Non mi soffermo sul primo racconto, per il quale ho provato una repulsione che non mi ha permesso di apprezzarlo. Mi ha invece incuriosito e coinvolto maggiormente Il sogno di uomo ridicolo che, pur nella sua brevità (poco più di una ventina di pagine), ho trovato ricco di spunti e mi ha suscitato diversi pensieri e sensazioni.
Un uomo diventato indifferente a tutto è ormai pronto al suicidio prima che un particolare evento, veicolato da una bambina, impatti con forza sul suo muro dell’indifferenza aprendone delle crepe in grado di risvegliare la sua coscienza. Ne scaturisce una riflessione che ha del filosofico e psicologico, e che poi si tramuta in un’esperienza onirica e mistica che ha a tratti anche del poetico.
All’inizio di questa esperienza, il protagonista sogna di spararsi, ma con un colpo al cuore e non con un colpo in testa come aveva inizialmente programmato. Questo mi ha fatto pensare, per contrasto, al famoso discorso di David Foster Wallace Questa è l’acqua. Qui Wallace sottolineava l’importanza di imparare a controllare ed orientare il proprio pensiero, perché, quando questa capacità viene meno, si corre il rischio di venire fagocitati in una spirale di pensieri potenzialmente fatali. Non a caso, diceva lo scrittore, la maggior parte della gente che si suicida con un’arma da fuoco, si spara in testa. Mentre nel discorso di Wallace la mente è vista quasi come un potenziale nemico da tenere a bada per non incorrere nell’autodistruzione, nel racconto di Dostoevskij la mente lasciata libera di vagare assume al contrario un potere salvifico. I pensieri indotti dalla visione della bambina distraggono il protagonista dal premere il grilletto, immergendolo in pensieri che richiamano la sua attenzione, lo inducono a porsi delle domande, ad avvertire il bisogno di risolvere il conflitto interiore suscitato dall’evento, riportando a galla la sua coscienza. Spontaneamente e senza alcuna intenzionalità, la mente del protagonista comincia ad elaborare l’accaduto, i suoi pensieri fluiscono obbedendo solo a loro stessi senza che il protagonista ne abbia alcun controllo, e lo dominano al punto da addormentarlo e poter continuare il loro lavoro indisturbati a livello inconscio. È a questo punto che il protagonista sogna di spararsi al cuore, non più in testa come aveva pensato: l’uomo che era diventato doveva idealmente morire, con un colpo al suo cuore di pietra, preservando invece la sua testa, per poi rinascere purificato nella realtà, con una nuova sensibilità e un nuovo scopo di vita, attraverso un cambiamento che parte inevitabilmente proprio dalla sua mente, che continua ad esercitare una certa capacità di raziocinio anche nel sogno.
Ed effettivamente la visione che ha in sogno lo cambia radicalmente, ed è il pretesto di cui Dostoevskij si serve per esprimere un messaggio di speranza contro il male che affligge la storia dell’uomo. L’antidoto è noto, è quell’ "ama il prossimo tuo come te stesso" che per quanto abbia attraversato indenne il tempo, non ha messo le radici nell’animo umano.
Secondo l’autore/protagonista, l’uomo prima del peccato viveva senza desideri, senza nozioni scientifiche o filosofiche, ma possedeva un altro tipo di sapere a noi sconosciuto, era animato da altre inaccessibili aspirazioni, e per questo era felice, integro, non aveva bisogno di altro all’infuori di ciò che già aveva e che lo rendeva in pace con se stesso. Secondo l’autore, andrebbe recuperata questa dimensione, e il mezzo per raggiungerla consisterebbe nell’estirpare quella che a suo parere costituirebbe l’origine del male, ovvero la concezione secondo cui "la coscienza della vita è superiore alla vita, la conoscenza delle leggi della felicità è superiore alla felicità". Per quanto sia comprensibile il disaccordo su questa visione delle cose, devo dire però che non mi sento di condividere né questa concezione né la posizione dell’autore che vede in tutto ciò il seme del peccato e il principale responsabile del decadimento umano. Si dice che la virtù stia nel mezzo, e in questo senso penso che quella sorta di metacognizione della vita che emerge da quella presunzione di superiorità della conoscenza sia un importante elemento da riconoscere e salvare, perché rappresenta una significativa peculiarità dell’uomo che tra l'altro, a mio parere, se orientata nella giusta direzione, rappresenta proprio il mezzo con cui recuperare in generale una dimensione più umana. Al contrario, la mancanza di riflessione, di un pensiero critico, l’ignoranza, non può portare alla condizione primordiale di armonia col tutto secondo una consapevolezza a noi sconosciuta, che è un qualcosa di puramente idealistico e irrealizzabile nei termini posti dall’autore. D’altra parte, se il protagonista stesso del racconto si salva e matura una nuova consapevolezza della vita, è proprio grazie al processo di interrogazione interiore e di elaborazione riguardo ciò che stava provando.
Il racconto nel suo complesso risulta quindi interessante e piacevole da leggere, per quanto io ne abbia apprezzato maggiormente la prima parte.
Piccola nota: da questo racconto si evince anche che Dostoevskij non fosse a digiuno di nozioni scientifiche. In particolare, all’autore era noto che la velocità della luce fosse finita, in quanto il protagonista, ad un certo punto dice: "Sapevo che esistono nello spazio celeste delle stelle i cui raggi non pervengono sulla terra che dopo migliaia o milioni di anni. Forse volavamo in questi spazi". Per quanto la prima misura della velocità della luce avvenne circa due secoli prima di questo racconto, mi ha ugualmente sorpreso la consapevolezza dell’autore a tal proposito.