Le vicende raccontate nel libro si svolgono a Il Cairo durante la II guerra mondiale, in un vicolo, il Vicolo del Mortaio, che in realtà si rivela essere un “non-luogo” in un “non-tempo”. La guerra stessa sfiora appena le vicende è solo il pretesto che porta i più giovani a cercare fortuna altrove. È vista quasi come un’occasione di riscatto, alla fine quando anche quel poco di novità che sembrava aver portato nel vicolo finisce, rimane solo il dispiacere che Hitler si sia arreso così presto.
I protagonisti, le loro vicissitudini, la città stessa, che sembra qualcosa di separato e esistente solo oltre l’ingresso e l’uscita del vicolo, sono in realtà paradigmi universali di un’umanità che lotta per la propria sopravvivenza e la propria realizzazione nei pochi modi che conosce. Potremmo essere ovunque, i personaggi, che sono quasi tutti protagonisti e in questo senso si tratta veramente di un romanzo corale, lottano, si arrabattano, si rassegnano, si degradano o si sublimano, in quella che sembra essere la meschinità del loro destino a cui non riescono comunque a sfuggire.
E’ un intreccio fatto di umili, che fuori da vicolo non hanno possibilità di redenzione, perché sono loro stessi il vicolo, con le sue miserie e meschinità e se lo portano dentro.
Uno dei personaggi chiave è Hamida, giovane donna, bellissima, fiera, indomita, conscia della propria bellezza, desiderata e spasimata da molti. Sente di non appartenere a quella gente misera che disprezza, si sente destinata ad essere di più, ad avere di meglio. Ma tutto quello che comunque sa immaginare è soltanto un uomo ricco che la porti via dal vicolo e le dia una vita di agi e splendori: non c’è altro in lei, solo rancore per essere relegata ad un ruolo che non sente suo, ma il riscatto è sempre un riscatto di miseria e degrado, che passa attraverso la disillusione di un amore ingannevole e fasullo.
Ci sono tutti in questo vicolo: il dottore buontempone, ma disonesto, il reietto della società che vive ai suoi margini, ma di cui si ha bisogno, che crea mendicanti provocando menomazioni permanenti a chi si rivolge a lui, la moglie bisbetica, il giovane buono che sacrifica la sua vita senza mai accorgersi di essere solo uno strumento nelle mani della donna che ama, il pazzo che pronuncia frasi sagge agli angoli del vicolo e nel caffè, il santo, che alle sventure della sua vita, oppone la fede incrollabile in Dio e nell’amore per gli uomini. Ma anche lui non è immune dal verme che sembra rodere il cuore di tutta questa umanità dolente, e che incattivisce e inacidisce tutto, ed è una specie di despota per la moglie, su cui non riesce a riversare lo stesso amore che sembra voler donare a tutti. C’è il giovane ribelle che scappa dai genitori e dal padre violento e immorale, per poi far ritorno con la coda fra le gambe e una moglie da sfamare, c’è la donna di mezza età che cerca di risposarsi, il direttore del bazar colpito dalla malattia che impazzisce all’idea di dover morire…. C’è tutto questo ma anche molto di più.
Mahfuz crea un intreccio di vite e un tessuto umano mirabili, che avvolge il lettore e lo ingloba nella quotidianità del vicolo, rendendolo esso stesso protagonista, facendogli provare quel senso di claustrofobia che sembra nascere dalla consapevolezza che la propria vita è segnata e non c’è altro che quel vicolo e quelle persone con cui condividerla, il tutto utilizzando uno stile piano, preciso, che non indulge mai nella compassione lacrimevole per il destino dei suoi personaggi, né in un giudizio super partes, ma mantiene sempre un senso di profondo rispetto per le loro scelte.
Veramente un grande libro.
Francesca