Non c’è nulla che possa farmi pensare che il mondo sia altro che ciò che io stessa riesco a percepire.
Io, immersa nell’aria attorno a me, lancio i miei sensi alla scoperta e raccolgo quello che essi mi portano indietro come cani da caccia.
Insomma tutto un gioco di percezioni si intreccia, si compone e ricompone, a disegnare ogni mio pensiero, ogni mio momento, ogni immagine a cui do il nome di verità. E le persone attorno, tanti centri di tanti universi come io sono centro del mio universo, si urtano, si fondono e confondono, promiscui, e lanciano verso di me i loro sensi, e io a loro i miei. Mi ritorna indietro quello che per gli oggetti era verità, per gli individui è identità.
Tutto frutto della percezione.
Eppure i sensi non sono onnipresenti, quando mi fermo a guardare l’espressione di un volto, me ne sto perdendo altre mille, mi sfugge l’intrecciarsi delle dita, e quando scendo a guardare le mani non riuscirò a guardare il volto, e quando torno al volto mi starò perdendo il vento che fa i suoi ricami, e tutto, tutto il resto.
Allora io non sono solo il centro del mio universo, ma sono anche il tronco di un vastissimo albero di possibilità, promiscue anche loro. All’apice di un complicato intreccio di strade lancio i miei sensi per una via, una possibilità una sola, e da lì costruisco il mio universo. Fatto di percezioni, non di certezze. Parziale, non assoluto. Mutevole, come il caso. Il caso su cui tutti quelli intorno a me costruiranno le loro certezze e i loro universi.
Solo così possiamo spiegare cosa accade quando a guardare un volto noto, non lo si riconosce nella memoria. E perde di senso quella parola, identità.
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