Di Fiore, Gigi - Controstoria della liberazione

"Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c'è una terra ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette che tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà. Per 50 ore"
dal discorso del generale Alphonse Juin del 14 maggio 1944, rivolto alle truppe nordafricane della 2° divisione di fanteria alla vigilia dell'attacco sul fronte del Garigliano (la famosa Linea Gustav)"

Riprendo il mio libro di storia e leggo che in Germania vi furono bombardamenti punitivi delle città tedesche da parte degli alleati, Norimberga e Dresda subirono bombardamenti devastanti. Per Dresda si parlava di una forbice che va dai 100000 ai 250000 morti. Cifre recenti hanno ridato un numero reale a quei morti, si parla di 22-25000 morti.
Di Foggia non c'è nessun cenno da nessuna parte, né nel mio libro del liceo, né in quello delle medie.
Cosa è successo a Foggia? Un bombardamento che ha distrutto totalmente la città nel 1944, un bombardamento che a memoria dei testimoni sopravvissuti fu più punitivo che strategico. Uno degli ultimi testimoni ricorda che i mitraglieri americani volavano basso e con le mitragliatrici azionate sparando sulla folla in fuga.

Era una guerra, ma perché tacere ciò. I tedeschi hanno conosciuto la sorte che gli è toccata, noi no. Abbiamo davanti agli occhi la figura dello Yankee sorridente che porta tavolette di cioccolata e chewing-gum e sigarette alle vedove di guerra.Eppure gli americani stuprarono, fucilarono, fecero accordi con i criminali nostrani, si arricchirono come volgari tombaroli.
Se 80 anni prima furono i piemontesi a insanguinare il Sud, nel 1944 furono gli americani e i loro alleati a fare altrettanto: chiedere alle donne ciociare costrette a subire le cosiddette "marocchinate". Restate impunite e dimenticate dai libri di storia, fino a che un grande romanziere del '900 Alberto Moravia non né parlò in un suo romanzo.

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Lucky Luciano

Un bambino di cinque anni iniziò la sua precoce attività lavorativa nelle miniere di zolfo in Sicilia. Le condizioni erano al limite della sopravvivenza, ben descritte da Verga nelle sue novelle. Questo bambino era sveglio e mai aveva accettato passivamente la sua condizione. A 7 anni insieme con la sua famiglia emigrò negli Stati Uniti. I fratelli cominciarono a lavorare come artigiani, chi sarto, chi calzolaio, ma il giovane Salvatore Lucania, aveva altre ambizioni. In breve divenne corriere di eroina, ancor più rapidamente divenne il capo di cosa nostra americana, cambiò nome, divenne Charles Luciano, meglio conosciuto da tutti come Lucky Luciano, il fortunato. Ma come Al Capone, anche Luciano fu mandato in carcere per una trentina d’anni. Nel penitenziario continuava a dettar legge, aveva un cuoco personale, e gestiva gli affari del penitenziario e i traffici al di fuori delle sbarre. Trascorsi sei anni in carcere, la Patria americana decise di aver bisogno dei suoi servigi per vincere contro i nazisti. Lucky si fece pregare ed ottenne condizioni vantaggiosissime. Primo: la Sicilia doveva tornare alla mafia, notevolmente indebolita sull’Isola dal lavoro del Prefetto Mori; secondo: un “salvacondotto” (mai confermato) per esercitare nel post guerra le sue attività senza correre il rischio di finire nuovamente in carcere.
Affare fatto, Lucky Luciano venne inviato in Italia, riorganizzò la mafia e diede un grosso aiuto all’esercito USA. Ancor di più combatté il comunismo nell’isola a suon di piombo .
Morì “nel suo letto” a Napoli nel 1964.


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Canicattì. La strage conosciuta...

Nel primo pomeriggio del 12 luglio 1943 i carri armati americani comandati del cap. Norris H. Perkins, provenienti da Licata, giunti nei pressi di Canicattì, si erano fermati sulle alture di Carlino, Cuccavecchia e Rinazzi, da dove si distingueva nettamente la città, racchiusa nella valle, con gli edifici di vecchia pietra che apparivano come incuneati nelle rocce. Dietro i carri armati venivano avanzando cinquemila soldati della Compagnia H del 66° Reggimento Usa. La copertura aerea era completa. "Our air - racconta il cap. Perkins - bombed Canicattì about 1 or 2 hours before we started the attack", cioè "la nostra aviazione bombardò Canicattì per una o due ore prima che noi sferrassimo l'attacco".
I soldati tedeschi, pressati in tal modo dal cielo e incalzati da terra dalle truppe alleate, stavano abbandonando la città. Fu allora che, mentre essi si ritiravano, scorsero davanti all'imbocco del ricovero antiaereo di Via Cap. Ippolito, quello ubicato poco più sotto l'attuale Odeon, un gruppo di canicattinesi esultanti per l'ormai imminente arrivo degli americani. Erano le ore sedici circa. Contro di essi i tedeschi aprirono il fuoco, facendone strage. Furono almeno sei i morti, tra i quali due giovani di diciotto e diciannove anni. Fu la prima strage nazista in terra italiana.
...
 
