Claudio Magris ricostruisce in questo breve ma intenso romanzo la storia di un’amicizia che va oltre la morte: quella tra Carlo Michelstaedter, l’intellettuale e poeta goriziano morto suicida a 23 anni, e Enrico Mreule, compagno di studi e fratello nel pensiero. L’azione comincia nel 1909 quando Enrico parte per la Patagonia alla ricerca di una vita che fosse fatta di nulla, di puro esistere nella persuasione, nella pienezza dell’istante presente e liberi da ogni rettorica, ovvero da ogni scopo, ideale o sogno. Esattamente il modello di esistenza, l’unica possibile che sia veramente piena, teorizzata dall’amico nel suo capolavoro La persuasione e la rettorica, concepito nelle lunghe ore trascorse insieme nella soffitta dell’amico Nino Salvaneschi discutendo e leggendo i classici greci e latini e i capolavori della filosofia tedesca, in quel luogo di incontro tra culture che è la Gorizia tardo asburgica. Enrico parte proprio alla ricerca del vuoto, con il disagio di sentirsi involontariamente l’erede e testimone di una verità che appartiene all’amico: lui, dal canto suo, null’altro cerca che l’oblio, null’altro vuole che scomparire, annientarsi tra le distese immobili e sempre uguali dell’Oceano, così simile e così diverso da quell’altro mare, il mare istriano di un’estate abbacinante di quiete e di splendore vissuta assieme ai tre amici e a tre donne, simbolo di una femminilità piena e al tempo stesso inarrivabile, quasi tre mitiche sirene, Fulvia, Argia e Paula, la sorella di Carlo, l’unica che Enrico avrebbe potuto veramente amare.
In Patagonia Enrico fa il gaucho, negli spazi dilatati e solitari della natura selvatica, libero da bisogni se non quelli essenziali del corpo e solo con se stesso: “Non conta i giorni né le settimane, calcola il tempo secondo unità più elastiche e labili, la prima folata di nevischio, lo scolorire dell’erba, il periodo dell’accoppiamento del guanaco”. Qui lo raggiunge, con un anno di ritardo, la notizia della morte di Carlo, suicida proprio con la pistola che Enrico gli aveva lasciato partendo. Piegato due volte dallo scorbuto, Enrico decide infine di tornare a Gorizia nel ‘22, senza riuscire però a rientrare nella vita della città, dove tante sono già scomparsi, morti combattendo tra gli italiani o tra gli austriaci o partiti, per sfuggire alla nascente minaccia fascista. Si rifugia allora a Salvore, sulla costa istriana, consumando il resto della sua vita nella ricerca dell’oblio e nella progressiva privazione da ogni desiderio (“La vita … non è un bene di cui si gode, mentre del dolore si soffre. E’ il volere, il desiderio che consuma l’essere”), se non la vicinanza ignara del mare: anche il ricordo di Carlo e la sollecitazione a rendergli testimonianza gli appaiono un eccesso di determinazione: “Ma forse bisogna estinguere non solo la vanità di successo bensì ogni volere, pure la volontà del bene che sorrideva in quegli occhi scuri, pure l’esigenza del valore, perché ogni esigenza incalza e brucia il presente …[…] Anzi anche il mare è troppo, perché gli rilancia la grande promessa di felicità e la grande ricerca di significato, che – come ogni ricerca- soffoca la felicità. Meglio la terra, torpida sotto il piede”.
Un romanzo non facile, ma intenso, in cui le parole suonano e dipingono, come sempre quelle di Magris, capaci di costruire una sinfonia anche sulla più esile traccia narrativa.
In Patagonia Enrico fa il gaucho, negli spazi dilatati e solitari della natura selvatica, libero da bisogni se non quelli essenziali del corpo e solo con se stesso: “Non conta i giorni né le settimane, calcola il tempo secondo unità più elastiche e labili, la prima folata di nevischio, lo scolorire dell’erba, il periodo dell’accoppiamento del guanaco”. Qui lo raggiunge, con un anno di ritardo, la notizia della morte di Carlo, suicida proprio con la pistola che Enrico gli aveva lasciato partendo. Piegato due volte dallo scorbuto, Enrico decide infine di tornare a Gorizia nel ‘22, senza riuscire però a rientrare nella vita della città, dove tante sono già scomparsi, morti combattendo tra gli italiani o tra gli austriaci o partiti, per sfuggire alla nascente minaccia fascista. Si rifugia allora a Salvore, sulla costa istriana, consumando il resto della sua vita nella ricerca dell’oblio e nella progressiva privazione da ogni desiderio (“La vita … non è un bene di cui si gode, mentre del dolore si soffre. E’ il volere, il desiderio che consuma l’essere”), se non la vicinanza ignara del mare: anche il ricordo di Carlo e la sollecitazione a rendergli testimonianza gli appaiono un eccesso di determinazione: “Ma forse bisogna estinguere non solo la vanità di successo bensì ogni volere, pure la volontà del bene che sorrideva in quegli occhi scuri, pure l’esigenza del valore, perché ogni esigenza incalza e brucia il presente …[…] Anzi anche il mare è troppo, perché gli rilancia la grande promessa di felicità e la grande ricerca di significato, che – come ogni ricerca- soffoca la felicità. Meglio la terra, torpida sotto il piede”.
Un romanzo non facile, ma intenso, in cui le parole suonano e dipingono, come sempre quelle di Magris, capaci di costruire una sinfonia anche sulla più esile traccia narrativa.