Wow... ero convinta che fosse già presente, e invece tocca a me l’onore di aprire la discussione su quest'opera breve ma di grandissimo interesse!
Più che un romanzo unitario, l'opera è articolata in cinque storie (Bela- Maksim Maksimyć- Tamàn’- La principessina Mary- Il fatalista) incentrate sulla figura cupa e affascinante di Peĉόrin, ufficiale russo in servizio nel Caucaso. La cosa più interessante dal punto di vista stilistico è il mutarsi continuo dell’io narrante, che si avvicina progressivamente all’oggetto narrato fino a identificarsi con esso (Peĉόrin si racconta in prima persona attraverso le pagine di un diario). Questo modo di procedere suscita in noi che leggiamo un interesse sempre maggiore: quanto più ci avviciniamo al protagonista, tanto più ci sentiamo attratti da lui, desiderosi di comprendere la sua anima.
Riporto da Wikipedia non la trama completa, ma una sintesi di poche righe:
"La storia del protagonista è quella di un uomo dai buoni sentimenti, che la società e il destino hanno in qualche modo deformato e alla fine in lui prevalgono lo scetticismo e una visione pessimistica della vita che si tramutano in uno spirito di vendetta, su innocenti e colpevoli."
In realtà, non sono del tutto d’accordo con quanto scritto: non credo infatti che il personaggio ritratto da Lermontov sia un “buono degenerato”, così come non credo che alla fine egli diventi intenzionalmente “cattivo”. Anzi, credo che l'autore non si sia neanche posto il problema di giudicare (o di far giudicare a noi) la natura morale del protagonista; ciò che gli interessa non è tanto l’interiorità di Peĉόrin fine a se stessa, quanto il suo rapporto con gli altri personaggi, sui quali sembra esercitare un forte ascendente. Che si tratti di pseudo-amici (come Maksim Maksimyć o il dottor Wèrner), nemici dichiarati (Gruŝnìckij), donne amate (Vera o Bela) o oggetti di un cinico divertimento (la principessina Mary), il protagonista si pone nei confronti degli altri quasi fossero “burattini” nelle sue mani.
Come ci riesce? Perchè lo fa? La risposta potrebbe essere la medesima: perchè lui non si interessa veramente di niente e di nessuno, forse neanche di se stesso: non ama, non odia davvero, le passioni nella sua vita hanno lasciato il posto a una fredda razionalità.
Lui stesso ammette che a guidare le sue azioni è la noia (un termine che usa spesso a “giustificazione” della propria condotta) e che in lui esiste un doppio “io”: uno che vive e uno che guarda e giudica. É questo “secondo io” l'autore di alcune lucide riflessioni che costituiscono le pagine più belle del romanzo: con uno stile asciutto, limpido e assolutamente privo di qualsiasi forma di retorica o autocommiserazione, il protagonista analizza se stesso, cercando invano le ragioni del proprio comportamento, e finisce persino per credersi schiavo di una sorta di “fatalismo al rovescio”, che lo costringe a essere lo strumento crudele e risolutivo dei destini altrui. Queste pagine, di grande introspezione, trovano spazio all’interno della storia La principessina Mary, vero “cuore” del romanzo, ma sono in qualche modo anticipate dal discorso che l'ufficiale fa a Maksim Maksimyć in Bela: “la mia anima è stata rovinata dal gran mondo, ho un’immaginazione irrequieta, un cuore insaziabile; nulla mi soddisfa: mi abituo con altrettanta facilità alla tristezza che al piacere, e di giorno in giorno la mia vita diventa sempre più vuota.”
Trovo che questi passaggi, nei quali il protagonista si "confessa" a un estraneo, siano molto interessanti. A un certo punto, rivolgendosi alla principessina nel corso del suo ipocrita corteggiamento, Peĉόrin descrive se stesso come un uomo originariamente “buono” che l'incomprensione degli altri e una serie di circostanze hanno trasformato in una persona priva di sentimenti e di scrupoli (interpretazione sulla quale, come ho scritto sopra, ho qualche riserva). Bè, la mia personale impressione è che persino qui, laddove sembra che il protagonista ceda a un sincero slancio emotivo, persista comunque un intento velatamente canzonatorio. Leggendo questa confessione così ardente (sembra quasi l’invocazione disperata di chi voglia essere finalmente compreso) rivolta a una fanciulla di cui dichiaratamente poco gli importa, risulta difficile capire se si tratti di una vera apertura del cuore o piuttosto di un ennesimo tentativo di soddisfare il proprio orgoglio, dominando i sentimenti altrui.
Quale che sia la “verità”, alla fine credo che sia proprio l’ambiguità della natura di Peĉόrin, che non viene mai del tutto spiegata o dissolta, a renderlo un personaggio così affascinante e attuale, un “eroe” non solo del “suo” tempo, ma anche del “nostro”.