... la strage sconosciuta.

Due giorni dopo questa strage, ne avvenne un'altra per mano di un tenente colonnello americano. Egli si era insediato al Comune di Canicattì come capo dell'AMGOT, cioè del Governo Militare Alleato per i Territori Occupati, e come tale si trovava nel suo ufficio del Municipio il pomeriggio del 14 luglio 1943, quando vide presentarglisi un uomo in stato di forte agitazione, il quale reclamava un immediato intervento alla Saponeria Narbone-Garilli di Viale Carlo Alberto, dove, a suo dire, c'era in atto un saccheggio.
Il tenente colonnello ordinò subito a un plotone di soldati di recarsi immediatamente sul posto, al comando di un tenente. Ma, quando essi erano già partiti, ci ripensò, e disse ai tre militari dell'Intelligence Services che erano con lui di seguirlo. Giunti alla Saponeria, videro che ne erano entrati tanti, tra cui anche donne e bambini, perché c'era nel muro una breccia provocata dai bombardamenti. I soldati del plotone ne stavano tenendo in stato di fermo da trenta a quaranta, secondo la testimonianza di chi ne fu testimone oculare. Erano, quindi, tutti fermi, quando il tenente colonnello ordinò al plotone di soldati e al loro comandante di sparare sui presenti, ma nessuno di loro osò ubbidire. Allora comandò ai tre militari dell'Intelligence di far fuoco loro. Ma anch'essi rimasero fermi, di ghiaccio. Va a loro onore l'aver disubbidito, con grave rischio personale, a un simile ordine superiore. Estrasse, a questo punto, il tenente colonnello la sua pistola, una Colt automatica, calibro 45, e cominciò a sparare. Ed ecco cosa fece secondo il racconto del prof. Joseph S. Salemi della New York University, figlio di uno di quei militari dell'Intelligence che furono presenti alla strage: "He emptied one magazine, and then reloaded, emptying another, and then reloading again", cioè "egli svuotò il primo caricatore, e poi ricaricò, ne svuotò un altro e quindi ricaricò di nuovo".
Nella sua relazione tenuta il 15 aprile 1998 a New York all'Institute of C.U.N.Y. Graduate Center su An unreported atrocity at Canicattì, July 1943, il prof. Joseph S. Salemi riporta anche un particolare agghiacciante: "My father remembers, in particular, that one child of about twelve or thirteen years of age received a .45 round directly in the stomach. The child did not die at once, but cried out in the Sicilian dialect several times, C'haiu na bodda ntu stummachu! C'haiu na bodda ntu stummachu!", cioè "mio padre ricorda, in particolare, che un bambino di circa dodici o tredici anni ricevette un colpo di rivoltella direttamente nello stomaco. Il bambino non morì subito, ma si mise a gridare più volte in dialetto siciliano che aveva una pallottola nello stomaco".
In seguito a ricerche effettuate, si è potuto constatare che non esiste nei documenti ufficiali nessun nome di ragazzino scomparso per ferite mortali in quel 14 luglio o nei giorni seguenti. Si legge, però, nel registro dell'Ospedale Civile il nome di una scolaretta di undici anni, ricoverata proprio in quel giorno e spentasi il 20 successivo. Forse potrebbe essere questa la più piccola creatura, la vittima più innocente di quella strage del tenente colonnello dell'AMGOT. Con questa bambina i morti della Saponeria Narbone-Garilli salirebbero a otto. Tra le vittime di cui si ha certezza il più giovane aveva ventidue anni ed era di professione contadino. Egli, ferito mortalmente, venne ricoverato nell'Ospedale "Barone Lombardo", dove si spense l'indomani, 15 luglio, alle ore quattordici. Il più anziano ne aveva cinquanta ed era un venditore ambulante di frutta e verdura, molto noto a Canicattì.
Delle vittime si conoscono i nomi, come anche del tenente colonnello, autore della strage, il quale è scomparso ormai da tanti anni. Egli, come risulta dai documenti dell'Archivio Nazionale degli USA, nella relazione che fece ai suoi superiori, alterò la realtà, riferendo che, mentre andava in giro con un plotone di soldati, aveva visto dei saccheggiatori alla Saponeria e aveva loro intimato di fermarsi, ma erano fuggiti, e lui allora aveva sparato, sicché: "Six men were killed. Some of those who escaped may have been wounded", che vuol dire: "Sei uomini furono uccisi. Alcuni di quelli che fuggirono possono essere stati feriti".
Di questa strage avvenuta a Canicattì si parla in un recentissimo libro pubblicato negli Stati Uniti da Stanley P. Hirshson, intitolato General Patton – A Soldier's Life, New York, 2002. A pagina 379 si legge: "According to one American eyewitness, the lieutenant colonel fired twenty?one shots from his 45?caliber pistol point?blank into the crowd, whose members had entered the grounds through a hole in the factory wall and were guilty only of filling buckets with liquid soap from pits. After killing an unknown number of civilians, perhaps twenty?one, without provocation, the lieutenant colonel drove off ", cioè: "Secondo l'attestazione di un testimone oculare americano, il tenente colonnello sparò ventuno colpi dalla sua rivoltella calibro 45 sulla gente che era entrata attraverso un buco del muro della saponeria ed era colpevole soltanto di riempire dei secchielli di sapone liquido dalle fosse. Dopo avere ucciso un numero imprecisato di civili, forse ventuno, senza provocazione, il tenente colonnello andò via".
 
