Un’altra bella prova per un autore che mi aveva già convinto con un romanzo che resta (per me) tuttora insuperato, Le lacrime di Nietsche.
Ancora una volta due personaggi reali, storici, qui appartenenti a due diversi mondi ed epoche, con nessun apparente punto di contatto fra loro: il filosofo ebreo olandese Bento Spinoza (XVII secolo) e il teorico nazista Alfred Rosenberg; ancora una volta un intreccio inventato, necessariamente virtuale (dato l’evidente “salto” temporale), ma verosimile. Ancora una volta, al centro degli interessi di Yalom, psichiatra prima che scrittore, esplorare la mente dell’uomo e in particolare, appunto, di alcuni personaggi realmente esistiti che, in un modo o nell’altro, hanno cambiato le sorti della storia e dell’umanità.
Le ragioni che mi hanno tenuto incollata, per poco più di una settimana, alle oltre 400 pagine di questo romanzo sono diverse: prime fra tutte la trama indubbiamente avvincente. La sola (ri)scoperta della vita e del pensiero di Spinoza – in una forma chiaramente molto più romanzata e accattivante, ma non per questo priva di fondamento, anzi – è stata una vera rivelazione: non si può non restare conquistati da quest’uomo che in un’epoca e in una condizione (quella di ebreo, quindi per certi versi ancora più soggetto rispetto ad altri a un sistema rigido, dogmatico e a volte dominato dalla superstizione) decisamente difficili, ha avuto il coraggio di affermare il valore della razionalità al di sopra di qualsiasi imposizione politica e religiosa. Una lezione difficile allora (che infatti gli è costata la perdita della propria identità di ebreo e delle relazioni con la propria comunità) e difficile ancora oggi, in un’epoca che crediamo votata alla libertà e alla “ragione” e che invece ci vede (tutti, non solo determinati popoli e culture) schiavi dei nostri pregiudizi e delle nostre passioni.
In particolare, Spinoza – probabilmente proprio a causa delle sue origini – si è scagliato con grande fermezza contro l’ebraismo e, idealmente, contro qualsiasi religione che ingabbi e inganni l’uomo impedendogli di usare la propria testa alla ricerca della verità. Ho apprezzato molto tutto questo sebbene, come credente, sia stato difficile per me accettare totalmente la radicalità delle sue posizioni (soprattutto rispetto alla natura della mia fede, quella cattolica, che secondo me presenta delle differenze sostanziali, ma mi fermo qui o rischierei di andare off topic!). Allo stesso tempo, però, non credo che il valore e l’interesse di questo romanzo si esauriscano nell’indubbia forza della filosofia spinoziana.
Continuo volutamente a tralasciare tutto il capitolo “Rosenberg” (e la pur brillante e interessantissima analisi psichica della sua vita, che costituisce l’altra metà del romanzo, altrettanto affascinante e ricca di spunti) per concentrarmi sul filosofo olandese. Dicevo che l’apporto di Spinoza nella storia della filosofia e del pensiero occidentale sono innegabili, io stessa non ne ricordavo la portata e i risvolti, e per più metà di romanzo mi sono chiesta per quale motivo, nonostante siano trascorsi quasi quattro secoli (ma molti di più, se pensiamo al suo “maestro” Epicuro), non riusciamo ancora a fare nostri i concetti di ataraxia – libertà dalle passioni –, di ricerca e identificazione della felicità con qualcosa di immutabile ed eterno (non necessariamente Dio, se non quando si identifica in Lui la Natura intera), di fiducia nella forza della propria mente e della propria innata capacità di discernimento... per poi rendermi conto che neppure la “ragione” invocata dal grande filosofo spiega tutto.
Una prima percezione di ciò l'ho avuta fin dall’inizio, quando Spinoza espone la sua teoria del determinismo, un qualcosa contro cui quasi istintivamente mi sono ribellata, io che (come tutti, ma ancora di più per carattere) sono pensiero e istinto, razionalità (o almeno ci provo!) ma anche tanta, tanta irrazionalità.
Andando avanti nella lettura, ho trovato nel romanzo stesso una sorta di conferma: la presa di coscienza di questa irriducibile dualità si afferma come una componente, se non fondamentale, comunque importante.
Ci farà i conti lo stesso Bento nel corso della sua vita; la rappresenta, in pagine che a mio avviso sono fra le più belle del libro, il suo amico-confidente inventato, Franco (l’unico personaggio, concordo con alcuni recensionisti, che per il suo intuito, la sua intelligenza, la sua maturità – benchè non abbia avuto lo stesso coraggio del suo esimio mentore di sfidare l’ordine costituito – risulta leggermente anacronistico e poco credibile; in lui, nel suo tentativo di conciliare, persino cedendo al "compromesso" una mente libera e una vita “rispettabile”, mi sono totalmente identificata); la dimostra, purtroppo, la lucida follia di Rosenberg, che pur non capacitandosi del “problema Spinoza” soccombe alla propria “malattia” con i risultati catastrofici che tutti conosciamo.
Be’, devo ammettere che se fin oltre metà romanzo, per quanto mi stesse piacendo ho avuto qualche piccola riserva, non tanto sullo stile e il ritmo narrativo – impeccabili –, ma su una certa “univocità” di messaggio (una critica, pur corretta, a qualsiasi dottrina e sistema imposti dall’alto), verso la fine mi è sembrato di ritrovare lo Yalom de Le lacrime di Nietsche (che, ripeto, personalmente considero un romanzo ancora più riuscito): complesso, per certi versi irrisolto, ma vero, intenso, completo.
Consigliatissimo. :wink: