che l'appoggia sugli strati squamati di guanti e sciarpe sopra la scarpiera, appena entrato. E' riempito di mele, quelle piccole, un po’ abbassate e dalla guancia rossa. Dentro il loden di una magrezza consumata dagli anni non sa come muoversi, le mani che impacciano tanto grandi, così le dita si aprono e lasciano cadere. Le braccia scrollano l'odore di tante persone mescolate nella metropolitana già lontana. Fermata Circo Massimo. Circo Massimo, appena uscito a destra in viale Aventino. E poi si apre Piazza Albania.
Inspiegabilmente poco tempo dopo la frutta si sparge per l'appartamento. Pronta alla raccolta furtiva di un passaggio. Quando la vista spinge un leggero appetito. Capita di frequente in questo periodo, che sia il colore a ricordarle di dover mangiare.
Forse non è nemmeno così scontata la presenza delle formiche. Interno zero, che iniziava ad esistere solo quando suonava il campanello. Ed allora strattonava quel bottone della camicia, che fino all'ultimo non sapeva se lasciar fedele al collo. Sbavava un po’ le labbra col sugo. Teneva in mano il cucchiaio di legno, cercando di darsi l'impressione di essere stata interrotta in qualcosa di indaffarato.
"Ciao Marzio."
"Ciao. Ti ho trovata finalmente!"
Sono giorni che Sofia ha deciso di cambiare quell'etichetta. Si è alzata con quel proposito, scardinare l'interno 0. Giorni che il campanello è rimasto lavato via di pioggia. E le lenzuola spesse sulle braccia accorpate. Mentre le previsioni ripetevano alla televisione dimenticata nell'altra stanza un meteo soleggiato su tutta Italia. Ma poi l'Italia finisce tutta addosso a quella vetrina. Insieme alle cartoline con le promesse di luoghi.
Stamattina il treno di formiche che passa di lì la distoglie. Già lo scalpello che usa per la pietra in mano. Pronta a scardinare il plexiglass Interno zero. Interno dal nero stretto e conciso. Zero, tondo e paffuto di quel timido che vuole erompere ma rimane solo affacciato. Loro due chini che incidevano le forme. La punta del trapano che strideva e graffiava. Le sue mani, che accompagnavano la linea morbida. La mani. Togliere le mani il più possibile. Scavare, grattare via dal muro i segni di quella fermata, interno 0.
Era qualche mese fa. Erano quei giorni in cui Marzio era con lei. Aveva insistito per quella targhetta da subito. Tanto l'aveva cercata su e giù le scale della palazzina. Interno Zero. "Ho il fiatone, per forza! Avanti indietro sull'androne ingabbiato a cercarti. Facile: fermata Circo Massimo. Viale Aventino. Piazza Albania. Civico 22. Per poi perdersi dentro la palazzina. Come immaginare che alloggi al posto del portiere?". Ed allora dare un nome a quello spazio ricavato. Un nome che aveva iniziato poco dopo ad essere richiesto quando rispondeva al telefono appeso al muro. Un nome che compariva compresso sul mucchio di lettere, bollette, pubblicità che spuntava dalla cassettina della posta.
Quella sera, la prima sera, guardava le sue mani a cena, Sofia. Quell’incedere lento e pigro, ciondolando la testa. Sbucciavano il mandarino rugoso. Si muovevano solo dopo averne assaggiato la rotondità. Averne soffiato fuori tutto il profumo. Solo le punta delle dita impegnate. I palmi distanti e asciutti, liberi per la guancia quando sarebbe caduta a respirare finalmente. Parlava di quando gli aborigeni esprimono una richiesta al cielo. Così accucciati nel loro piccolo umano, timorosi nel rivolgere una richiesta a qualcuno che non si mescola a faccende così minime, esprimono un desiderio, spingendolo timidamente ed incoraggiandolo a farsi sentire.
I palmi delle mani che si aprono. Tutte le vie possibili tracciate. E si riempiono di un tocco tondo. Ancora rugoso.
Sofia non sarebbe riuscita a fare una richiesta migliore. Eppure poco dopo tutta quella pioggia. Senza preavvisi. Solo un’assenza.
Ed ora lì. Sullo stipite del cominciamento. Ma le formiche non dovevano capitare. A sfilare i ricordi. Col quel muoversi tutto umano di qualcosa che continuava. Lì in prossimità dove la targhetta faceva buco si portavano fuori, solcavano il nero dei caratteri e proseguivano dentro sulla cornice verde interno della finestra. Così dentro e fuori si mettevano ad infilare mondi paralleli. E convergevano sul vetro.
Come sua madre quando in via Merulana tirava la carrucola per stendere i panni. E la pancia appoggiata al davanzale sobbalzava al lancio sul cielo. Quasi quel vestito a fiori gialli fosse lei, ancor più di quelle costole che facevano scalino sul marmo.
Non ha buttato molto altro a quel modo. Invecchiando, è stato più un addossarsi. Caricarsi le fatiche della patina di tessuti grigi. Quotidiani rattoppi, pieghe, misure di abiti da confezionare. E lo sguardo oltre la distanza dell'ago annebbiato.
La distanza da un incontro che cuciva stretto una presenza impalpabile.

Una formica risale la mano. E' tutta un grumo nero. Veloce si muove sul dorso. Troppo stanca per combattere questo portarsi avanti, Sofia la segue.

Come la campagna quando guarda le nuvole che passano. E soffia.
Stanotte farà vento.
 

Brethil

Owl Member
Sopraesistito: sostanza un po’ scarsa, ben coperta da un modo di scrivere originale che tuttavia a me non è piaciuto. Premio l’originalità, ma il resto non mi ha lasciato molto.

Nerst: Ho apprezzato i simbolismi e la descrizione dettagliata di persone ed ambienti, ma purtroppo non riesco a trovare una correlazione tra la storia ed il tema “imprevisto”.

Luisa: Molto grazioso. Gradevolissimo fin dalle prime battute. Davvero originale. Un momento della giornata all’interno della testa del personaggio descritto. Sembra la carezza di un bambino.

El_Tipo: sicuramente uno dei migliori racconti. Scritto molto bene, è un affresco pittoresco e poetico, dipinto da una mente che ragiona su più piani (anche se ha dimenticato la protagonista al piano terra:D). Mi hanno colpito molto questi contorni sfumati, questa dimensione sospesa, è un languido grigiore accattivante. Se questo quadro fosse una donna probabilmente la inviterei a cena. Ma questo non è nemmeno un quadro.

Skitty: Mi ha colpita moltissimo questo toccante racconto, anche se non riesco a figurarmi bene una storia. Scrittura molto elegante e profonda, che traccia dei concetti che restano enigmatici anche dopo diverse ri-letture. Molte immagini sono nitide e poetiche, le parole ricercate lasciano un segno.

Bianca: Un racconto triste e malinconico.

Darida: Racconto insolito, peccato mi sia mancata la visione d'insieme, ho tutte le tessere del mosaico, ma non riesco a comporlo, insomma, un modo carino per dire che non l'ho capito ma che mi piace: potere delle parole.

Irene: Sarà colpa mia, forse non l'ho capito bene, ma non sono riuscita a farmelo piacere. è per caso un tentativo di scrittura futuristica, ellittica? A me sembra un'accozzaglia di frasi ad effetto, e quel che è peggio, a volte slegate fra loro.
 

Brethil

Owl Member
NON APRITE QUELLA PORTA

«Raccontami che cosa è successo dall’inizio, Tyler. Cerca di rilassarti, lascia tornare la mente a quel giorno… non avere paura…». La dottoressa Stanton, rinomata psichiatra forense, accavallò le gambe con non chalance sulla poltrona del suo studio di Cleveland, curiosa di ascoltare la versione dei fatti direttamente dal protagonista, disteso sul lettino di fronte a lei.
«Eravamo solo in sei quella sera a presidiare la scuola…» cominciò a raccontare il giovane, fis-sando un punto imprecisato del soffitto. «La mattina avevamo organizzato uno sciopero per prote-stare contro i tagli alla pubblica istruzione, ma la polizia ci aveva subito “rimbalzato”, così avevamo deciso di occupare pacificamente il liceo barricandoci dentro. Eravamo stravaccati sui divanetti dell’atrio, terrorizzati all’idea di affrontare una notte intera senza sballarci. La birra era già finita, l’erba bastava a malapena per un paio di giri ed erano appena le undici. Il problema era: cosa avremmo fatto dopo? Di dormire non se ne parlava neanche. Io avevo portato da casa qualche gioco di società, ma a diciassette anni hai in testa solo due cose: una stava esaurendosi prima del previsto, l’altra - il sesso - era il vero motivo per cui Brian, nostro rappresentante di classe e mio migliore amico, aveva invitato due cheerleader a fare quell’improbabile turno di notte assieme a noi.
In dodici ore il liceo era già ridotto a un porcile: divanetti sventrati, banchi rovesciati, porte scar-dinate, i bagni allagati. C’eravamo accampati con i sacchi a pelo nell’ala nord dell’atrio, per il semplice fatto che lì c’era una stufetta elettrica mentre in tutta la scuola c’avevano staccato il gas. Io ero intontito dall’erba, non ricordo nemmeno come mi sia potuta uscire di bocca quell’idea, so solo che non immaginavo che mi prendessero in parola, la tirai fuori così, tanto per dire qualcosa. Tossii un paio di volte per tutto il fumo che avevo inspirato e proposi: “Perché non facciamo una seduta spiritica? Eh? Ho visto che c’è una tavoletta Ouija giù nel seminterrato, in mezzo alle cian-frusaglie nello sgabuzzino degli attrezzi… Che ne dite? Sarebbe divertente…”. Ci fu un attimo di silenzio, giusto quella frazione di secondo che il cervello impiega per elaborare un’idea e abbrac-ciarla, poi una prima risatina nervosa, poi teste che annuivano, sempre più convinte.
“Vuoi evocare qualche Beetlejuice in versione femminile magari? Visto che non c’è trippa per gatti per te stasera, eh? Oppure, Tyler, vorresti chiamare Casper e chiedergli un autografo?”. Jeremy mi prendeva in giro alludendo alla mia passione per i film d’animazione e dando per scontato che le cheerleader sarebbero state esclusiva sua e di Brian. A quel punto, sentendomi punto sul vivo, decisi di sfidarli sul serio e alzando la voce per farmi sentire, esclamai: “No, voglio evocare un Jinn, un demone… ma se non avete le palle, possiamo pure fare il gioco della bottiglia come alle medie…”. Avevo lanciato un amo con un’esca troppo allettante per il loro ego, e Brian e Jeremy non potevano permettersi di passare per conigli di fronte alle due ragazze. Una di loro, Cassidy, mi chiese con un filo di voce: “Cos’è una tavoletta uigia?”.
“Ouija… E’ una semplice tavola di legno di forma ovale: ci sono le lettere dell’alfabeto dalla A alla Z e i numeri da 0 a 9 serigrafati lungo i bordi, con le parole “sì” e “no” in rilievo al centro. In pratica, per permettere allo spirito evocato di esprimersi e farsi capire, si usa un piccolo puntatore, sembra quasi un grosso plettro per chitarra, detto planchette. Chi partecipa alla seduta sfiora questa specie di lancetta mobile con la punta dell’indice, senza però fare pressione o spingerla, lasciando che sia lo spirito - se è presente - a spostarla e a rispondere alle domande, componendo le parole con le lettere o le date coi numeri. Sempre che non ve la facciate sotto appena la vedrete muoversi da sola…” lasciai intenzionalmente cadere la frase per provocarli e farli cadere nella trappola. Il mio scopo era di tirar loro uno scherzo - sì lo ammetto era un po’ pesante, ma sapevo che non si sarebbe presentato nessuno spirito, sarei stato io a muovere il puntatore senza farmi scoprire, anche perché avrei diretto io la seduta da unico esperto in materia. In realtà ricordavo solo un film dell’orrore in cui avevo visto usare la tavoletta in questione e avevo letto qualche articolo e blog a riguardo su internet. Ma tanto bastava per farli pendere dalle mie labbra.
“Con chi ti credi di parlare? – era intervenuto Brian abboccando all’amo – Non ho paura di niente io… andiamo a cercarla, ci sarà da divertirsi…”.
Scendemmo nel seminterrato dove si trovava lo sgabuzzino per gli attrezzi da ginnastica e tro-vammo la tavoletta Ouija completamente ricoperta di polvere sopra una mensola. Ci sedemmo ec-citati attorno a un tavolinetto da caffè nella saletta dei bidelli, invitai gli altri ad appoggiare delica-tamente le dita sui bordi del puntatore come avevo appena fatto io, e diedi finalmente inizio al mio teatrino.
“Adesso facciamo fare una dozzina di giri alla lancetta in senso antiorario per attirare lo spirito e fargli capire che stiamo cercando di metterci in contatto con lui. A quel punto viene il bello, la ri-portiamo in mezzo e aspettiamo che il Jinn la muova - sempre che si presenti ovviamente. Mi rac-comando, ragazzi, non cominciate a ridere, andare in panico, fare le isteriche o a mancargli di ri-spetto, perché il demone potrebbe innervosirsi e non essere più disposto a comunicare. Fate una domanda alla volta, scandendola lentamente, aspettiamo che sia lui a fare la sua mossa. Ma so-prattutto guys, mi raccomando - insistei facendo una pausa ad effetto – non staccate mai il dito dal puntatore prima che la seduta sia finita e che lo spirito se ne sia andato di sua spontanea volontà, o al limite invitato a farlo da noi. Se malauguratamente staccate la presa, interrompete la catena che lo lega trattenendolo all’interno della tavoletta Ouija: gli si aprirebbe un varco, una finestra sul nostro mondo, che nessun demone si farebbe sfuggire”. Tra me e me ridevo sotto i baffi, avevo i miei amici completamente ai miei piedi, mi guardavano a bocca aperta come se in un attimo fossi diventato il più figo della scuola.
Facemmo girare il puntatore lungo i bordi per una decina di volte e alla fine lo riposizionammo tra il sì e il no. A quel punto domandai ad alta voce, con tono fintamente solenne: “C’è qualcuno?”. Se avessi subito manipolato la lancetta, i ragazzi non ci sarebbero cascati e la messinscena non mi avrebbe retto nemmeno un secondo. Per rendere la cosa credibile, avevo pianificato di spostarla lentamente verso sinistra solo dopo la terza volta che avessi riproposto la domanda, ma non ce ne fu bisogno, *****. Al secondo invito rivolto nel vuoto - col naso per aria per recitare fino in fondo la mia parte - inaspettatamente, incredibilmente, la planchette prese a muoversi da sola, quasi sci-volando, verso il sì.
“La stai spingendo tu, Tyler, ti vedo…” mi accusò subito Brian, che odiava farsi prendere per i fondelli, figuriamoci poi davanti a due ragazze.
“No, te lo giuro, non sono io!”
“Tyler, piantala, non è divertente!”
“Ti dico che non sono stato io a muoverla, dev’essere l’effetto ideomotorio che dicevano su internet… voi pensate che la lancetta si muoverà e inconsciamente provocate un movimento invo-lontario…”. Stavo parlando più a me stesso che a loro, il mio sbigottimento era genuino, cercavo una spiegazione logica a quello che di irreale stava accadendo e che non era programmato che ac-cadesse.
“Ehi, adesso che sta succedendo?” urlò Cassidy interrompendomi di botto.
La planchette prese a girare vorticosamente lungo i bordi per alcuni secondi, come avesse preso vita, segno che lo spirito voleva l’attenzione su di sé e che era impaziente di comunicare. Tutti a-vevamo il dito praticamente aggrappato al puntatore per non perderlo, tanto sfrecciava veloce. Alla fine tornò a posizionarsi perfettamente al centro, io deglutii due volte sonoramente, spiazzato dal risvolto inaspettato che aveva preso la cosa, e domandai con voce tremante: “Chi s-sei?”.
Stavolta la lancetta si mosse con uno scatto secco, prima sulla lettera A, poi con una diagonale perfetta sulla Z, di nuovo sulla A, ancora sulla Z, tanto che per un attimo pensai che ci stesse prendendo in giro, per poi virare invece di colpo sulla E e sulla L.
“Ti chiami Azazel?” chiesi sgomento rivolto al nulla. In quel momento ebbi la certezza che la cosa mi era sfuggita di mano, non poteva essere uno dei ragazzi a muoverla, il nome che lo spirito ci aveva dato era troppo verosimile per essere stato inventato così su due piedi da uno di loro. Il pun-tatore si spostò con un movimento deciso sul sì. L’unico rumore che si sentiva, nel silenzio irreale della stanzetta dei bidelli, era lo stridere sordo del legno contro il legno.
 