La ciociara è un libro, ma i numeri parlano di 60000 ciociare

"Per le truppe africane, la razzia degli animali e oggetti preziosi era la regola. Anche cercare donne veniva considerato un diritto dovuto in caso di vittoria. Eppure, al seguito del Cef c'erano prostitute berbere a disposizione per soddisfare le voglie dei soldati. Non bastavano: pastori, montanari o contadini avevano abitudini sessuali che non disdegnavano iniziazioni fisiche con animali, soprattutto pecore, e anche violenze e stupri sugli uomini. Per i goumiers la donna italiana era haggiala, vedova o prostituta. Le donne non vergini erano chiamate mtalqa, mentre quelle violentate, che venivano considerate subito da scartare o disprezzare, erano mfasda, che significa rotta. Più genericamente, quando parlavano delle donne che incontravano nel corso delle loro marce, i militari marocchini le chiamavano qahba. Puttane, per definizione. E allora non c'era nulla di male, dopo i combattimenti, a considerarle prede facili di cui disporre. Ritenevano fosse un loro diritto.

goumiers = gruppo
 
Alphonse Juin che il 14 maggio 1944 comunicò quanto segue alle sue truppe che si apprestavano a combattere per liberare parte dell'Italia del sud :

«Il vostro generale vi annuncia, vi promette solennemente, vi giura, sul suo onore di soldato e sulla bandiera della Francia, che si alza, per l'ultima volta, il sole sulle vostre sofferenze, sulle vostre privazioni, sulla vostra fame. Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c'è una terra larga... ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà. Per 50 ore. E potrete avere tutto, prendere tutto, distruggere o portare via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritato».

