Trovo sempre molto difficile parlare della scrittura di Magda Szabò, perché se da un lato si tratta di una delle mie scrittrici preferite, e quindi vorrei parlarne per ore e ore, elencando in una sorta di flusso di coscienza disordinato tutte quelle cose a cui le sue parole hanno il potere di farmi pensare, dall'altro mi rendo anche conto che il mio rapporto con la sua scrittura è piuttosto viscerale e intimistico, per cui gran parte di quello che avrei da dire parlerebbe di me, più che di lei. Oltretutto, i suoi sono libri che meritano molto più spazio di quello che hanno, dunque mi piacerebbe essere in grado di mettere insieme un commento sensato e in grado di portare attenzione a lei, e la paura di finire fuori strada è sempre tanta.
Quando guardo alla sua bibliografia, provo sempre una piccolissima fitta d'angoscia notando che i suoi libri che mi restano da leggere sono sempre meno, li sto centellinando, e mi approccio alla lettura successiva con il timore forse un po' stupido che il romanzo successivo possa deludermi. Non leggevo Magda Szabò da agosto, quando avevo uno stato d'animo abbastanza diverso e avevo divorato “Ballo in maschera” in una giornata sola, una giornata strana, in cui avevo avuto il coraggio di restare da sola e me ne stavo a combattere con il vento su una spiaggia semideserta della Camargue, avevo freddo e forse anche la febbre per colpa di un'insolazione. Avevo letto “Ballo in maschera” in una giornata a modo suo perfetta, eppure quel romanzo non mi aveva soddisfatta del tutto, non ci avevo ritrovato il respiro lento e ampio di altri capolavori della Szabò, e la delusione che ho provato è stata più simile a quella che si prova guardando un caro amico non riuscire a dare il meglio di sé. Non delusione da, ma delusione per, se mai questo può avere un senso.
Ho aperto le prime pagine di “Via Katalin” con una circospezione che ha sorpreso anche me, e mi sono ritrovata a bermi questo breve romanzo in un paio di pause pranzo. Di certo non la stessa atmosfera un po' surreale che aveva accompagnato “Ballo in maschera”, ma dopo un paio di minuti di lettura, non mi importava più.
“Via Katalin” non è un romanzo accogliente, nonostante la prosa di Magda Szabò sia sempre estremamente precisa e scorrevole. “Via Katalin” parla di un legame profondo e viscerale, parla di casa e dei rituali che solo chi fa parte della famiglia può cogliere, e così le prime pagine del romanzo non sono fatte per accogliere il lettore: è come entrare all'improvviso nella casa di una famiglia che non si conosce, è inevitabili sentirsi spaesati ed estranei, in un primo momento. Ci vuole tempo per conoscersi, e ci vuole un minimo di fiducia reciproca: per poter avere qualcosa, bisogna cedere qualcos'altro in cambio. Ma se si è disposti a faticare per qualche decina di pagine, il sollievo dato da ogni più piccolo dettaglio che va a incastrarsi perfettamente al posto giusto è a dir poco impagabile.
E subito dopo il sollievo, arriva il dolore. Quello sordo e pulsante, quello di un pugno che continua a risuonare nello stomaco anche quando la testa sembra apparentemente lontana dal romanzo.
Sarebbe estremamente semplice descrivere la trama di questo romanzo: in via Katalin vivono tre famiglie, tre famiglie che sembrano assorte in una bolla di amicizia e piccoli rituali, e tutto sembra procedere nel migliore dei modi fino a quando non arriva la guerra, che significa campi di concentramento per i dentisti ebrei e una fucilata al chiaro di luna per la loro figlia sedicenne. Si potrebbe dire che via Katalin è un romanzo sulla memoria e su che cosa voglia dire sopravvivere, ma in realtà è tutto questo e anche molto di più.
“All'improvviso si accorsero che l'invecchiare aveva disgregato quel passato che negli anni dell'infanzia e della giovinezza consideravano così compatto e solido: il Tutto era caduto a pezzi e, anche se non mancava nulla, perché quei frammenti contenevano ogni cosa successa fino a quel giorno, niente era più come prima. Lo spazio era diviso in luoghi, il tempo in momenti, gli eventi in episodi, e gli abitanti di via Katalin avevano infine capito che nelle loro vite soltanto un paio di luoghi un paio di momenti ed alcuni episodi contavano davvero. Il resto era stato un semplice riempitivo delle loro fragili esistenze, come i trucioli che si versano nelle casse prima di un lungo viaggio per impedire al contenuto di rompersi. Ormai sapevano che la differenza fra i morti e i vivi è solo qualitativa, non conta granché e sapevano anche che a ciascuno tocca un solo essere umano da invocare nell'istante della morte.”
Ne “La ballata di Iza” credevo di aver trovato uno degli approcci più sinceri e gentili a che cosa significhi invecchiare, ed è evidente quanto questo sia un tema caro alla Szabò. Tuttavia, l'approccio e la ferocia nascosta sotto una prosa sempre misurata e precisa di “Via Katalin” donano alla tematica un colore del tutto diverso.
Perché gli abitanti di via Katalin invecchiano senza mai aver superato davvero quei pochi momenti salienti della loro esistenza, e qualcosa, nelle loro vite, rimane bloccato a quei pochi attimi che qualcuno potrebbe chiamare essenza.
“Tutti gli altri volti della signora Temes - quello bagnato di lacrime, quello spaventato, vuoto, inquisitorio, vorace - oggi per me sono irreali. Allora non sapevo ancora che alcune persone muoiono parecchio prima della loro vera morte, non avevo idea che la loro ultima immagine reale rappresentasse il loro ultimo giorno reale.”
Con una giravolta stilistica in grado di dare qualche senso di vertigine, ma che in ultima analisi è forse la cosa più salda di tutto il romanzo, la Szabò dà voce proprio al personaggio di Henriett, la ragazza uccisa all'inizio del romanzo: tutto il suo riavvolgersi su sé stessa, la sua insistenza a ricostruire un presente sempre uguale e stabile in via Katalin è l'emblema più forte di tutto il tono del romanzo. I personaggi si avvolgono su loro stessi, vivono in una spirale in cui è impossibile uscire, presi come sono da un passato che sembra non poterli lasciar andare. Blanka, che osservando le onde calde del mare greco invoca la neve, il ghiaccio e via Katalin. Bàlint, che il giorno del suo matrimonio non riesce a fare altro che ridere amaramente, Irén che si aggrappa ai suoi doveri come se questo bastasse a salvarla. Tutte le loro esistenze si fermano in un unico punto, come se la loro vita non fosse mai andata oltre via Katalin, e tutto ciò che quel luogo rappresenta.
Alla fine, il personaggio più vivo dell'intero romanzo sembra essere proprio Henriett, tanto che verrebbe da domandarsi quale sia la reale differenza - e se una tale differenza possa esistere - tra i sommersi e i salvati.
Mi rendo conto di non aver rispettato nessuno dei miei buoni propositi, con questa recensione (eppure avrei ancora così tante cose da dire, eppure ho detto così poco del libro, e ho parlato così tanto di me), ma non credo di saper fare di meglio.
Di nuovo, ripensando a questo romanzo non posso fare altro che vedermi danzare davanti agli occhi delle immagini dalla forza commovente: Irén che sostiene e accompagna suo padre lungo la navata della chiesa, Blanka circondata dai suoi piccoli e numerosi Henriett, un uomo disperato che sfoglia i compiti di una bambina delle elementari sotto il busto di Cicerone.
E di nuovo, non posso fare altro che esortarvi a farvi un regalo, e a leggere Magda Szabò.