Brethil

Owl Member
“Ragazzi, adesso sarebbe davvero il momento adatto per dirmi che è uno scherzo…” era sbottato Sheldon, che cominciava a farsela sotto.
“Non sto spingendola io, t’ho detto!” protestai.
“State zitti! Cristo, si sta muovendo di nuovo…”
“A-S-K”: lo spirito voleva che gli ponessimo delle domande, voleva comunicare. Cosa diavolo si poteva chiedere a un demone così su due piedi?
“Ehm… dove sei esattamente?”. Cassidy aveva trovato tra i meandri del suo cervello la domanda più intelligente possibile.
“A-M-I-D-S-T”
“Sei in mezzo a noi? In che senso? Sei sospeso sopra il tavolino?”
“Mi stai facendo il piedino?” chiese all’improvviso Lexie a Brian, che sedeva alla sua destra.
“No, perché?”
“Brian toglimi quella lurida mano dalla coscia!” gli ordinò sobbalzando leggermente sulla sedia.
“Non ti sto toccando io, come te lo devo dire?!”
“Allora chi è stato? Chiunque sia, la smetta immediatamente perché non è divertente. Sheldon sei stato tu!?”
“Ma se ho le mani sul tavolo, cosa vuoi?!” la zittì subito.
“Oddio, di nuovo…” fece lei indietreggiando di scatto sulla sedia.
La planchette prese a muoversi di sua iniziativa, senza che avessimo formulato nessuna domanda.
“N-I-C-E-P-A-N-T-I-E-S”. Carine le tue mutandine…
“Vaffanculo idioti…” sbottò Lexie, diventata tutta rossa in faccia e alzandosi in piedi.
“Nooo!! Che cosa hai fatto?! Ti avevo detto di non staccare il dito per nessun motivo!” le gridai mettendomi la mano libera nei capelli.
“Me ne frego, me ne vado! Pensi davvero che resti qui a farmi prendere per il culo?” urlò lei vol-tandosi e sbattendo la porta con un gestaccio. Il puntatore nel frattempo era sfrecciato come un fulmine sulle lettere T e Y. Thank you.
“Grazie… di cosa?” chiese stupidamente Cassidy. Il Jinn aveva ottenuto il suo scopo.
“N-O-W-U-D-I-E”. Adesso morirete tutti...
A quel punto fu il panico. Non volevo credere che stesse succedendo realmente, che avessi evoca-to davvero un’entità ostile, speravo che fosse solo un brutto incubo, che mi fossi addormentato per la sbronza o fossi svenuto per il fumo.
“Aspetta, aspetta… parliamo, resta ancora un po’ con noi… ti prego, aspetta, siamo stati rispettosi, non…”
“2-L-A-T-E”. Troppo tardi…
Il tavolino cominciò a vibrare su se stesso, come impazzito. Un attimo dopo la porta si spalancò da sola con un tonfo secco che ci fece saltare sulla sedia: sulla soglia, a malapena illuminata dalla luce del corridoio, Lexie era sospesa a mezzo metro da terra come tenuta su da una forza invisibile. Non doveva andare così, doveva essere solo un gioco, un dannato scherzo tra amici… oh Cristo, non volevo evocare un mostro…».
«Calmati, Tyler, va’ avanti. Che cosa è successo dopo?» domandò la dottoressa Stanton.
«Il collo di Lexie ha cominciato a bruciare, cazzo… si sentiva il crepitio della carne che arrostiva… e le sue urla… oddio… non le dimenticherò mai… Non l’ho fatto apposta, non potevo immaginare che uscisse davvero un demone da una maledetta tavola di legno di un film!»
«Rilassati, Tyler, fa’ dei respiri profondi. Ricordi se hai visto qualcuno dietro la ragazza? Concen-trati, chiudi gli occhi, prova a rivivere quel momento. So che è terribile, ma qui sei al sicuro adesso, nessuno ti farà del male…».
«Non c’era nessun uomo, dottoressa, la polizia non mi crede, nessuno mi crede, neanche lei… Il Jinn teneva sospesa per aria la nostra amica e le ha incenerito il collo in una frazione di secondo, quante volte devo ripeterlo? Oh Dio… sembrava combustione umana spontanea accelerata all’ennesima potenza! Poi Lexie è caduta a terra e le si vedeva l’osso del collo completamente e-sposto... non c’era nemmeno sangue santo cielo, si era coagulato all’istante… come quando si cauterizza una ferita. Solo che quella era una voragine, Cristo… che schifo… Dopo ricordo solo le urla di Cassidy, gente che tentava di sfondare la finestra per scappare, gli oggetti che volavano dalle mensole, il tavolo che si rovesciava da solo, la tavoletta Ouija che fluttuava impazzita… Non potevo prevedere che andasse così… sono morti tutti, adesso verrà a prendere anche me, non mi darà tregua finché non mi troverà… Dottoressa la prego, mi aiuti, almeno lei mi deve credere…».
«Ti credo Tyler, non ti agitare – mentì la dottoressa Stanton abbassando lo sguardo sul file del ra-gazzo appoggiato sulla sua coscia: la diagnosi della sua collega all’FBI recitava “stato confusionale allucinatorio” e lei suo malgrado avrebbe dovuto sottoscriverla. «Cerca di rilassarti, chiudi gli occhi. Come sei riuscito a metterti in salvo?».
«Devo solo ringraziare internet e le leggende urbane che girano online» riprese Tyler. «Nella saletta dei bidelli, sopra la credenza, c’erano un paio di pacchi di sale da cucina, ne ho aperto for-sennatamente uno e me lo sono sparso tutto attorno ai piedi formando un cerchio continuo. I de-moni non riescono ad oltrepassarlo, il sale è un potente protettore e purificatore. Ho urlato a Brian di correre verso di me per entrarci, ma non ce l’ha fatta… Dio ti prego, perdonami, li ha uccisi tut-ti, ha ucciso tutti i miei amici…».
«Non è stata colpa tua, Tyler».
«Poi ho chiamato subito il 911 e la polizia è arrivata dopo una ventina di minuti. Il Jinn doveva essersene andato, l’ho capito dal fatto che i poliziotti rimanevano vivi. Mi hanno ammanettato, presumendo che avessi commesso io quella strage. Ma non volevo assolutamente uscire dal cerchio di sale, non potevo avere la certezza che non fosse ancora lì nella stanza. Ho chiesto al poliziotto se aveva delle manette in ferro puro - altro elemento che tiene lontani i demoni - e mi sono tenuto in mano tutto il sale che sono riuscito a raccogliere. In centrale mi sono fatto interrogare in cella, dietro le sbarre di ferro, ma dopo solo poche ore mi hanno rilasciato. Il medico legale ha confermato che le morti erano dovute a un anormale, sconosciuto processo di combustione accele-rata, non spiegabile scientificamente e certamente non opera di un ragazzino di diciassette anni. La polizia non crede alla storia dell’evocazione e non mi vuole proteggere… ho paura dottoressa, non voglio morire… mi tocca andare in giro con crocifissi, ampolline d’acqua santa, sale nelle tasche. La prego, lo so che mi hanno costretto a venire qui per una perizia psichiatrica, ma lei deve scrivere che sto dicendo la verità, non è colpa mia, doveva essere uno scherzo, non l’ho fatto apposta! Che Dio mi fulmini, non volevo far morire i miei amici, dovete credermi! Non sono pazzoo!!».
«Va bene, va bene, Tyler, respira, per oggi basta così… rimandiamo alla prossima settimana, mar-tedì alla stessa ora. Ti prescrivo delle gocce di En per aiutarti a dormire, così ti riposi un po’, ok?».
«Tanto è inutile, non ci riesco da giorni… appena chiudo gli occhi me li rivedo morire davanti, oh Cristo…»
«Vedrai che con queste riuscirai a riposare almeno un po’…» lo rassicurò la dottoressa Stanton al-zandosi dalla poltrona per prendere il ricettario e compilare la prescrizione per il farmaco. «Mi raccomando, usale senza esagerare, massimo una ventina di gocce, intesi?» gli domandò di spalle, china sulla scrivania intenta a scrivere il dosaggio.
«Dottoressa?»
«Sì, Tyler, dimmi»
«Io non dormo mai…»
Quando la donna si voltò di scatto, era già troppo tardi. Il giovane l’aveva afferrata con una sola mano sotto le mandibole, stringendole i muscoli del collo in una morsa inestricabile, e con una forza inaudita la teneva sospesa a venti centimetri dal pavimento. La dottoressa tentò di chiamare aiuto, ma le corde vocali furono uno dei tanti muscoli che finirono carbonizzati nel giro di pochi secondi. L’ultima immagine di questo mondo che rimase impressa per sempre sulle iridi di Melanie Stanton fu quella del suo ultimo paziente che la guardava con la testa inclinata da un lato e gli occhi gialli ridotti a due fessure ellissoidali, fisse a godersi quel macabro, personalissimo, spetta-colo “pirotecnico”.

Tyler Hastings è salito al numero 4 nella lista dei criminali più ricercati degli Stati Uniti d’America. L’FBI, nelle settimane successive, dopo il ritrovamento di alcuni cadaveri carbonizzati alla zona cervicale anche negli Stati confinanti dell’Indiana e del Michigan, ha passato il caso all’Interpol, rassegnandosi a classificarlo come un X-file.

Soushita Nakagata
 
Ultima modifica di un moderatore:

Brethil

Owl Member
Ho dovuto dividere il racconto in due parti in quanto troppo lungo per un solo post e ho cercato di interromperlo in un momento narrativo opportuno.

Sopraesistito: questo racconto sembra lo script di un B-movie anni 90, con tutti i cliché possibili e immaginabili! Adolescenti che hanno a che fare con il soprannaturale, mescolanze di svariate mitologie (araba, occidentale, vodoo e altre) senza né capo né coda, il demone che parla in slang internettiano, per finire in un colpo di scena meravigliosamente prevedibile!
Mi ha riportato indietro all’adolescenza!


Nerst: racconto per niente scontato, mi ha catturata fin dalle prime righe ed ho trovato il finale di ghiaccio.

Luisa: storia non originale sembra qualcosa di già sentito. È un peccato perché io sono un’amante del genere trattato ed avrei voluto qualcosa di più personale. Qui invece c’è di tutto un po’. Nel senso di cose e situazioni prese da serial televisivi e movies. Alcuni passaggi sono del tutto inutili e superflui in un racconto.
Per la mia recensione dettagliata rimando al post concorso e spiegherò quali punti e passaggi non mi sono piaciuti. Ci sono degli errori (uno è “non chalance” - nonchalance) e delle inesattezze nella storia.


El_Tipo: racconto scorrevole, non particolarmente emozionante ma gradevole. Un po’ troppo americanata per i miei gusti.

Skitty: bellissimo thriller, concentrato stupendamente in poche pagine. Il tema dell’imprevisto è ampiamente centrato. Linguaggio, grammatica e punteggiatura perfetti. Azzeccato il titolo, che si riferisce ad aprire il passaggio per il demone diabolico dal suo mondo al nostro. Anche se in realtà, forse il demone era già qui… oppure no, è arrivato dalla seduta spiritica e si è impossessato del corpo del ragazzo…

Bianca: un racconto avvincente e scorrevole.

Darida: "Io non dormo mai..." Forse me la aspettavo questa conclusione, forse no...resta il fatto che quando ci sono arrivata ho avuto un brivido, per una fan del Re, paura è bello: promosso!

Irene: Abbastanza scontato, ma è ben costruito.
 