Consigliatissimo!
Più che un romanzo unitario, l'opera è articolata in cinque storie (Bela- Maksim Maksimyć- Tamàn’- La principessina Mary- Il fatalista) incentrate sulla figura cupa e affascinante di Peĉόrin, ufficiale russo in servizio nel Caucaso. La cosa più interessante dal punto di vista stilistico è il mutarsi continuo dell’io narrante, che si avvicina progressivamente all’oggetto narrato fino a identificarsi con esso (Peĉόrin si racconta in prima persona attraverso le pagine di un diario). Questo modo di procedere suscita in noi che leggiamo un interesse sempre maggiore: quanto più ci avviciniamo al protagonista, tanto più ci sentiamo attratti da lui, desiderosi di comprendere la sua anima.
Riporto da Wikipedia non la trama completa, ma una sintesi di poche righe:
"La storia del protagonista è quella di un uomo dai buoni sentimenti, che la società e il destino hanno in qualche modo deformato e alla fine in lui prevalgono lo scetticismo e una visione pessimistica della vita che si tramutano in uno spirito di vendetta, su innocenti e colpevoli."
In realtà, non sono del tutto d’accordo con quanto scritto: non credo infatti che il personaggio ritratto da Lermontov sia un “buono degenerato”, così come non credo che alla fine egli diventi intenzionalmente “cattivo”. Anzi, credo che l'autore non si sia neanche posto il problema di giudicare (o di far giudicare a noi) la natura morale del protagonista; ciò che gli interessa non è tanto l’interiorità di Peĉόrin fine a se stessa, quanto il suo rapporto con gli altri personaggi, sui quali sembra esercitare un forte ascendente. Che si tratti di pseudo-amici (come Maksim Maksimyć o il dottor Wèrner), nemici dichiarati (Gruŝnìckij), donne amate (Vera o Bela) o oggetti di un cinico divertimento (la principessina Mary), il protagonista si pone nei confronti degli altri quasi fossero “burattini” nelle sue mani.
Come ci riesce? Perchè lo fa? La risposta potrebbe essere la medesima: perchè lui non si interessa veramente di niente e di nessuno, forse neanche di se stesso: non ama, non odia davvero, le passioni nella sua vita hanno lasciato il posto a una fredda razionalità.
Lui stesso ammette che a guidare le sue azioni è la noia (un termine che usa spesso a “giustificazione” della propria condotta) e che in lui esiste un doppio “io”: uno che vive e uno che guarda e giudica. É questo “secondo io” l'autore di alcune lucide riflessioni che costituiscono le pagine più belle del romanzo: con uno stile asciutto, limpido e assolutamente privo di qualsiasi forma di retorica o autocommiserazione, il protagonista analizza se stesso, cercando invano le ragioni del proprio comportamento, e finisce persino per credersi schiavo di una sorta di “fatalismo al rovescio”, che lo costringe a essere lo strumento crudele e risolutivo dei destini altrui. Queste pagine, di grande introspezione, trovano spazio all’interno della storia La principessina Mary, vero “cuore” del romanzo, ma sono in qualche modo anticipate dal discorso che l'ufficiale fa a Maksim Maksimyć in Bela: “la mia anima è stata rovinata dal gran mondo, ho un’immaginazione irrequieta, un cuore insaziabile; nulla mi soddisfa: mi abituo con altrettanta facilità alla tristezza che al piacere, e di giorno in giorno la mia vita diventa sempre più vuota.”
Trovo che questi passaggi, nei quali il protagonista si "confessa" a un estraneo, siano molto interessanti. A un certo punto, rivolgendosi alla principessina nel corso del suo ipocrita corteggiamento, Peĉόrin descrive se stesso come un uomo originariamente “buono” che l'incomprensione degli altri e una serie di circostanze hanno trasformato in una persona priva di sentimenti e di scrupoli (interpretazione sulla quale, come ho scritto sopra, ho qualche riserva). Bè, la mia personale impressione è che persino qui, laddove sembra che il protagonista ceda a un sincero slancio emotivo, persista comunque un intento velatamente canzonatorio. Leggendo questa confessione così ardente (sembra quasi l’invocazione disperata di chi voglia essere finalmente compreso) rivolta a una fanciulla di cui dichiaratamente poco gli importa, risulta difficile capire se si tratti di una vera apertura del cuore o piuttosto di un ennesimo tentativo di soddisfare il proprio orgoglio, dominando i sentimenti altrui.
Quale che sia la “verità”, alla fine credo che sia proprio l’ambiguità della natura di Peĉόrin, che non viene mai del tutto spiegata o dissolta, a renderlo un personaggio così affascinante e attuale, un “eroe” non solo del “suo” tempo, ma anche del “nostro”.
Consigliatissimo!
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