''La terra larga e ricca di donne'' era la provincia di Frosinone, le truppe marocchine inquadrate nell'esercito francese (i cosiddetti goumier) aprirono ai mezzi corazzati la via per Ceprano e Frosinone e risalirono, nella settimana successiva, la provincia fino alla valle dell'Amaseno e del Sacco, costringendo i tedeschi a una rovinosa ritirata per evitare l'accerchiamento.
Durante la loro travolgente avanzata, per circa due settimane, dal 15 maggio all'inizio di giugno, quasi dimezzate dalla resistenza tedesca (alla fine della battaglia i goumier erano ridotti a circa 7 mila), le truppe francesi si abbandonarono a una serie impressionante di saccheggi, omicidi e stupri in tutti i paesi conquistati, soprattutto contro gruppi ristretti di persone o individui isolati, finchè non fu loro ordinato di arrestare la marcia a Valmontone.
Il carattere sistematico delle violenze e la sostanziale acquiescenza di comandanti e ufficiali diffusero la convinzione della libertà di azione concessa ai soldati coloniali contro i civili, nonostante le sanzioni previste nei codici militari.
Una nota del 25 giugno del 1944 del comando generale dell'Arma dei Carabinieri dell'Italia liberata alla Presidenza del Consiglio, segnalava nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo, e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, 29 omicidi, 517 furti compiuti dai soldati marocchini, i quali «infuriarono contro quelle popolazioni terrorizzandole. Numerosissime donne, ragazze e bambine (...) vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate e incendiate».
Secondo un comunicato mai ascoltato dei Carabinieri del luogo :
«il 90% delle persone che hanno attraversato la zona di operazioni delle truppe marocchine sono state derubate di ogni loro avere, come anche molto alto è il numero delle donne violentate, e notevole anche il numero degli atti contro natura commessi a danno di uomini», ricordando che «molti casi vengono taciuti» .
I dati del Ministero degli Interni, raccolti pochi mesi dopo la liberazione, indicano in circa 3.100 le donne vittime delle violenze sessuali da parte delle truppe marocchine , ma si tratta di una stima nettamente inferiore al numero reale degli abusi.
Giovannina M., testimone intervistata, ormai novantenne che parla solo il dialetto locale, dei marocchini dice: <«Gli omene anziani che stavano con nui nun ce putevano soccorre pecchè loro erano assai e ammazzavano chili che difendevano le donne...C'erano gli graduati che erano bianchi, francisi e non gli dicevano (g)niente. Iemmo (andammo) a fa commedia agliu commando... ce dissero che per fa ì (andare) annanzi gli marocchi li avevano dovuti dà "carta bianca". Solo alla fine, dopo tre iuorni, gli tolsero sta carta bianca». «Arrivettero addò stavamo nui e con chisti ce stevano pure i francisi, chigli che gli cumannavano», aggiunge Concetta C. «E facettero stragi... Io c'avevo le mie cose, quando se ne accurgettero gli due che m'avevano sbattuta per terra s'alluntanarono (...). Sai quante vecchie so morte per gliu dolore...». La popolazione poté soltanto nascondersi, sperando di riuscire a sfuggire ai soldati: «La notte so arrivati chisti marocchini e hanno cominciato a bussare alle case... grida dappertutto nel paese. A casa nostra non hanno fatto niente pecché la seconda notte si è ristretta tutta la famiglia... abbiamo chiuso dentro con una varra (sbarra) dietro la porta, e così dopo tre giorni è passata la furia» >

Ho sentito parlare di questa pagina dimenticata per la prima volta in uno speciale televisivo notturno, sono rimasto inorridito da tutto ciò...e ancor di più schifato dai libri scolastici che non raccontano la sofferenza degna di Sodoma e Gomorra che ha colpito i nostri fratelli e sorelle italiani durante la guerra.
Il comando e il governo francese a 60 anni di distanza ovviamente,si rifiutano di aprire li archivi di stato che permetterebbero di rendere,seppur in minima parte, giustizia...il nostro paese non ha difeso e non difende i suoi cittadini...restano a testimoniare questi fatti incredibili solo pochi vecchi e qualche documento delle inermi forza dell'ordine...ancora una volta non chiedo di fare revisionismo, ma giustizia!

per le fonti storiche e i documenti ufficiali StoriaLibera.it
 
73 anni fa: il terrore!

22 luglio 1943, circa 8000 foggiani perirono sotto il primo e devastante bombardamento della città da parte degli inglesi. Alla fine del 1943 i morti furono circa 21000, ma la cifra è approssimata per difetto, un conteggio serio non si è voluto mai effettuare.

Medaglia d'oro al valor militare
Cenni storici e normativa dell'onorificenza

Data del conferimento: 02/05/2006

motivazione:

In occasione dei devastanti attacchi e bombardamenti aerei del 22 luglio e del 19 agosto 1943, la popolazione della città di Foggia seppe dare sublime testimonianza di coraggio e di altruismo allorchè, con spregio del gravissimo pericolo della vita in atto, suoi figli civili e militarizzati seppero tra immani difficoltà impedire che i rovinosi incendi fossero portati a conseguenze più gravi e le vittime moltiplicassero, prodigandosi, mentre gli spezzoni venivano ancora furiosamente lanciati, oltre che nei soccorsi, nel sottrarre con lucida e provvida determinazione a ulteriori deflagrazioni e distruzioni i convogli ferroviari carichi di munizioni. Successivamente, nonostante quelle indicibili sofferenze e pesanti distruzioni, altri suoi figli trovarono la forza di opporsi in armi al nemico ostacolando, con rinnovato vigore, la manovra in ritirata delle truppe tedesche nei sobborghi della città, ormai sepolta sotto le macerie. Foggia, luglio - settembre 1943



Forse qualcuno al Quirinale doveva essere più celere e più chiaro, chi bombardò Foggia non parlava la lingua di Goethe, ma quella di Shakespeare.
 
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