Brethil

Owl Member
Anfratti d’amicizia


Erano in tre, quasi coetanei, ognuno con il suo zaino sulle spalle. Il percorso si prometteva accidentato e faticoso, e per l’occorrenza indossavano pesanti scarponi chiodati. Il sole spuntava dopo una mattinata nuvolosa e rischiarava l’animo ormai bigio dei tre viandanti a spasso. Il motivo che li aveva spinti a ritrovarsi dopo cinque anni era stata per l’occasione una lettera del loro allora grande amico d’infanzia, Philippe Davìd:
“Cari ragazzi, è da troppo tempo che non ci vediamo! Io direi di dimenticare ogni noia quotidiana e di trovarci a casa mia per una bevuta. Io adesso sto sistemando la baita del nonno italiano in Alto Adige, se volete raggiungermi mi farebbe piacere! Vi posso ospitare per qualche giorno, che ne dite? Mi siete mancati, gambe in spalla, vi aspetto!”
Jehan Bolz, Henri Berger e Jean Marc Cavill ovviamente avevano accettato l’invito. Il viaggio in macchina era stato lunghissimo, quasi eterno dalla Francia ma il peso dei ricordi aveva notevolmente alleggerito la stanchezza del tragitto. Era da un sacco di tempo che non si vedevano, loro che erano i mitici quattro dell’infanzia, il terrore delle vecchiette del quartiere! Non che adesso fossero uomini, ma ognuno era stato risucchiato dalle sue traversie. Henri aveva un animo sensibile, quasi da artista, in effetti era l’unico di loro che aveva seguito le orme letterarie diventando un discreto scrittore. A soli venticinque anni aveva già pubblicato una decina di articoli su importanti riviste di divulgazione culturale. Da poco aveva trovato Guillemette, l’amore della sua vita. Schivo e riservato com’era, trovare una ragazza così piena di vita era come aver vinto il Superenalotto, la adorava alla follia! Fra le sue insicurezze c’era proprio quella di perderla, nonostante lei gli avesse più volte tributato il suo amore. Ah, queste piccole oscure follie!
Il Bolz cominciava a stancarsi.. Disabituato com’era dalla vita sedentaria in ufficio, cominciava a sentire un forte dolore alla gamba. Intanto continuava a chiacchierare con Henri, cercando di dissimulare la sua scarsa preparazione fisica. Era assurdo, proprio lui che da giovane era stato un velocista! Con il suo fisico snello e scattante aveva ottenuto diversi premi al liceo, ma adesso erano acqua passata.. E così dissimulava.
“Henri, ho saputo che frequenti Guillemette! Mi fa piacere, è tanto una cara ragazza!”
“La conosci?” (Henri cominciò letteralmente a sbiancare. Delle volte lo spaventava l’idea che la sua ragazza avesse avuto un vissuto prima di lui)
“Certo, ci siamo frequentati per un po’ due anni fa! Lavora ancora nella pubblicità?”
“No, no, adesso fa la promotrice culturale, organizza mostre e affini..”
Henri cominciò a chiedersi che tipo di rapporto c’era stato fra loro due, due anni prima. Guillemette e Jehan! L’idea lo faceva solo stare male. Insopportabilmente male, quasi una fitta allo stomaco.
Maledetta gelosia! Ma niente da fare, non riusciva più a vedere l’amico come prima, ora era solo un rivale. Continuarono a parlare per un’oretta buona del più e del meno quando Jean Marc annunciò che era ora di fare uno spuntino e di fermarsi un attimo a riposare. Il cielo era limpido, l’aria fresca e non mancava moltissimo a raggiungere la casa di Philippe. Il fuoristrada di JM l’avevano lasciato a valle, cosa meglio di due passi per contemplare il meraviglioso paesaggio delle Alpi italiane?
Jean Marc era un cantante metal, o meglio ci provava.. Ancora ai tempi del liceo, con il Bolz, Henri e Davìd aveva creato una band, unico vanto di tutta la sua vita. Non era molto portato per la musica, ma segretamente accusava ancora il Bolz di aver gettato la spugna e di aver lasciato la band. Dopo di lui l’avevano seguito a ruota gli altri due, musicisti per caso non per passione. Ecco la causa del suo insuccesso musicale, la band l’aveva abbandonato! Aveva riprovato a formarne una, ma senza troppa convinzione.. Ora lavorava come barista, guardando con desiderio le nascenti star del metal che si esibivano in quel locale. Ah, quante delusioni gli aveva riservato la vita!
Piccolo e tarchiato non era certo affascinante e non avere una ragazza spesso lo portava a provarci con tutte, purtroppo senza alcun esito. Se fosse stato un vero cantante metal, sarebbe stato tutto diverso! Maledetto Bolz, era lui la causa di tutto!
“Ehi JM, qual è l’ultimo gruppo metallaro in voga fra i ragazzini? Temo di essere un po’ fuori dal giro..” chiedeva sorridendo Jehan.
“I Today you die, avranno sì e no sedici anni ma sono bravi. Come noi ai vecchi tempi!”
“Ahah, noi? Ma se era una grazia che sapessi tenere in mano una chitarra! E non ti ricordi quanto stonato eri? Dai, è stato meglio che il gruppo si sia sciolto, ci siamo risparmiati tante, tante figuracce!”
JM non disse più niente, Henri pure. Entrambi erano assorti nei loro pensieri.
Intanto il Bolz cominciava ad avvertire dolori sempre più forti alla gamba.
Ormai si notava che cominciava a zoppicare un pochino, incespicava su ogni ciottolo del sentiero.
“Ragazzi, mi duole chiedervelo ma possiamo fermarci? Non sono più abituato e ho un dolore terribile a una gamba..”
Henri e JM andarono avanti, sordi ad ogni richiesta di fermarsi.
Jehan chiedeva e richiedeva ma senza alcuna risposta. Era scioccato, loro, i suoi migliori amici!
Intanto era caduto e faticava ad alzarsi. Gli altri erano sempre più lontani, ormai a loro non giungeva che un lontano eco della voce del Bolz.
Due ore dopo scendeva la sera, il buio ricopriva ogni cosa rendendola sinistra e tenebrosa.
Henri e JM bussarono alla porta della casa di Davìd:
“Salve ragazzi, che piacere vedervi! E Jehan dov’è?”
Rispose JM: “Mi dispiace, ma non è potuto venire per impegni di lavoro.”
Henri abbassò gli occhi a terra, timoroso che Philippe vi potesse leggere il misfatto.
“Che peccato! Beh, dai ragazzi entrate che di notte si gela qui fuori!”

Il Bolz era esterrefatto, loro, i suoi più cari amici di infanzia! Cosa poteva aver mai fatto per meritarsi un trattamento del genere? Un comportamento simile era del tutto imprevisto, ammettiamolo pure. All’inizio Jehan pensò a uno scherzo, forse sarebbero tornati presto.
Intanto la lancetta dell’orologio scorreva e la temperatura si abbassava. Era il tramonto, il Bolz zoppicava vistosamente ma provò ad andare avanti, piano pianino. Il crampo gli attanagliava il muscolo, gli mordeva nella carne ma se voleva sopravvivere alla notte avrebbe dovuto trovare un rifugio da qualche parte. Una luce, là! Il Bolz saltellava sulla gamba buona, forse era salvo!
Vide parcheggiata nei dintorni una Range Rover con targa francese. Magari aveva avuto la fortuna di trovare proprio la casa di Philippe! Certo che gli altri due gliel’avrebbero pagata, e cara.
Il Bolz si avvicinò con circospezione, voleva appurare chi fossero gli abitanti della casa.
Meglio andarci cauti, che non fosse coinvolto anche Philippe in questa assurda congiura per eliminarlo.
La finestra era socchiusa nonostante il freddo, Philippe aveva bruciato la cena.
Jean Marc sedeva imbronciato sul divano, con la fame che aveva era già tanto se era riuscito a trattenersi fino a quel punto. Si alzò bestemmiando e si prese una birra dal frigorifero.
Henri sospirava al solo vederlo: quanta rozzezza in una sola persona! Lui aveva occhiali e libro in mano, e di tanto in tanto si annotava qualche impressione. Certo era che quella sera non riusciva a concentrarsi, si sentiva terribilmente in colpa.
Doveva parlarne a Jean Marc, non capiva cosa gli fosse preso. Non era un traditore lui, anzi aveva sempre adorato i suoi amici.
“Ehi Philippe, devo confessarti una cosa …!”
Philippe dall’altro lato della cucina rispose con un mugugno.
Jean Marc sembrava invece il ritratto dell’indifferenza. Per lui era tutto lo stesso, che il Bolz esistesse o meno. Henri invece stava sempre peggio, cominciava a sudargli la fronte.
Guardò l’orologio, erano passate tre ore dall’abbandono fatale.
“Oh mio Dio, cosa ho fatto per gelosia!”
E si alzò di scatto, come se si fosse improvvisamente reso conto dell’imprevisto lampo di follia che gli aveva attraversato la mente.
“Cosa ho fatto! Presto Philippe, prendi una moto, un elicottero, tutto quello che hai, ho abbandonato un amico!”
In quel preciso momento la porta si aprì di colpo, era il Bolz. Aveva in mano un’accetta per tagliare la legna, aveva lo sguardo stralunato.
“Viscidi infami traditori, volevate farmi fuori? Provateci adesso!”
Philippe non capiva più niente, che stava succedendo ai suoi amici? Che si fossero fatti durante il viaggio? Provò a cercare di riportare l’ordine:
“Jehan, metti giù quella scure che ci si può far male. Raccontami la storia fin dall’inizio, che non ne so niente. Prima Henri blatera di aver abbandonato un amico, poi entri tu con la scure. Ma che minchia di problemi ci sono fra voi due? Cerchiamo di risolverli senza violenza, grazie!”
Il Bolz appoggiò a terra l’arma, con fare diffidente. Jean Marc era seduto placido, come se nulla fosse. Fu lui a prendere la parola:
“Caro Philippe, mi rincresce rovinare il bel quadretto che ti sei creato di noi, ma io effettivamente odio il presente Jehan. Mi ha infranto i sogni di gloria. Volevo da tempo fargliela pagare, e il coglione qui presente (indicando Henri) sembrava che avesse il mio stesso fine. Jehan è stato un ex della sua ragazza, geloso com’è, figurati! Stava male e l’abbiamo abbandonato, così senza pensarci. Straordinario vero? Come in quel momento ci siamo trovati incredibilmente d’accordo, io ed Henri!”
“Io non avevo nessuna voglia di aiutarlo, speravo sempre che ti girassi tu, quando chiamava. E invece vedendo che non lo facevi ho continuato ad andare avanti!”
Ed Henri scoppiò in lacrime. Non era cattivo dopotutto, solo geloso. Uno stupido geloso.
Il Bolz non sapeva che dire, aveva solo voglia di piangere.
Philippe era deluso.
“Ragazzi, mi rincresce, ma domani mattina ritornerete alle vostre case. Non tollero certi comportamenti, ed ora mi fate schifo, non riuscirei nemmeno a guardarvi! Jehan, tu resta quanto vuoi, hai bisogno di cure mediche?”
Jean Marc intervenne con un sorrisetto beffardo: “Dai, Philippe, sei sempre il solito testa d’aria, non vedi che si è trattato di un piccolo imprevisto, presto risolto? Jehan è ancora vivo, non mi sembra che abbia sofferto particolarmente di questa nostra piccola defaillance! Continuiamo la vacanza come se niente fosse!”
Henri aveva le guance rigate di lacrime, si sentiva una persona orribile! Guardò comunque con speranza al volto di Philippe, col desiderio che con una parola cancellasse tutto l’avvenuto.
Philippe scosse la testa, passò una mano sulla spalla di Jehan e lo aiutò a distendersi sul divano.
Non lo sentirono parlare più, nemmeno quando l’indomani se ne tornarono da dove erano venuti. Niente, nemmeno un cenno di saluto.
Era la fine di un’amicizia.


Epilogo

“Signore, accogli fra le Tue braccia il tuo servo devoto, Philippe Davìd!”
E la bara venne sospinta nel loculo, una lapide posta a ultimo ricordo di quella fragile esistenza terrena. “Padre devoto, marito meraviglioso, amico leale …” il prete continuava nel suo discorso d’elogio al defunto “visse ottant’anni senza mai una macchia, persona stimata da tutti …”
Jehan sentiva il peso di una vita crollargli addosso. Il suo ultimo vero amico l’aveva lasciato.
Girò lo sguardo verso la moglie di Philippe, una donna molto semplice e buona, così com’era lui in vita. Era il turno delle condoglianze, l’abbracciò con trasporto e non disse nulla.
In un angolo stava un signore dagli occhiali e dall’impermeabile scuro. Chiese di poter prendere la parola:
“Voi non mi conoscete ma io sono una persona orribile, ho tradito la fiducia dei miei migliori amici. Philippe era uno di questi e cinquantacinque anni dopo il misfatto sono ancora qui che gli chiedo perdono. Anche a te Jehan!”
A Jehan avvamparono le guance, quell’uomo era forse Henri? Non si erano più rivisti da quel giorno. Si girò e uscì dal cimitero, sordo alle richieste dell’amico che lo chiamava, pregando per avere il suo perdono.
Ebbe come un deja-vù, la situazione si era invertita? Ora era lui che stava deliberatamente abbandonando un amico che aveva invocato il suo aiuto?
“Henri, tu sai dirmi che fine ha fatto Jean Marc?”
“Jean Marc è morto d’overdose due mesi dopo quel fatidico giorno. Era quello l’imprevisto, siamo stati talmente ciechi da non capire quanto male stava. Si faceva di eroina.”
“Già, gli amici sono imprevedibili, ma non puoi farne a meno. Aver capito tutto in tempo sarebbe stato oro! Mannaggia a te Henri, mi sei mancato nonostante tutto!”
Henri percorse a larghe falcate il prato erboso e abbracciò il vecchio compagno di giochi e bevute:
“Mi hai cambiato la vita e mi hai reso una persona migliore. Grazie! Mi dispiace a me invece di aver rovinato la tua …”
“Non parliamo più di queste cose, lasciamo il passato al passato. Non abbiamo futuro ora che siamo vecchi, ma ci resta sempre il presente!”
E si avviarono a braccetto lungo i boulevards, in cerca di un café dove raccontarsi i cinquantacinque anni perduti.

