Sepulveda, Luis - Un nome da Torero

Meri

Viôt di viodi
Berlino, seconda guerra mondiale: una collezione di antiche e preziosissime monete d'oro scompare dai forzieri della Gestapo. Cinquant'anni dopo, in una Berlino ormai liberata dal Muro, un ex guerrigliero cileno dal passato complicato, e che porta il nome di un famoso torero, Belmonte, viene incaricato da una compagnia di assicurazioni di ritrovare il tesoro della Collezione della Mezzaluna Errante. Ma c'è anche qualcun altro interessato a quelle monete: in quella stessa Berlino un ufficiale dei servizi segreti della Germania Est riceve lo stesso incarico. Comincia così per l'ignaro Belmonte un duro inseguimento che dall'Europa lo porterà fino alla Terra del Fuoco.(Ibs)

Mi piace molto come scrive Sepulveda e anche questo romanzo conferma la mia passione.
 

ayuthaya

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Mi piacerebbe commentare questo romanzo ripercorrendo passo dopo passo le impressioni ricevute durante la lettura.
La prima è stata di sicuro la sorpresa: non mi aspettavo che l'autore di romanzi come Il vecchio che leggeva romanzi d'amore e Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (giusto per citare i due che mi risulta di aver letto, di cui però ricordo ben poco) potesse essere l'artefice di un linguaggio così colorito, “aggressivo”, a tratti volgare. Non che questo mi sia dispiaciuto, anzi, l'ho trovato assolutamente coerente con i personaggi e con la storia, la quale si presenta come un noir o una spy-story.
Secondo elemento: il passare, capitolo dopo capitolo, da un personaggio all'altro, cambiando ogni volta ambientazione geografica e riferimento storico; ogni scena, ogni situazione mi è parso avessero l'esatto scopo di presentarmi il relativo personaggio. Ho avuto l'impressione che l'autore, da bravo stratega, stesse posizionando le proprie pedine, per cui da un momento all'altro mi aspettavo l'inizio della storia vera e propria: la “caccia” al tesoro rubato (visto che non lo faccio quasi mai, stavolta mi concedo questa parentesi: il romanzo racconta appunto di un “tesoro” – una collezione di monete d'oro di altissimo valore – prelevata durante la seconda guerra mondiale da due nazisti intenzionati a disertare e del tentativo, cinquant'anni dopo, di recuperare queste monete da parte di altri soggetti interessati...).
Ma più aspettavo, più il continuo procrastinare di questa “partita” mi lasciava perplessa: nonostante avessi superato la metà del libro, niente si profilava all'orizzonte. In compenso, il moltiplicarsi di riferimenti storici e politici: guerriglieri sudamericani arruolati in più parti del mondo per sostenere la rivoluzione, movimento sandinista, Brigate internazionali Simòn Bolivar, Stasi, GAP... quanto basta per mettere in crisi una che, come me, non si intende molto di queste cose, ma allo stesso tempo per stimolarla a capirci qualcosina di più.
No, non sto divagando... o meglio, la mia prima impressione è che fosse Sepulveda a divagare: ma cosa c'entra il Nicaragua con questo romanzo ambientato in Germania e nella Terra del Fuoco? Perché soffermarsi a raccontare episodi della vita passata dei protagonisti anziché occuparsi del loro presente? Avevo persino iniziato a sollevare qualche riserva su questo modo “disordinato” di condurre la narrazione, quando mi sono resa conto che la “partita” per cui le “pedine” erano state schierate non era altro che un pretesto per raccontarci la vita di queste pedine... che probabilmente davvero erano state tali, per aver combattuto da eroi credendo in qualcosa che, quando il vento ha cambiato direzione, li ha abbandonati falliti e perdenti...
Questo uno dei passaggi che mi ha colpito di più: “Per quarant'anni ci siamo nutriti di spazzatura, ci siamo vestiti di stracci, abbiamo scopato con gonorroiche e abbiamo avuto figli cretini. Ma è finita, e adesso, in cambio della nostra delazione, l'Occidente ci perdona, ci regime, ci infila in un utero climatizzato, i nostri cordoni ombelicali vengono collegati a una lattina di Coca Cola, e subito ci espelle attraverso la vagina della signora Mercedes Benz.” E ancora, più avanti: “Forse quel tizio aveva fatto parte della sua carriera in prigioni che non erano mai esistite o di cui era impossibile l'indirizzo, interrogando donne, vecchi, adulti e bambini che non erano mai stati arrestati e di cui era impossibile ricordare i volti, perchè quando la democrazia ha allargato le gambe in modo che il Cile potesse entrare, ha detto prima il prezzo, e la valuta in cui si è fatta pagare si chiama oblio.
Sono parole molto forti, che ci ricordano come in qualsiasi epoca e in qualsiasi luogo la Storia è scritta dai vincitori e chi sale sul loro carro, anche tradendo i propri ideali, è destinato a ricevere tutti gli onori. Ma è altrettanto vero è che in questo romanzo, che è una battaglia di tutti contro tutti, i veri “vincitori” sono quelli sanno perdere, perchè – come scrive Ulrich al suo amico di una vita – “perdere è una questione di metodo”.
Quando ho capito questo, mi sono resa conto di avere fra le mani magari non un capolavoro ma comunque un libro bellissimo e un autore che forse finora avevo sottovalutato un po', e mi sono buttata nella lettura delle pagine finali – quelle della “partita” vera e propria – più che mai curiosa di sapere come sarebbe andata a finire.
 
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