Qualche anno dopo i presenti tornarono sulla scena del cimitero:


Henri Berger (1930- 2011)
giornalista,
marito adorato e vero amico




Stilo
 

Brethil

Owl Member
Sopraesistito: Carino, mi è piaciuta la situazione tesa che va costruendosi e culmina nell’abbandono dell’amico, tuttavia è scritto in modo tecnicamente mancante, con tempi verbali un po’ confusi e scelte di parole che non ho apprezzato molto. L’imprevisto indubbiamente c’è, ma è un po’ forzato nel momento in cui si cerca di inserirne multipli, l’abbandono, l’entrata dell’amico armato, l’incontro al cimitero, la tossicodipendenza di uno degli amici … Tutto un po’ troppo “in faccia” al lettore. Il racconto avrebbe beneficiato di maggiore sottigliezza, ma l’idea di fondo è apprezzabilissima.

Nerst: la storia mi ha lasciata pensierosa sull’ epilogo che ho trovato molto triste.

Luisa: La lettura non è molto scorrevole, anche se gode di una scrittura semplice. C’è la struttura del racconto. L’imprevisto sembra un’esagerazione nella storia. Accade tutto e niente ed in modo confuso spero ci sarà modo di discuterne con l’autore. Non mi è piaciuto molto.

El_Tipo: non ho apprezzato la sintassi, meccanica e didascalica. La storia è confusa e noiosa. La conclusione non è desumibile dal racconto, sembra buttata lì tanto per stupire.

Skitty: il racconto è originale ed in linea con il tema del concorso. L’argomento amicizia mi è piaciuto molto,come le riflessioni sulle emozioni dei ragazzi. Linguaggio, grammatica e punteggiatura ineccepibili.Il passaggio dell’abbandono, risulta a mio parere un pochino brusco e inaspettato (forse sarebbe stato più adatto ad un racconto più lungo, con maggiori spiegazioni). La riappacificazione alla fine mostra che non è mai tardi per chiedere perdono e ricominciare.

Bianca: un racconto a tratti triste e commovente.

Darida: Il racconto è ben sviluppato, la storia è piena di buone intenzioni, forse troppo presto percepibili.

Irene: I personaggi non hanno consistenza, così come la trama, sembra tutto "gonfiato". Non c'è una vera logica. Ad esempio, una persona tanto infuriata da prendere un'ascia per uccidere gli amici forse riesce a calmarsi in un nanosecondo? E l'epilogo non può occupare lo stesso spazio dello svolgimento. Si può migliorare, e tanto.
 

Brethil

Owl Member
SOLI


Icaro guardava fuori dall’oblò a bocca aperta. Era il suo primo viaggio in nave, e tutto ciò che vedeva intorno a sé era così straordinario da sembrargli irreale. Eppure, quella distesa scura, nerissima, puntellata di tante lucine colorate, che all’improvviso diventavano enormi e allungavano verso la nave le loro lingue di fiamma, era lì, davanti ai suoi occhi: non un’immagine evanescente, la realtà. Avrebbe voluto avere anche lui la sua tuta, di platino splendente, e poter lasciarsi andare in quel vuoto, libero, ma non gli era consentito; avrebbe dovuto aspettare ancora anni luce per diventare, a tutti gli effetti, un nuuktak (nota1).
D’improvviso ci fu uno scossone. La nave vibrò pericolosamente e Icaro fu sbalzato dall’altro lato contro la paratia. Il Capitano Vega girò il timone con forza. Poi tutto tornò calmo.
“Guarda”, disse il Capitano indicando l’oblò. Icaro si tirò su e guardò fuori, un grosso meteoroide si dirigeva dritto contro un enorme oggetto di un bianco sporco, vagamente violaceo.
“Ma è la Terra!” disse Icaro allarmato. “Capitano, dobbiamo fare qualcosa.”
“Stai tranquillo, non ce n’è bisogno. Sta a guardare. Mettiti questo”. Il Capitano gli tese un bioculare spettroscopico, che Icaro indossò, tornando a guardar fuori, in ansia.
Il meteoroide si avvicinava a velocità impressionante, in un attimo ci sarebbe stato l’impatto e l’esplosione. Invece si verificò un fatto impressionante: non appena il meteoroide penetrò nell’atmosfera terrestre, cominciò pian piano a sgretolarsi fino a ridursi in minuti frammenti che producevano lunghe scie luminose. Icaro si voltò verso il Capitano incredulo, ed apprese come quello strano fenomeno fosse dovuto alla presenza dell’atmosfera. Il Capitano gli spiegò che, molti anni luce prima, c’erano atmosfere anche nei pianeti del Cuxan, ma poi erano state aspirate e sostituite dagli scudi molli chemiotermoregolatori che, oltre a respingere corpi celesti di qualsiasi dimensione e velocità, avevano reso il clima stabile, perennemente alla stessa temperatura in tutte le zone del pianeta.
Icaro annuì contento. Aveva aggiunto un altro tassello alla sua conoscenza, ancora assai scarsa in verità, su quel pianeta che tanto lo affascinava: la Terra.
Tutti gli Huun (nota2) che parlavano di questo pianeta, erano misteriosamente spariti sull’intero Paal Caba da molti anni luce, e nessuno sembrava conoscerlo. Tutti si comportavano come se non esistesse: non era neppure segnato sulle mappe cosmologiche come un pianeta, al suo posto c’era un segnale di buio, che voleva dire semplicemente che quell’angolo di Universo era privo di interesse e di rotte utili alla navigazione.
Icaro non aveva mai capito perché nessuno si fosse mai fatto domande sul perché di tutto ciò.
A parte il Capitano Vega. Era stato un Ah Kaansah (nota3), ma, in seguito a delle discussioni con il Mool Popol (nota4) , aveva deciso di abbandonare la professione per dedicarsi alla navigazione. Con la sua nave offriva servizi di trasporto merci fra i vari pianeti del Cuxan (nota5), il sistema intergalattico dei pianeti abitati, da cui la Terra era naturalmente esclusa, e qualche volta dava passaggi agli amici. Icaro era
stato suo allievo per poco tempo, prima che se ne andasse, ma era rimasto affascinato da questa figura così solida, dalla forte personalità e dall’immensa cultura, che metteva così tanta passione in ciò che faceva, da conquistare anche i suoi compagni più svogliati e distratti.
Un paio di anni luce dopo il suo abbandono dell’insegnamento, Icaro lo aveva rivisto al porto di lancio che armeggiava vicino alla sua nave. Si era avvicinato per salutarlo e lui lo aveva invitato a salire a bordo per visitarla. La nave gli piacque immensamente e cominciò ad andare sempre più spesso al porto di lancio per aiutarlo nei lavori di bordo. La loro amicizia crebbe sempre di più, il Capitano gli raccontava dei suoi giri per i vari Universi, dei buchi neri, delle stelle doppie, delle pieghe temporali, e gli lasciava leggere tutti gli Huun che voleva dalla sua nutritissima libreria di bordo. Finché un giorno, per errore, Icaro non fece cadere una piccola cornice con una strana stella a molte punte sospesa nel centro. Nel raccoglierla non poté fare a meno di toccarla. Seguì le varie punte con il dito: alle estremità c’erano dei segni che non aveva mai visto, N in alto, S in basso, E a destra, W a sinistra, e in diagonale varie combinazioni di questi e altri segni, e strani simboli con un cerchietto in alto. Un impulso lo spinse a ruotare la stella, e all’improvviso udì un tonfo che lo fece voltare. In basso, dalla paratia di fronte, si era aperto un piccolo varco. Icaro ci infilò la mano dentro e scoprì che c’era uno strano libro, che tirò fuori non riuscendo a resistere alla curiosità: parlava della Terra. Al suo ritorno il Capitano lo trovò completamente immerso nella lettura, tanto che neppure si accorse della sua presenza. Gli strappò il libro di mano e, senza dire una parola, lo guardò con occhi così pieni di collera che Icaro se ne sentì incenerito. Poi il Capitano si lasciò cadere stancamente, sospirando, su una panca. Icaro lo guardava ammutolito, avrebbe voluto dire che non l’aveva fatto apposta, che era successo per caso, che non voleva, ma qualsiasi spiegazione gli sembrava inutile.
“Siediti”, gli disse infine il Capitano. Fu così che Icaro venne a conoscenza dell’esistenza del pianeta chiamato Terra. Era sera quando il Capitano finì di raccontare della sparizione dei libri, della cancellazione del pianeta dalle mappe, dei suoi tentativi di saperne di più, dell’assoluta fermezza con cui il Mool Popol ne negava l’esistenza e degli studi che aveva compiuto durante i suoi viaggi. La sua attività, infatti, non era altro che una copertura per compiere analisi sul pianeta con degli strumenti da lui appositamente progettati. Anche se non esistevano leggi che lo vietassero, aveva ritenuto opportuno procurarsi un motivo valido per i suoi frequenti andirivieni. Qualcosa gli diceva che sarebbe stato meglio non dare nell’occhio, almeno fino a che non ne avesse saputo di più. Poco tempo dopo questo episodio, Icaro poté finalmente intraprendere il suo primo viaggio interstellare.
Ripensava spesso al giorno in cui aveva trovato quella strana stella, e, ogni volta, aveva la sensazione di non essere più lo stesso da allora, come se quella scoperta, quel ritrovamento, avessero cambiato qualcosa in lui per sempre. Dopo quel primo viaggio, l’immagine della Terra non lo abbandonava mai. Voleva andarci, voleva vedere com’erano questi esseri umani, come vivevano, e scoprire perché erano stati cancellati. Ne parlava spesso con Il Capitano Vega, ma lui scuoteva la testa, dicendogli che era tutto inutile, che tutti i suoi tentativi, fino ad allora, erano stati vani. Poi gli passava un lampo negli occhi, come se avesse avuto un’idea brillante all’improvviso, ma subito svaniva, e lui ridiventava cupo.
Era una bella mattina. La stella chiamata Sole, filtrava da ampi riquadri trasparenti illuminando delle grandi immagini sulla parete sinistra di una stanza stretta e lunga. Arianna lo scorse da lontano e si mise ad osservarlo da dietro una colonna per non farsi vedere. Ogni giorno, alla stessa ora, un uomo se ne stava a contemplare il suo dipinto intitolato “Soli” per una mezz’ora e poi andava via. Il dipinto era un groviglio di macchie e striature, forme sinuose e colori che si compenetravano trasformandosi gradatamente gli uni negli altri. Nel dipingerlo aveva immaginato la Terra alla sua nascita, quando i raggi solari, come un vento, avevano accarezzato le onde dell’oceano, permettendo a minuscole particelle di formarsi, unirsi e trasformarsi, moltiplicarsi e diversificarsi, in una miriade incalcolabile di specie viventi. Così sfaccettata e bella, e così sola la vita, di fronte all’infinito Universo, si chiedeva Arianna, ricordando il misto di gioia e malinconia che quel quadro suscitava sempre in lei, anche a distanza di molto tempo da quando l’aveva dipinto.
Un viaggio senza ritorno, la Terra. Chi aveva tentato in passato, non era mai più tornato per raccontarlo.

Melchiorre

1. Nome Cuxaniano con cui gli abitanti del pianeta Paal Caba indicano gli
esseri maschili che hanno raggiunto la maturità.
2. Libri
3. Insegnante
4. Consiglio degli anziani
5. In lingua Cuxaniana vuol dire vita
 

Brethil

Owl Member
Sopraesistito: un’idea carina quella di un racconto di fantascienza, ma eseguita non proprio brillantemente. Ci sono alcune imprecisioni, come usare gli anni luce per misurare il tempo anziché la distanza e devo ammettere di non aver ben capito il punto del racconto.

Nerst: la lettura di questo racconto mi ha ricordato quanto sia meraviglioso il nostro pianeta e mi sono sentita come il protagonista della storia all’ idea di perdere tale meraviglia.

Luisa: L’idea era molto carina, ma non leggo imprevisti in questo racconto. Si sta chiaramente rendendo omaggio ad un genere che appassiona anche me, come la fantascienza, e lo premio per aver provato ad introdurre il genere in questo concorso, ma non mi ha colpito molto. Sembra incompleto.

El_Tipo: più che un racconto sembra l'introduzione di un racconto. Poche idee buttate lì, la situazione è statica e di fatto non succede niente. Simpatica l'idea delle note a piè pagina che poteva però essere sfruttata meglio.

Skitty: Un racconto di fantascienza molto semplice e delicato, che lascia spazio tra poche semplici frasi, a riflessioni più ampie, sulla fine del pianeta Terra, ma anche sul suo inizio e sulla bellezza sensazionale e misteriosa della vita. Suppongo che anche i nomi dei personaggi siano stati in qualche modo studiati per trasmettere qualcosa. La scrittura del racconto è molto scorrevole, con impiego di un linguaggio immediato, ma sempre corretto e preciso.

Bianca: un racconto interessante e affascinante.

Darida: Il racconto segue una traccia collaudata, forse, visto il genere scelto poteva...spaziare un po di più.

Irene: Affascinante, pulito, coerente.
 

Brethil

Owl Member
La Casa ha deciso.


“Dobbiamo intervenire noi.”
“Sì, sono d’accordo, ma che cosa potremmo fare?”
Pennarello fece un giretto su se stesso e tracciò un piccolo punto interrogativo tra gli scarabocchi che Linda seminava sulle cartacce di appunti accanto al Telefono.
Matita lo guardò sconsolata. “Proviamo a lasciarle un messaggio”.
“Sì, poi magari le viene il sospetto che ha in Casa qualche fantasma e scappa via lasciandoci tutti qui. Sai che voglio bene a Linda e non farei mai nulla che possa spaventarla. E poi nelle condizioni in cui si trova...”
Matita agitò pian piano la punta in direzione della donna che stava entrando nella stanza. I due oggetti rimasero immobili sul Tavolo osservando zitti zitti i movimenti veloci delle grandi mani di Linda sulla Scrivania. Ad un certo punto Pennarello si sentì afferrare. Trattenne il fiato e chiuse gli occhi. Era stato sollevato in alto, pronto per essere scaraventato lontano.
Linda non si era mai comportata in modo violento. Fino a quel momento. Pennarello fu lanciato contro Matrioska che colta di sorpresa cadde dalla Mensola, si aprì e gettò fuori un paio delle sue figliole che stavano riposando.
“Chisda mati!” Matrioska, furente, cercò di rotolare verso le sue bambine per tranquillizzarle: una di loro aveva perso una crosticina di colore sulla fronte e stava per iniziare a piangere. Fortunatamente riuscì a rimanere in silenzio mentre la metà superiore di sua madre la sfiorava amorevolmente con piccole oscillazioni appena percettibili.
Pennarello era finito sotto il Letto e non fu raccolto. Linda nel frattempo uscì di Casa sbattendo la Porta.
Sulla Stanza scese un silenzio sbigottito e inconsueto.

***


Era passato un mese da quell’esordio e il carattere di Linda era andato peggiorando in maniera davvero allarmante.
Matita era stata presa a morsi e gettata nella spazzatura: si era salvata solo grazie all’aiuto dei suoi amici di Scrivania che, tutti insieme, avevano rovesciato il Cestino, tirandola fuori e nascondendola dietro l’Armadio.
Ma la sorte più triste toccò a Tazza a Pois e Piatto Blu che furono frantumati l’una contro l’altro, mentre Cornice d’Ottone fu addirittura calpestata sotto i piedi e la Foto di Mario (il marito che Linda aveva lasciato da sei mesi) strappata via e fatta in mille pezzettini.
Gli altri oggetti avevano iniziato a subire a turno vessazioni di ogni tipo: Scendiletto veniva calciato nervosamente ogni mattina, una Giacca di Mario rimasta nell’Armadio fu ridotta a brandelli col Trinciapollo, Block Notes torturato sistematicamente con profonde e dolorose incisioni fatte abusando crudelmente di Penna Biro, per non parlare dell’Orsetto Toby che dopo essere stato ripetutamente lanciato contro le pareti si scucì e cominciò a perdere imbottitura da una spalla e dal popò.
La pazienza della Casa perdurò ancora per due mesi finché, dopo l’ennesimo efferato assassinio – al Puntaspilli Torquato era stata strappata la testa a unghiate – tutti decisero che era arrivato il momento di risolvere la questione, una volta per tutte.
La data dell’assemblea fu fissata a martedì 25 febbraio, ore 3.30 in punto, nello Studio.
Dal Bagno sarebbero arrivati la signorina Spazzolino col suo Dentifricio di turno, la Cucina avrebbe mandato Tovagliolo e Forchetta, mentre Sveglia e Cuscino impossibilitati ad intervenire - per ovvi motivi - avevano incaricato una delegazione composta dai gemelli Lacci di Scarponcino e Cellulare. Dal Terrazzo erano stati convocati Molletta da Bucato e il cugino Mocio.


***

“Forza gente, andiamo....sssssttt..... fate piano... fate piano, non vorrete mica svegliarla?!” I due Lacci serpeggiavano nel buio dei corridoi chiamando a raccolta i compagni.
Gli oggetti convocati cominciarono a dirigersi verso lo studio, ordinatamente suddivisi in scaglioni che procedevano stando ben attenti a passare sui Tappeti per attutire ogni fruscìo prodotto dal movimento.
Il piccolo drappello si arrestò davanti alla Porta chiusa dello Studio.
“Ossignùr! È chiusa a Chiave! Quella stupida s’è dimenticata della riunione e sta ancora dormendo.” Cellulare si voltò verso i compagni preoccupato. “Bisogna salire a svegliarla”.
“Ci pensiamo noi!” I gemelli si sollevarono all’unisono e con una serie di girali sinuosi si mossero verso la Porta e iniziarono a scalarne la parete fino alla Chiave.
“Sveglia Chiave! Su.... sveglia dormigliona! Scattare... scattare!” Le sussurrarono all’orecchio. Avevano il fiatone per l’arrampicata.
“Che c’è? Ma vi pare l’ora questa di venire a rompere...... Oh passepartout!! Scusate...”
Clackt.
“Ffffff...finalmente...” sussurò Porta aprendosi adagio.
Le delegazioni sfilarono in quasi totale silenzio fino ad arrivare ai piedi della Scrivania dove era già in attesa impaziente la rediviva e smangiucchiata Matita, insieme a Pennarello e Taglierino. Lampada da Lettura – che tutti chiamavano confidenzialmente Lucciola – si accese e indirizzò un raggio pallido e discreto sul gruppetto di colleghi.
“Grazie a tutti, amici. Questa riunione straordinaria è stata convocata per discutere un problema della massima importanza. Credo che voi tutti sappiate cosa intendo...” Matita si guardò in giro: tutti annuivano.
A quel punto Cellulare prese la parola per fare agli altri il punto della situazione.
“Ho ascoltato l’ultima conversazione fra Linda e il suo medico. Era molto preoccupato. Le sue reazioni violente sarebbero legate ad un sentimento di rabbia ancora molto potente nei confronti di Mario. E’ a lui che Linda sente di addebitare il fallimento del loro matrimonio e della sua carriera di disegnatrice. Quel dolore le ha fatto perdere il lavoro, gli affetti, tutto quanto... E’ sola ormai, a pezzi, e per rivalsa fa a pezzi quelli che le sono rimasti accanto. Noi.”
“Ammazziamola”. Tagliò corto – come era abituato a fare – Taglierino.
“Oh noo! Io e Matita vogliamo troppo bene a Linda. Noi l’abbiamo perdonata. E’ in una situazione tremenda, dobbiamo aiutarla invece!” Pennarello non riusciva a credere che fosse stata avanzata una simile proposta.
“Guavda come ha vidotto il mio Dentifvicio” rispose acidamente la Spazzolino. Il tubetto le stava a fianco, sorreggendosi sbilenco e tentando malamente di sorridere. Il suo corpo era segnato da impronte di denti e mostrava le ripetute torsioni subite che avevano provocato gravi ferite, suppuranti pasta azzurra al mentolo.
“Non si fevmevà, state tvanquilli! Io sono d’accovdo con Taglievino. Ammazziamola.” Spazzolino era al parossismo. Dentifricio guardò la sua amichetta con tristezza rassegnata ed annuì silenziosamente.
“Ma insomma, cara, non vogliamo darle un’ultima possibilità? In fondo la condizione di Linda è difficile... e... e... il suo comportamento non è deliberato. Ecco.” Pennarello cercava di avviare la conversazione su un fronte meno drastico.
“Ha ragione”, rispose Molletta, “dobbiamo cercare di aiutarla, dobbiamo: in fondo siamo gli unici amici che le sono rimasti dopo la sua totale chiusura al mondo. Io non capisco come possa essere accaduto, come possa.”
“Era una ragazza cofì dolce e affettuofa e bella e fimpatica” sospirò Mocio, arricciando le striscine lise.
“Basta, basta. Ammazziamola. Se non lo facciamo presto sarà lei ad ammazzare noi. Ci farà fuori uno dopo l’altro. Ve lo ricordate Puntaspilli? E Toby? Non riesce più neanche a trascinarsi sulle zampe per quanta imbottitura ha perso. Il suo Toby! Erano inseparabili. L’Orsacchiotto di quando era bambina. E adesso? D’oh! Ma avete visto come lo riempie di botte? Oggi pomeriggio gli ha fatto persino saltare un occhio. Eccolo qui! Guardate...”
Uno dei due Lacci, che aveva appena parlato, avvicinò con un colpetto di coda un bottoncino nero e lucido, portandolo all’attenzione dei convenuti.
Tutti si ritrassero orripilati.
“Lo abbiamo pescato sotto Tappetino. Così non può funzionare.”
“Io sono d’accovdo con i Lacci e con Taglievino, ecco!” ribadì Spazzolino seguita dal suo muto compagno.
Tovagliolo e Forchetta nicchiavano. Il dibattito era ben lungi da una qualsiasi decisione.
All’improvviso la Porta si spalancò. Lampadario fu acceso violentemente e proiettò tutta la sua luce spaventata sul gruppetto di oggetti riuniti alla base della Scrivania e impietritisi all’istante. Lucciola fu presa da un inarrestabile tremolio.
Linda era lì a sovrastarli, incredula e sempre più arrabbiata.
“Maledetti!” gridò prendendo a calci quelli che le si trovarono più a tiro.
Mocio e Forchetta volarono in aria. Poi Linda afferrò Forchetta: “Come diavolo sei finita qui? E questi?”
Altro calcione sferrato a Dentifricio poi, impugnando Taglierino, si mise a stracciare Tovagliolo con veemenza inaudita.
Il tubetto le era ricaduto accanto alla Pantofola. Linda ci mise meno di un secondo a schiacciarlo con tutta la forza che aveva, sotto i piedi, saltando e saltando. Dentifricio scoppiò miseramente, schizzando il suo contenuto sul Tappeto.
Dopo quell’esplosione di violenza, durata pochi minuti, la donna si fermò, trafelata e sorrise. Aveva scaricato tutta la rabbia montatale alla vista di quelle cose che aveva trovato inaspettatamente raccolte nel suo Studio.
“Sto impazzendo” si disse sghignazzando “Oppure è ora che cominci a tenere questo porcile di casa un poco più in ordine”.
Con uno sbadiglio sgarbato uscì dalla stanza, spegnendo l’Interruttore con una manata.
Gli oggetti giacevano sparpagliati, qualcuno era atterrato sul Pavimento, qualcun altro sul Tavolo. Dentifricio, ormai morto, era steso in mezzo alle sue stesse viscere azzurrine, sotto gli occhi disperati della povera Spazzolino, mentre i pezzi di Tovagliolo erano finiti ovunque, persino sui ripiani più alti della Libreria.
“Facciamola fuori.” Ringhiò Taglierino, rizzandosi di scatto e battendo con la lama un colpo a terra.
“Sì. Dicci cosa dobbiamo fare.” Risposero gli altri rivoltosi all’unisono. Matita e Pennarello si unirono a malincuore, sperando ancora di poter evitare la tragedia.


***

“Hai sentito?? La uccideranno stasera!” Matita si muoveva intorno, rotolando nervosamente sulla scrivania, ora da un lato ora dall’altro.
“La Casa ha deciso.” Rispose con un sospiro mesto Pennarello.
“Ma come la Casa ha deciso? Deciso cosa? Questa non è la soluzione! Non abbiamo voluto trovarla una soluzione! Queste sono le soluzioni degli umani non le nostre! Ci stiamo comportando come loro. Invece di aiutarla abbiamo deciso di eliminarla, ti rendi conto? Non è la nostra natura! La nostra natura è quella di aiutare. Siamo stati creati per questo. Aiutare! Io non ci sto!”
“La Casa ha deciso, mia cara Matita. Ha deciso.”
Pennarello le si avvicinò piano piano e la toccò per calmarla. “Chissà, forse all’ultimo momento qualcuno dei più agguerriti si tirerà indietro e non se ne farà nulla. Ma io obbedisco alle decisioni comuni. Che altro possiamo fare?”
“Già. Che altro possiamo fare?”

Il piano era stato architettato nei minimi particolari. Sarebbe sembrato un suicidio. Lacci, Forchetta e Taglierino furono nominati come esecutori materiali.
Ad un segnale convenuto i Lacci si sarebbero annodati per far cadere Linda a terra: Forchetta le sarebbe saltata in faccia penetrandole in un occhio poi Taglierino l’avrebbe finita, tagliandole la gola di netto.
Matita scarabocchiò nervosamente per tutto il pomeriggio, pensando e ripensando ad un colpo di mano, ad una possibile alternativa. Le venne in mente persino di scrivere tutto su un foglio perché Linda poi lo leggesse. Ma Linda era ormai talmente “oltre” da non riuscire a capire nemmeno di esser viva, figuriamoci leggere un messaggio simile e ricordarselo.
Nelle ultime settimane viveva in completo abbandono e fingeva di non essere in casa per non rispondere al telefono e per non ricevere visite da amici e parenti. Molti di loro avevano ormai rinunciato ad andare a trovarla: ogni volta era la stessa storia, pianti, urla, discorsi insensati e crudeli, un’infuriata disperazione che rendeva vano ogni sforzo di riconquistarne almeno un sorriso.
Diego, il suo ex, ci provò una volta sola portando con se un’agendina nera e sottile.
“Guarda Linda!” Le aveva detto con la sua solita aria svagata e giocherellona.
“L’ho trovata pochi giorni fa dentro una cabina telefonica, ci sono tutti numeri di sacerdoti ed esorcisti, c’è pure quello di Padre Amorth, che dici te lo chiamo?”.
Per tutta risposta Linda lo aveva buttato fuori di casa, spintonandolo in modo assai poco aggraziato.
“Le stiamo facendo un favore” mormorarono i Lacci mentre si disponevano all’attacco. Taglierino e Forchetta erano arrivati da un pezzo e mantenevano guardinghi la posizione sopra il Tavolo.
Linda diede un’occhiata all’Orologio e si alzò ciondolando per andare ad accendersi l’ennesima Sigaretta.
I Lacci dei suoi Scarponcini cominciarono ad annodarsi tra loro e – come previsto – la donna rovinò a terra. Forchetta si gettò dal Tavolo ma invece di colpirla si conficcò sul Tappeto e rimase in piedi vibrando.
Nel tentativo di aggrapparsi a qualcosa Linda aveva afferrato la Fodera del Divano e l’Orsetto Toby che si trovava lì sopra le cadde addosso, fermandosi sulla sua faccia.
Fu allora che qualcosa in lei saltò via. Come un ingorgo improvvisamente rimosso.
Iniziò a piangere. Toby la fissava con l’unico occhietto rimasto e un malloppo di bambagia che usciva dallo strappo dell’altro.
“Perdonami Toby. Perdonatemi tutti. Aiutooooo.... vi prego aiutoooo”. Piangeva rimanendo immobile con l’orsetto in faccia, incapace di alzarsi.
“Sono stanca... stanca... stanca... aiutatemi, aiutatemi voi, tutti voi”.
Toby lentamente scivolò da un lato e le si appoggiò sulla spalla parandole la gola con il suo testone.
Dall’alto Taglierino, che era rimasto sul Tavolo a seguire la scena, si ritrasse e scomparve.
Cellulare compose il numero della mamma di Linda e tutti restarono in attesa, stringendosi in cerchio attorno a lei.

Elvio Bongorino
 

Brethil

Owl Member
Sopraesistito: bel racconto che unisce la fantasticheria infantile degli oggetti animati a tematiche serie e scene persino macabre, senza risultare sgradevole. Mi è piaciuto molto.

Nerst: mi ha toccata parecchio il rapporto di amicizia tra i piccoli protagonisti e l’ affetto di questi ultimi verso l’ amica, alla fine, ritrovata.

Luisa: molto originale e fantasioso. Ben scritto, semplice, ma apprezzabile per la capacità di saper animare gli oggetti nella mente di chi legge. Davvero grazioso, ben strutturato. La storia è completa. L’idea di usare degli oggetti di uso comune ed apparentemente innocui per raccontare una storia macabra mi è piaciuta molto.

El_Tipo: bello bello bello. questo racconto è geniale! Ha una dimensione cinica ma nello stesso sognante come un cartone animato. Mi ha divertito e commosso, io direi che è un degno candidato alla vittoria finale! Se proprio ci devo trovare un difetto, lo farei solo perchè è mio compito di critico criticante: forse ricorda un po’ Toy Story.

Skitty: molto originale questo racconto di fantasia, solletica il pensiero che tutte le cose intorno a noi, quando ci distraiamo o ci allontaniamo, parlano e si muovono. Ridendo, scherzando, e facendo parlare gli oggetti, si introduce e si sviluppa il tema delicato della solitudine. Scrittura scorrevole, grammatica e punteggiatura perfetti, lo stile semplice e immediato rende piacevole e veloce la lettura, con qualche punta di originalità qua e là (tipo la parolaccia in russo: forte!).

Bianca: un racconto molto fantasioso e in alcuni tratti simpatico.

Darida: Racconto indubbiamente simpatico, avvincente nella sua semplicità.

Irene: Originale, davvero carino.
 
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Brethil

Owl Member
Accade ogni giorno, forse.


………Qualche ora prima
Titititi……….titititi……………titititi

Odio il rumore elettronico della sveglia, ti entra nel cervello alle prime luci del giorno per colpa tua per giunta! Sentendo la sveglia ti rendi conto di quanto sei masochista, perché accetti di buon grado che quel rumore allucinante, ti dia una scossa per farti alzare ed iniziare la tua monotona giornata.
Un attimo, la sveglia continua a suonare, e mi ricordo cosa devo fare oggi. Svelto, mi dico! È il compleanno di Marcella, devo chiamarla, gli avrei detto che sarei stato il primo a chiamarla per fargli gli auguri! Salto giù dal letto, appena metto piede in terra, un dolore lancinante mi fa urlare come un’aquila nel cielo. Che cosa ho pestato?
Si può essere più scemi di cosi, impreco verso me stesso per quel lavoro che ho preferito fare ieri sera nel letto. Solo un cretino poteva mettere le puntine da disegno in terra dopo aver attaccato le tre tavole che dovevo presentare in ufficio. Devo essermi addormentato facendo cadere in terra la scatola con le puntine, che inevitabilmente si sono aperte. Che stupido che sono. Il piede mi fa male, bel modo di iniziare la giornata.
Tieni duro, è più importante Marcella, prendi il senza fili sul comodino, componi il numero e chiamala mi ripeto nella testa. Esatto. Se il cordless non fosse scarico di batteria. Odio questi aggeggi elettronici che si scaricano quando servono. D’altronde come dice mio padre, se ogni tanto non lo metto sulla base, è difficile che si ricarichi da solo!
Sono appena le 06.45 e odio già la giornata, mi rimetterei a dormire, magari facendo incazzare Marcella. Poverina già è molto che sta con un pazzo come me. Dai fai uno sforzo prendi il telefono fisso e chiamala, mi dico per darmi forza ed alzarmi.
Compongo il numero, ed al terzo tentativo la voce meccanica della signorina più odiosa al mondo; …….telecom italia l’utente potrebbe essere irraggiungibile oppure occupato……., vorrei conoscerla questa tizia odiosa. Già me la immagino, capelli rossi legati dietro la nuca, occhialini di plastica con le punte, apparecchio ai denti, un neo sul naso che più di un neo è un meteorite, e con la sua pennina rossa, quella classica delle maestrine saccenti, ti ripete quel messaggio odioso.
………Telecom Italia l’utente potr…….. al quinto tentativo attacco. Vado in bagno per iniziare il mio primo contatto con la giornata, visto che l’inizio non è stato felice, ho ancora il piede indolenzito dalla puntina. Come entro in bagno, mentre sono intento a far uscire i miei liquidi accumulati nella notte, squilla il telefono.
Non so se avete presente quel momento in bagno. E’ quasi una liberazione, un senso di appagamento pervade il corpo, come una sostanza stupefacente che penetra nelle vene, la stessa sensazione spinge lungo tutto il corpo, un senso di liberazione, arrivando fino al cervello quasi a farti dimenticare ogni problema. Ed è proprio in quel momento che la “cascata” non finisce. Anzi l’aprire questa chiusa biologica, lascia cadere in quel vuoto di ceramica tutto lo stress accumulato il giorno precedente. Non vorresti che nulla ti disturbasse. Ma ecco che inesorabilmente un altro rumore elettronico moderno ti assale. Ti opprime le viscere, perché il cervello vuole che tu vada a rispondere, magari è Marcella, ma il tuo corpo deve terminare la funzione. Non si può interrompere, non riesci, non è un tubo cui chiudi il rubinetto e via, è inarrestabile, ed allora cosa fai? Stringi? Alzi? Chiudi con la mano? Nulla di tutto questo è utile, anzi peggiori la situazione perché finisci spesso per bagnarti le mani o le mutande. Ed è proprio in quel momento che dici con enfasi. Ma vaffanculo……….indirizzato a tutto il mondo, a tutti quelli che si divertono a chiamare con il telefono alle sette del mattino, a chi magari il giorno prima hai sussurrato, Ti amo. Anche Marcella.
Terminata l’unica azione quotidiana che non si dovrebbe mai interrompere , vado al telefono guardo chi mi ha chiamato, grazie a quei moderni “servizi” che ti offrono ed è lì che ancora il tuo invito precedente si ripete. Quando al display del telefono leggi “chiamata privata”!
Chi sei, che alle sette del mattino che chiami nascondendoti? Sbatto il telefono e ritorno in bagno per lavarmi e radermi.
Gli uomini hanno la barba. Un problema ogni mattina, radersi. Chi non ha la barba non sa quanto sia faticoso spalmarsi la schiuma da barba per poi radersi. Si perde del tempo prezioso solo a insaponarsi il viso, almeno un quarto d’ora rubato al resto della giornata che si potrebbe impiegare meglio, soprattutto il mattino. Prendi il flacone, premi il pulsante magico ed ecco che il bianco candore della schiuma avvolge il tuo viso. Il sapore fresco della schiuma è come un leggero schiaffo che ti aiuta a svegliarti, il viso pieno di schiuma poi alcune volte ti fa tornare bambino. Giochi di fronte allo specchio facendo smorfie o dandoti un’aria in stile capitan Findus, magari chiami anche i marinai e mentre prendi il rasoio, ti senti come un pittore che dipinge un quadro. Delicatamente inizi a far scivolare la lama sulla pelle, fino a quando………non senti il telefono che squilla di nuovo!
Le imprecazioni raggiungono il più alto livello di ascolti, anche la vicina sembra ascoltare le tue cadute di stile, poiché ti conosce come il perfetto vicino che le apre sempre la porta dell’ascensore o lo aiuta a portare la spesa. In quell'istante però, diventi l’esatto opposto, quasi come il mister Hyde descritto da Stevenson. Esci dal bagno speri che sia “chiamata privata” ed allora rispondi con un tono degno di un buttafuori di New York alto due metri.
Prooonto!!!! Dove la lunga apertura della O fa intuire che hai rotto le scatole in uno dei momenti più delicati del mattino di un uomo.
“ecco, bravo, io ti chiamo per chiederti come stai e tu mi rispondi in questa maniera?” …..attimo di panico, la voce di Marcella è più tagliente di una lama di rasoio. Provo a difendermi, ma mi rendo conto che è impossibile. “tesoro, amore caro, ho provato a chiamarti ma era occupato”, la verità più logica è sempre la migliore penso dentro di me.
“per forza era occupato, mia madre mi stava facendo gli auguri, lo sai che lei non dorme di notte, quindi stavamo al telefono da qualche ora parlando del più e del meno, mentre tu dormivi sicuramente!” Ecco è a questo punto che gli uomini vorrebbero scappare su un'isola deserta, fuggire, andare lontano come faceva il capitano Kirk in Star Trek con il teletrasporto, ma inesorabilmente devono affrontare la realtà. La futura moglie, la fidanzata che non crederebbe mai alle puntine sotto un piede, al pisciarsi addosso per colpa di un “utente privato” o peggio alla schiuma da barba che è finita e dove tu per far raggiungere ogni angolo del volto hai iniziato a chiamarti capitan Findus di fronte ad uno specchio. Ed è qui che tu dichiari la verità breve senza fronzoli ma non sei creduto.

Perché non me ne vado in Groelandia? Oppure a Cuba a vendere caramelle vigorsol alle cubane? Perché?
“No tesoro non stavo dormendo, ma va bene lo stesso, sarebbe troppo lungo da spiegarti!”
Rispondere così ad una donna è un grave errore, perché la loro risposta suona più o meno così! “mi hai preso per una stupida?” A questo punto quasi tutti gli uomini al telefono, si mettono seduti, si appoggiano una mano in fronte, scuotono la testa e continuano a pensare alle caramelle vigorsol a Cuba.
Chiudiamo la telefonata e mi accingo a vestirmi per andare ala lavoro, la mia quotidianità inizia a prendere il sopravento.Prendo i vestiti sparsi per tutta casa indosso una camicia pulita, m’infilo le scarpe ed ecco che si rompe il laccio dell’unico paio di scarpe che ti piace. Per giunta quelle che ti ha regalato Marcella. Ma vaffa…….lo stile british di nuovo in soffitta, con la vicina sempre più disperata, vai nella scarpiera e prendi un altro paio di scarpe.
Le scarpiere non sono mai in casa, le pubblicità che fanno vedere le scarpiere tutte in ordine, pulite sono una delle tante frottole televisive. La scarpiera è rigorosamente sul balcone. Dove i miasmi e la puzza che ogni essere umano, donne comprese, produce con i suoi piedi, può liberamente diffondersi nell’aria senza aver bisogni di glad assorbi odori o altri ritrovati chimici. Vado in balcone, alzo la tapparella apro la finestra, mentre sono fuori, per scegliere le scarpe accade ciò che non ti aspetti mai. Si rompe la tapparella. Scende giù di colpo, come una ghigliottina che invece di tagliare la testa, ti taglia fuori da tuo mondo. Sei fuori in balcone mezzo vestito, con delle scarpe in mano e l’unica finestra aperta ti ha chiuso fuori. Rifiutandoti, quasi a voler rimarcare che, hai offeso casa più volte, quindi meriti una punizione. In casi come questi, ricordarsi del calendario è superfluo, la tapparella non si alza nominando i santi in malo modo, ma solo piegandosi e provando ad alzarla cercando di non romperla.
Ed è anche in situazioni del genere che apprezzi chi vive isolato, in una bella villa su una collina, magari circondato da abeti, siepi ed un ruscello, perché è a questo punto che appare la vicina. La signora Clelia. Simpatica vedova che ti riempie sempre di elogi dipingendoti nelle riunioni di condominio, come un bravo ragazzo, una persona seria ed altri elogi che ti rendo conto in quel momento di non meritare, perché la sua domanda è questa.
“Che cosa sta facendo signor Vitali?”, qui puoi usare tutti gli sforzi d’educazione che vuoi, puoi anche aver fatto esercizi di yoga fino a tre ore prima, o aver partecipato a mille corsi di Tai chi chuan nei parchi cittadini per controllare il tuo Io ed avere la calma interiore, ma rispondere “faccio sollevamento pesi per migliorare il mio fisico come faccio ogni mattina”, non viene proprio in mente!
Non puoi certo mandare anche la signora Clelia a raggiungere altri lidi con il più classico dei vaffa, ma con un’occhiataccia che Stanley Kubrick, se fosse vivo la utilizzerebbe per fare il sequel di Shining, intuirà che la giornata è iniziata male. Anzi malissimo.
Entrato in casa e uscito da questa situazione, guardi la finestra cerchi di capire cosa si è rotto osservi la cinta della tapparella sfilacciata e ti ricordi di quante volte hai detto, “poi la riparo” insultandoti da solo fino a quando capisci che ne hai fatta un’altra di cazzata.
Le scarpe sono rimaste fuori! Accidenti! Si può essere più deficienti di così? Ogni tua imprecazione non serve a nulla direbbero i confuciani. Tanto le scarpe sono fuori, la tapparella è rotta e tu devi solo metterti le scarpe con i lacci rotti.

Esco dalla casa come un ladro, cercando di non fermarmi a parlare con nessuno, per non rischiare di iniziare un dialogo affinché nessuno possa guardarmi le scarpe, in un attimo di lucidità ripasso questa prima ora giornaliera, razionalizzo che non può certo andare così tutto il giorno, prendo le chiavi di casa, quelle della macchina ed esco.
L’ascensore scende veloce, ti sei rilassato, magari guardandoti le scarpe ci fai un sorriso tragicomico, fortunatamente non incontri nessuno, e vai spedito verso la macchina. Ora chi abita a Roma e non ha un garage personale e non può permettersi di pagare un garage privato ogni sera quando torna a casa, inizia una caccia al posto auto. La caccia, perché di caccia si tratta, ha gli stessi atteggiamenti e comportamenti tali che ogni cacciatore compie nel bosco. Si fiuta il posteggio come se sentisse nell’aria, si scrutano i movimenti dei passanti in attesa che questi sfilino le chiavi della macchina dalle tasche, si osservano le luci delle auto, fin quando con un deciso colpo di freno si è individuato il posto. Ingrani la marcia, acceleri in stile formula uno e via. Hai trovato posto. Felice e appagato te ne vai a casa a riposarti. A Roma,però l’agguato è sempre dietro l’angolo, o meglio in uno di quei fogli bianchi, magari bagnati dall’umidità appesi alla meglio e che riportano queste parole: “domani dalle ore 06.30 alle ore 10.30 è vietato il parcheggio in tutta la strada per lavori conto Enel, le vetture trovate verranno rimosse” .
In casi come questi, credo che anche Giobbe pone fine alla sua proverbiale pazienza e inizia a fare un casino tale che anche un sordo riesca a chiamare il 118 per farlo ricoverare al più vicino centro di igiene mentale se ha avuto un inizio di giornata come il mio. Che faccio Io, sono da meno di Giobbe?
A chi scarico responsabilità che sono prettamente mie? Con chi mi sfogo visto che la signora Clelia è ancora al balcone che cerca di capire cosa potrà uscire dalla mia bocca!
Calma Roberto: Stai calmo, conta fino a dieci, rifletti, è tardi devi andare al lavoro, oggi è una giornata cruciale, le tue tavole pubblicitarie significano un contratto da 500mila euro con una delle più grandi aziende americane. Pensa solo al regalo che potrai fare a Marcella. Pensa che potrai andare in vacanza in Australia, luogo che sogni fin da bambino, pensa a tutto questo e stai calmo.
Mi dirigo quindi mandando dentro, lo stomaco un nervoso incredibile, verso la fermata dell’autobus e vedo chiaramente che il mio bus sta arrivando. Quando si dice la fortuna, forse arriverò in tempo, di solito quando sono nel traffico, gli autobus sfrecciano lungo le preferenziali lasciandomi indietro di kilometri. Con uno scatto degno di Usain Bolt mi allungo verso l’autobus, questi sta per ripartire, ha chiuso le porte, faccio un segno verso l’autista che si ferma e apre le porte anteriori.
L’autista è una donna, bella bionda, mani curate occhiali da sole scuri un viso che potrebbe sfidare le concorrenti di Miss Italia ammesso che non ci abbia provato, la ringrazio con un sorriso e resto vicino a lei per guardarla meglio. Non si parla all’autista, ma rompo una delle regole più violate a bordo degli autobus. “grazie a lei oggi non farà tardi in ufficio” banale frase per iniziare un discorso, ma la sua esperienza e il suo sapere lavorativo mi riportano sulla terra. “non è detto sa, oggi c’è un traffico enorme, c’è la manifestazione in centro!”
“Ecco!” Esclamo fra me stesso, poteva andare bene? Guardo la strada di fronte, il bus scorre come un Ferrari, la metà sempre più vicina del solito, rivaluto anche l’utilizzo del bus che sotto il profilo ecologico inquina meno di tante auto che vedo ferme scorrere dal vetro anteriore del bus. Attraversare il centro poi è fantastico perché tutta la gente che scende e sale dal bus sembrano come interpretare un film girato a doppia velocità, quasi come le comiche di una volta.
 

Brethil

Owl Member
Il sorriso mi appare in volto anche supportato dallo sguardo della conducente bionda, quando a un certo punto a una fermata sento una voce maschile che mi dice: Biglietto prego? Mi volto verso quell’uomo in giacca blu con sopra scritto “Atac controllore” e penso che non usando mai il bus, non ho neanche il biglietto.
Lo guardo, lui capisce immediatamente facendomi osservare che la vettura a bordo ha anche l’emettitrice automatica di biglietti. Io che non so neanche com’è fatta un’emettitrice sempre più basito, cerco di giustificarmi adducendo mille scuse, ma lui è inflessibile. “mi dia un documento per favore”, con uno sguardo che solo un bambino, trovato con le mani nella cioccolata può avere, lo imploro dicendogli che devo andare al lavoro, che mi sono punto con le puntine, che sono rimasto fuori la finestra di casa mia, che mi hanno caricato l’auto e dopo tutto il mio discorso sorridendo quasi a capire mi dice: “Tutto oggi gli è successo questo?”.
“Non mi crede vero?” alla mia replica mi guarda come chi ne ha sentite tante ogni mattina e inizia a scrivere il suo foglietto bianco con i miei dati. A questo punto mi sento come dentro un film sceneggiato da Luc Besson, la colonna sonora scritta da Yorgui Loeffner, solo che è tutto vero. Ed ancora devo arrivare in Ufficio!
Guardo la bionda conducente che mi sorride andandosene con il pesante mezzo, le sorrido mentre il controllore mi consegna il verbalino con la cifra da pagare. Bell’inizio di giornata sono appena le otto e trenta e già ho voglia di gettarmi nel Tevere. E che *****! Esclamo a voce alta, mentre passa una signora ben vestita vicino a me che si gira e giustamente mi apostrofa, “cafone”.
Con il volto di un pugile che ha subito un KO devastante, mi dirigo vero l’ufficio. Lavoro in un palazzo al centro di Roma, in una magnifica piazza, dove una volta c’erano le terme di uno degli imperatori romani e oggi il traffico impazzito gira tutto intorno a un’enorme fontana. Il fascino di Roma è anche questo, vedere migliaia di persone che vagano impazzite e indaffarate tra resti antichi di duemila anni.
Entro nel portone d’ingresso e il guardiano di servizio dell’azienda, mi pone il suo saluto. “buongiorno signor Vitali, ha dimenticato i lacci stamattina?” lo guardo, vorrei ucciderlo, ma lo sconforto mi assale, già penso a ciò che mi dirà il mio capo. Il solito elenco di urla a causa del mio ritardo, o del fatto che non ha consegnato le tavole in orario di fronte agli americani che già saranno in aula riunioni.
Con mia sorpresa ancora non c’è nessuno, mi siedo rilassandomi su una delle poltrone di pelle, come direbbe il ragionier Fantozzi, “poltrone in pelle umana” e attendo che arrivino gli altri.
L’aula riunioni ha una vista stupenda sulla fontana di piazza della Repubblica, lo spessore dei vetri non permette al frastuono delle macchine di entrare. La scena che si può osservare è bellissima. Macchine che inseguono motorini che a loro volta inseguono frenetiche persone in un gioco al contrario dove nessuno sembra mai raggiungere nessuno.
“Toc toc si può?” Mi volto di scatto e mi appare la signora delle pulizie. La guardo, cortesemente mi saluta, ricambio e inizio a pormi una domanda. O sono arrivato troppo presto oppure ho sbagliato giorno. Risaluto la signora delle pulizie e mi dirigo verso la segretaria del capo.





Le segretarie del capo in ogni dove nel mondo sono sempre belle donne, affabili, affascinanti, sempre pronte, mai un difetto perfette insomma, per fare la segretaria del capo. Elisa era così, energica, carica di elettricità a tal punto che se ti toccava prendevi la sua scossa. Entro nella stanza la saluto e lei subito, come un generale dei marines americani mi dice: “dormiamo al mattino che non rispondiamo al telefono?” Perplesso la guardo, e cerco di capire cosa voglia dire con questa sua domanda. “Perché mi hai telefonato?" "A che ora?” dal suo sguardo intuisco che non dovevo fargli questa domanda poiché è rinomata in azienda per essere la prima che entra in ufficio ancor prima della donna delle pulizie. Mi sorge immediatamente il dubbio che la telefonata di questa mattina, “anonima” era lei.
“certo che ti ho chiamato, volevo dirti che l’appuntamento con gli americani è rimandato in quanto il loro volo è stato rinviato a domani! Ma tu evidentemente ancora dormivi!” Le accuse meriterebbero almeno una spiegazione anche per non passare per un ghiro che dorme al mattino dopo essersi punto con delle stramaledette puntine da disegno per un lavoro che dovevo fare oggi in tutta fretta e che gli americani vedranno domani! Potevo spiegare a questo marines in tailleur grigio che stavo in bagno e mi sono pisciato addosso per risponderle!
Insomma ero corso in ufficio, dopo essermi alzato con un urlo alla Tarzan dal letto, fatto la pipì indosso come i bambini, mi si erano rotti i lacci delle scarpe, sono rimasto chiuso, fuori casa mia cacciato dalla mia tapparella, non possiedo più la macchina, ho preso un verbale dai controllori dell’Atac il tutto perché gli americani hanno rinviato il volo!
Mi scappa un bel vaff….ma cerco di fare training autogeno, respiro profondamente, mi rilasso contando fino a mille e dico al marines in gonnella che me ne vado.




Ore otto del mattino….dello stesso giorno

Tititiiiiiiiiii……..titititiiiiiiiiiiii……..tititiiiiiiiiii
Con uno schiaffo butto giù la sveglia e mi pongo sempre la stessa domanda ogni domenica mattina. Perché il sabato sera quando vado a letto, non prendo l’abitudine di spegnere la sveglia, eviterei almeno così gli incubi notturni, come questo. Oggi poi è una bellissima giornata. Forse!
 

Brethil

Owl Member
Anche in questo caso ho diviso il racconto in due parti.

Sopraesistito: Racconto carino e piuttosto divertente sebbene non in modo originale, mi sono piaciute le numerose metafore colorite, ma è pieno di errori grammaticali che rovinano la lettura.

Nerst: storia a dir poco piena di imprevisti. Ritrovo in ogni riga la quotidianità che accomuna, oserei dire, tutti noi.

Luisa: la storia è carina, ma ci sono troppe ripetizioni e devo penalizzarlo per gli innumerevoli errori grammaticali (tempi verbali inclusi) e refusi (?). La parte iniziale è decisamente migliore del resto del racconto che, ripeto se curato maggiormente avrebbe di certo preso un giudizio alto. Non si presta ad una seconda lettura.

El_Tipo: raccontino non eccelso ma nemmeno da buttare via. Forse sa un po di già sentito, mi ricorda la classica tragicommedia italiana dell'imprevisto (che però calzerebbe a pennello col tema). Tutto sommato qualche tiepido sorrisino lo strappa via, ed è scritto in modo gradevole.

Skitty: un racconto molto simpatico: è divertente scoprire man mano cosa accade a questo sventuratissimo personaggio! Mi sono piaciute le ambientazioni nella città di Roma, e le descrizioni del traffico. Riassumendo, pur trovando divertentissima questa storiella e pur apprezzando particolarmente alcuni passaggi (come quello della pipì: da morire!!!), non assegno un voto molto alto a questo racconto a causa di: mancanza di elementi originali e scelte stilistiche confuse.

Bianca: un racconto molto divertente,sugli imprevisti che possono succedere nella vita di tutti i giorni.

Darida: Di questo racconto mi piace il ritmo incalzante, una corsetta ad ostacoli verso il colpo di scena finale.

Irene: Modesto, simpatico e divertente.
 

Brethil

Owl Member
Titolo: Ulver
Autore: AK11


I


I passi dell'uomo si appoggiavano lenti sul tappeto di aghi di pino. Il freddo dell'autunno incomben-te aveva già congelato la terra al di sotto di esso, rendendola uno strato ruvido e duro. Similmente, il suo corpo era preso da un tremito pungente che non accennava ad abbandonarlo. Camminava lenta-mente, chino su se stesso, nel timore che alla minima scossa avrebbe potuto frantumarsi come un cristallo.
Stava iniziando a soffiare il vento della sera. Lo sentiva vorticare sopra le cime degli alberi, un sibi¬lo inclemente. La foresta lo proteggeva, offrendogli riparo coi suoi tronchi alti, rugosi, pervasi dal-l'odore intenso delle ultime gocce di resina.
Udì il fischio di un uccello, il suono breve e flautato di un altro, un grugnito in lontananza. Null'al-tro, oltre al fruscio impacciato dei suoi passi e al fiato grosso che gli montava in gola. Pensò, con un sorriso amaro, a quegli uccelli tropicali che possono permettersi il lusso di piumaggi sgargianti e concerti interminabili, poi più semplicemente all'esplosione di cinguettii, odori e sapori che si ani-mava a primavera nei boschi della sua infanzia; quello era il grande Nord del mondo, non ci si pote-va permettere nulla di superfluo. Perfino ai suoi sensi ormai affinati dalla lunga vita all'aria aperta, poche e rare erano le note che risaltavano. Gli venne in mente una melodia essenziale, radi arpeggi di chitarra, lenti e un po' tristi, punteggiata dai soffi di un flauto; il suono del Nord, racchiuso in una gemma.
Intanto, la giornata si accorciava. Il piccolo disco del sole era ormai scomparso dietro le fronde dei sempreverdi e gettava una velata luce arancione su quello scampolo di cielo che s'imbruniva. Lo stesso cielo sotto al quale s'agitava e si dimenavano città e nazioni dalle quali l'uomo era ormai lon-tano, non sapeva nemmeno quanto. Con ancora quella melodia nelle orecchie, fu percorso da un bri-vido e, di colpo, si sentì solo. Il crepuscolo nel Nord, ormai lo conosceva, era il regno delle ombre. Quella chiazza arancione che s'allargava nel cielo sempre più bluastro era come una pennellata su un quadro, una poesia bellissima ma fredda; non gli arrivava nulla di quel calore, non gli era di nes¬sun conforto. L'uomo camminava in un grigiore diffuso, quello che precede l'oscurità.

I lupi erano poco più avanti. Ogni tanto li perdeva di vista ma puntualmente ricomparivano dinanzi a lui, come se volessero farsi trovare. Svoltò dietro un grosso arbusto e li vide accampati in uno spiazzo alla base di un abete dalle grandi radici. La prima cosa che scorse, nella penombra, fu il brillare dei loro occhi penetranti, fissi su di lui. Si bloccò, con un respiro stanco. Una nuvoletta di vapore gelido si sollevò dalla sua bocca. Fino a quel momento, ogni tentativo di avvicinamento al branco era stato vano. Un paio di ringhi ben assestati erano sufficienti a tenerlo alla larga. Niente nell'atteggiamento di quegli animali lasciava intendere che fossero disposti ad accettare la sua com-pagnia, tuttavia non parevano avere nessun interesse nemmeno nell'attaccarlo e nello scacciarlo dai loro territori. Si limitavano ad osservarlo, a studiare quel bizzarro visitatore, troppo debole per esse¬re un cacciatore e persino per essere una preda. La vita del Nord è estremamente severa ma onesta, pensò, e seppur si sentisse a pochi passi dalla morte questo pensiero lo riempì di una fiducia nuova.
Di lì in avanti, gli rimasero poche riflessioni, nel freddo sempre più pungente. Continuò ad avvici-narsi ai lupi col passo lento e rassegnato di chi sa che non può fare altrimenti. Il branco era piccolo, formato da sei elementi. Percepirono qualcosa di nuovo, quell'improvvisa mancanza di esitazione nelle movenze dell'uomo, e drizzarono le orecchie. Iniziarono un ringhio sommesso, alcuni digri-gnarono i denti. Le loro zanne, come lame, brillavano bianche nell'ombra quasi fossero fantasmi, ma l'uomo procedendo a testa bassa nemmeno le vide. Si ritrovò, tremando, ai piedi del grande abe¬te. Scosso da un fremito si sentì cedere le gambe e crollò a terra. Accanto alla sua faccia la grossa radice che emergeva dal terreno gelido, sopra di lui la sagoma irta del lupo più grande, un maschio, che lo sovrastava con la schiena inarcata. Percepì il calore del suo fiato e la saliva che scendeva dalla sua bocca, e ne fu annebbiato. Ebbe appena il tempo di sdraiarsi, togliersi maldestramente lo zaino dalle spalle e rilassare i muscoli tesi, alzando il mento per mostrare al lupo il collo privo di difese.
La sua bocca lo addentò alla mascella, con una delicatezza difficilmente sospettabile. I denti pene-trarono il sottile strato della pelle e punsero l'osso. Stranamente, il lupo era silenzioso e non vi era frenesia nel suo gesto. Appena prima che si incrinasse, mollò la presa. Con un ultimo rantolo di lu-cidità, l'uomo si rese conto di essere ferito, che avrebbe avuto bisogno di medicazioni. Il maschio si allontanò; dopo pochi secondi un altro animale fu su di lui, e gli leccava il volto malandato.
Quella notte poté fare a meno della tenda e si tolse molti dei vestiti che indossava; dormì al caldo tra due pellicce.



II


Per gli studiosi, l'uomo sarebbe stato il maschio omega, l'ultima ruota del carro, ma a lui questo non importava. Mentre camminava nella foresta, in un tiepido mattino d'autunno, le sue gambe deboli e pesanti scivolavano a più riprese sul muschio e faticavano a seguire la serpentina dei lupi fra i tron¬chi fitti e sottili di una giovane abetaia; tuttavia si sentiva leggero e capace di sopportare le marce più estenuanti. Si sentiva accettato, in un certo senso, con un suo ruolo particolare in quel branco di animali troppo intelligenti per non rendersi conto che in lui qualcosa non quadrava, eppure del tutto disinteressati alla differenza di specie.
Il lupo nero aveva per lui una intensa curiosità, ansiosa di trasformarsi in amicizia. Era il primo fi¬glio maschio della coppia, giovane ma già più alto e pesante del padre. Aveva il portamento nervoso di chi ha ancora tutto da dimostrare e due occhi azzurri, glaciali, che spesso cercavano i suoi piccoli e castani. Durante il giorno non faceva che annusarlo e alla sera, quando erano sdraiati in un riparo tra gli alberi, lo stuzzicava con la zampa e poi si girava sul dorso, puntandolo col naso e guardando¬lo a testa in giù. Talvolta guaiva, quasi impercettibilmente, e si drizzava sulle zampe pronto a coin-volgerlo, forse, nel gioco. L'uomo temporeggiava, combattendo quella parte di lui ansiosa di lan¬ciarsi sull'erba; tentava ancora di assolvere l'arduo compito di non dimenticarsi le sue origini. Rima¬neva seduto, accanto ai due cuccioli, i figli più giovani, che lo fissavano con gli occhi grandi senza concedergli troppe confidenze.

Il branco stava inseguendo un giovane cervo che erano riusciti ad isolare, e tentavano di sfiancarlo prima di attaccarlo. La preda doveva essersi improvvisamente avvicinata, perché i lupi partirono ad un veloce trotto, lasciando l'uomo ad arrancare dietro le loro orme. Si trovò solo e spaventato per la prima volta dall'idea di perdere il contatto si mise a correre a perdifiato, senza tuttavia avvicinarsi di molto agli animali. Col respiro ingrossato dalla corsa, l'odore penetrante della resina entrò nelle sue narici insieme quello del legno che asciugava l'umidità ai raggi del sole. Per la prima volta di nuovo solo con se stesso provò una sensazione umana, da quanto tempo non gli accadeva? - ed umana fu la sua riflessione successiva; e se la preda fosse riuscita a fuggire? Cosa avrebbero mangiato i lupi? Come avrebbe affrontato il branco tale drammatico imprevisto? Le domande sorgevano in sequenza da aree della sua mente che quasi aveva dimenticato, e si affollavano sulle sue labbra. Come poteva-no sopportare ogni giorno la pressione di una caccia sospesa tra la sopravvivenza e la morte? Uno stridio breve e lancinante, che si levò acuto tra i rami magri, lo distolse da questi pensieri. Rallentò il passo, guidato dai suoni della lotta, e tirò il fiato. Quando raggiunse il luogo della cattura, un'inse-natura tra le rocce e un rivolo d'acqua, la preda era già stata aperta. Nello sguardo del lupo grigio, il padre, che staccava i primi morsi, non vide alcun segno di soddisfazione né di sollievo; se non ci si dedica a previsioni e ci si limita ad agire, soppesò, nessun imprevisto turberà la nostra quieta, im-mutabile corsa verso la morte.



III


Quella sera l'uomo si cibò col branco, staccando i piccoli pezzi del suo modesto pasto direttamente dal corpo del cervo; il sapore era troppo forte, erano rimaste solo le parti più dure che i suoi denti non riuscivano a lacerare, ma in qualche modo si adattò. Per essere accettato doveva vivere come un lupo. Attese pazientemente il suo turno, stando in disparte; non voleva rischiare che il padre lo scac-ciasse violentemente, mordendolo di nuovo alla mascella come talvolta continuava a fare, per affer-mare il proprio diritto di cibarsi per primo. I lupi mangiarono a sazietà, svuotando quasi completa-mente la preda; non potevano sapere se il giorno dopo ne avrebbero catturata un'altra, e l'uomo pen-sò che in fondo non si ponessero nemmeno la domanda.
Il lupo nero contese al padre le parti più ambite, il cuore e i reni; entrambi si ferirono.

Scese la sera. Come spesso accadeva, si era alzato il vento. L'uomo lo sentiva sfregargli le guance col suo turbinio gelido, il suo fruscio era l'unico suono udibile, come se il freddo incombente avesse congelato ogni forma di vita. Si mise a fissare le cime degli abeti, puntate verso il cielo di un blu ac-ceso, rischiarato dalla sagoma gialla della luna. Era quasi piena.
Il lupo nero, una sagoma a malapena distinguibile nella notte, si alzò dal giaciglio. I suoi occhi scin-tillavano; fissò l'uomo con la solita aria ingenua, curiosa, e sventolando la coda come un cane lo in-vitò chiaramente a seguirlo. L'uomo non si fece attendere.

Tenendosi dietro al passo sicuro del lupo si ritrovò su un piccolo poggio che emergeva tra gli alberi, con una roccia che dominava la valletta sottostante. Vi salì, e senza più la foresta a fargli da scudo il vento prese a schiaffeggiarlo in faccia. Anche il freddo gli serrava gli arti in una morsa, le gambe gli tremavano ed iniziò a battere i denti, ma non gli importava. La luna adesso era velata da una coltre di nubi, che sfilacciandosi lasciava passare i suoi raggi. Il paesaggio davanti ai suoi occhi era una sconfinata distesa argentea, con le punte degli alberi che si perdevano in lontananza, dove sorgeva¬no imperturbabili le montagne. Il soffio del vento, alle sue orecchie ormai abituate, suonava come un grave sottofondo d'archi; interveniva solo il fruscio di un fiume, come una corda pizzicata, di tanto in tanto. Quanto tempo mancava al giorno in cui l'acqua si sarebbe gelata? Quanto mancava alla prima neve, alla fine forzata del suo viaggio? Era già tardi, troppo tardi, ma stava perdendo la capacità di ragionare e prevenire gli eventi.
Il lupo nero era accanto a lui, accucciato, col pelo mosso dal vento e gli occhi velati da una certa malinconia, si sarebbe detto. D'improvviso, un lungo e tenue canto si levò tra gli alberi. Il lupo nero drizzò la testa e le orecchie. L'ululato continuava, e lui rispose. Sollevò il muso e innalzò la sua voce al cielo; a tratti si spezzava in un guaito e si faceva roca, poi riprendeva con tono appassionato.
L'uomo si schiacciò a terra, sulla roccia, e chiuse gli occhi. Era commosso, con inaudito vigore, da quel suono struggente che si diffondeva da un lupo all'altro per tutta la foresta. Provò ad unirsi, ed un debole grido lamentoso uscì dal suo petto. Il lupo nero, insospettito, si azzittì e lo puntò. Poi in-clinò il muso e gli sfiorò la guancia col naso; era gelido e umido, il suo fiato portava ancora l'odore della carne. Ripresero a ululare, insieme. L'uomo non aveva idea del perché quegli animali levasse¬ro il loro canto, lasciandolo trasportare dal vento. Forse per segnalare la posizione, ma perché tanta insistenza? Forse per comunicare, ma cosa? Forse per qualche motivo più superfluo, eppure più no-bile? Non gli importava, perché in quel momento gli pareva di comprendere ogni particolare. Ululò fino a piangere e si svuotò il petto per se stesso, per il lupo nero, per ogni lupo che rispondeva al ri-chiamo, per ogni cosa che si animava sotto quell'unico, infinito cielo.



IV


Il giorno in cui il lupo nero se ne andò c'era un alba d'autunno, umida e silenziosa. Filamenti di nu-vole s'allargavano nel cielo ancora grigio, mentre la pigra luce del sole sempre più piccolo stendeva sull'orizzonte un velo dorato, sfumato di rosa.
Il lupo nero avanzò con decisione due passi verso nord. Poi si fermò. La sua sagoma muscolosa, scura, spiccava nel grigiore diffuso. Aveva improvvisamente assunto un portamento diverso, più di-gnitoso, composto, adulto. L'uomo lo chiamò con un ringhio e questo piegò il collo verso di lui; gli occhi erano sempre gli stessi, di un azzurro spettrale, ma gli parvero salutarlo con una nuova espres-sione. La viva curiosità aveva lasciato il posto a un piglio serio e generoso, memore del loro lega¬me. C'era un sentimento? Stima, riconoscimento, affetto? L'uomo non si pose queste domande. Si avvicinò al lupo ma questo digrignò appena i denti, senza nemmeno che il suo muso assumesse i connotati della minaccia. Sapeva che non ce n'era bisogno, l'uomo capì, e il lupo s'allontanò al trotto nel bosco senza più guardarsi indietro.



V


L'alba del giorno successivo, o forse ne erano passati molti di più, il cielo era bianco.
Non un fremito, non un odore nell'aria ferma. Sotto quella coltre di nubi inespressiva un muro di neve era senza dubbio pronto a scendere, in fiocchi lenti e leggeri. L'intera foresta attendeva in si-lenzio che calasse. L'uomo non se l'aspettava, non l'aveva previsto. Non prevedeva più niente che andasse al di là del qui e ora. Non fu sorpreso, né spaventato dall'idea di recuperare faticosamente la via della civiltà arrancando tra la neve e il gelo.
Se si fosse perso avrebbe fatto come il lupo nero, la cui sagoma compariva spesso nella sua mente, solitaria a vagabondare per la foresta. O forse, chissà, poteva persino rimanere col branco durante l'inverno.
Infine, come il lupo nero prima di lui, si allontanò verso sud senza esitare, verso i primi faggi e cli¬mi più miti. Non aveva nessun pensiero per la testa; tutto ciò che lo rappresentava erano i suoi passi lenti, accolti dalle profondità della foresta, mentre il cielo bianco si richiudeva come una coperta so-pra di lui e la prima neve cancellava le sue impronte.
 

Brethil

Owl Member
Sopraesistito: racconto molto evocativo e che riesce a far passare un messaggio senza sbatterlo in faccia al lettore. Le atmosfere mi ricordano questa canzone, che dedico a chiunque lo abbia scritto: YouTube - ‪Amon Amarth - Under The Northern Star (With Lyrics)‬‏

Nerst: ottima fusione di animi animali ed umani. Contenuto molto originale.

Luisa: bel racconto con un insolito imprevisto. Lo premio per l’originalità e per l’amore verso la natura che emerge nella storia. Ben scritto e di facile lettura.

El_Tipo: molto bella l'ambientazione, lo scenario del lupo della foresta e dell'uomo, ma il racconto risulta un po’ anodino per essere uno dei favoriti alla vittoria.

Skitty: Ulver: lupo in norvegese… Un racconto veramente meraviglioso, a partire dal tema originale ed interessante. Molto bella questa esperienza di passaggio dalla vita umana a quella del branco, descritta con dettagli incisivi, lasciando spazio a riflessioni ampie riguardo le cose che ci possono dare o togliere la felicità… Il linguaggio e la grammatica sono ricercati, ma sempre diretti, e soprattutto le parole e le immagini sono ri-elaborate in modo personale e quasi poetico. Molto elegante in questo contesto, la suddivisione in mini-capitoli.

Bianca: un racconto interessante, bello il legame di amicizia e rispetto stretto tra l’uomo e il giovane esemplare del branco dei lupi, ben fatte le descrizioni del paesaggio della foresta.

Darida: Bello e ben scritto questo racconto, molto fisico, vivide e toccanti le descrizioni: "la sua bocca lo addentò alla mascella,con una delicatezza difficilmente sospettabile..."

Irene: Bello, magari non particolarmente originale, ma mi è piaciuto. Soltanto, mi lascia un po' insoddisfatta la parte V.
 
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