Marco Scelbo
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Libro pervaso di malinconia, spesso desolata, di realismo poetico e di amara considerazione della realtà. La distanza tra il Giappone di inizio '900 e il mondo di oggigiorno viene annullata in questo capolavoro che mette a nudo il cuore e l'anima universale dell'uomo. Sono sempre più convinto che non esiste collocazione temporale per i capolavori che indagano le profondità umane.
Questi sono alcuni brani che mi sono piaciuti, anche se in verità ce ne sarebbero molti altri da condividere:
Il male di mio padre progredì a tal punto che la livida ombra della morte già nereggiava su di lui, e pareva solo che stesse incomprensibilmente attardandosi a ghermirlo. Ogni notte, andavamo a dormire pensando: «La morte attenderà un altro giorno, o sarà per stasera?»
Mettevo a confronto mio padre con il Maestro. Erano entrambi uomini schivi e riservati. Invero, erano talmente schivi che, per quanto interessasse al resto del mondo, avrebbero potuto anche essere morti. Erano, in un’ottica comune, persone assolutamente inutili, inconsistenti.
Nonostante il mio disprezzo per le donne, tuttavia, non riuscivo a rinvenire nel mio animo alcuna traccia, neppur minima, di dispregio verso la giovane fanciulla sotto il cui tetto abitavo. Sembrava che la ragione perdesse ogni dominio dinanzi a lei, e ogni logico favellare ammutolisse. Il mio amore per lei era prossimo alla devozione. Penserai che sia stravagante che io adoperi tale parola, avente una connotazione religiosa, per descrivere i miei sentimenti verso una donna. Tuttavia, anche ora, credo, e lo credo con assoluta fermezza, che il vero amore non sia poi così diverso dal trasporto religioso. Ogniqualvolta vedevo il viso della fanciulla, il tepore della sua bellezza pervadeva i miei sensi, trasfigurando in qualcosa di bello il mio stesso essere. Ogniqualvolta pensavo a lei, il contatto con la sua nobiltà elevava il mio spirito, conducendolo ad altezze per me inimmaginabili. Se questo indecifrabile fenomeno che noi chiamiamo amore può ritenersi costituito da due opposti poli, quello spirituale in grado di innalzare l’uomo alle celesti volte del divino, e quello materiale, che ne eccita unicamente la libidine dei corpi, allora il mio amore, senza dubbio alcuno, apparteneva al tipo più elevato. Non intendo dire che io non fossi come gli altri uomini. Anch’io ero assoggettato al dominio dei sensi. Eppure i miei occhi, nel mirarne la bellezza, e la mia mente, nel carezzare il pensiero di lei, erano puri da qualsiasi basso desiderio materiale.
In un diaccio e piovoso giorno di novembre, attraversando come d’abitudine i terreni circostanti il tempio di Konnyaku-Enma e inerpicandomi per la stretta viuzza che serpeggiava sino all’abitazione, rincasai con le vesti completamente zuppe di pioggia gelida e le membra rigide e intirizzite. K non si trovava nella sua camera; un bel fuoco, nondimeno, fiammeggiava nel braciere effondendo un piacevole tepore. Ansioso di scaldarmi al caldo respiro del fuoco che, indubbiamente, doveva essere stato accesso anche nella mia stanza, mi precipitai in camera. Tuttavia ad attendermi vi era unicamente un gelido buio. Pallide ceneri mi fissavano, laddove mi sarei aspettato di trovare l’allegra accoglienza di tizzoni roventi. Rimasi esterrefatto, tremando al contempo di freddo e di rabbia.
Questi sono alcuni brani che mi sono piaciuti, anche se in verità ce ne sarebbero molti altri da condividere:
Il male di mio padre progredì a tal punto che la livida ombra della morte già nereggiava su di lui, e pareva solo che stesse incomprensibilmente attardandosi a ghermirlo. Ogni notte, andavamo a dormire pensando: «La morte attenderà un altro giorno, o sarà per stasera?»
Mettevo a confronto mio padre con il Maestro. Erano entrambi uomini schivi e riservati. Invero, erano talmente schivi che, per quanto interessasse al resto del mondo, avrebbero potuto anche essere morti. Erano, in un’ottica comune, persone assolutamente inutili, inconsistenti.
Nonostante il mio disprezzo per le donne, tuttavia, non riuscivo a rinvenire nel mio animo alcuna traccia, neppur minima, di dispregio verso la giovane fanciulla sotto il cui tetto abitavo. Sembrava che la ragione perdesse ogni dominio dinanzi a lei, e ogni logico favellare ammutolisse. Il mio amore per lei era prossimo alla devozione. Penserai che sia stravagante che io adoperi tale parola, avente una connotazione religiosa, per descrivere i miei sentimenti verso una donna. Tuttavia, anche ora, credo, e lo credo con assoluta fermezza, che il vero amore non sia poi così diverso dal trasporto religioso. Ogniqualvolta vedevo il viso della fanciulla, il tepore della sua bellezza pervadeva i miei sensi, trasfigurando in qualcosa di bello il mio stesso essere. Ogniqualvolta pensavo a lei, il contatto con la sua nobiltà elevava il mio spirito, conducendolo ad altezze per me inimmaginabili. Se questo indecifrabile fenomeno che noi chiamiamo amore può ritenersi costituito da due opposti poli, quello spirituale in grado di innalzare l’uomo alle celesti volte del divino, e quello materiale, che ne eccita unicamente la libidine dei corpi, allora il mio amore, senza dubbio alcuno, apparteneva al tipo più elevato. Non intendo dire che io non fossi come gli altri uomini. Anch’io ero assoggettato al dominio dei sensi. Eppure i miei occhi, nel mirarne la bellezza, e la mia mente, nel carezzare il pensiero di lei, erano puri da qualsiasi basso desiderio materiale.
In un diaccio e piovoso giorno di novembre, attraversando come d’abitudine i terreni circostanti il tempio di Konnyaku-Enma e inerpicandomi per la stretta viuzza che serpeggiava sino all’abitazione, rincasai con le vesti completamente zuppe di pioggia gelida e le membra rigide e intirizzite. K non si trovava nella sua camera; un bel fuoco, nondimeno, fiammeggiava nel braciere effondendo un piacevole tepore. Ansioso di scaldarmi al caldo respiro del fuoco che, indubbiamente, doveva essere stato accesso anche nella mia stanza, mi precipitai in camera. Tuttavia ad attendermi vi era unicamente un gelido buio. Pallide ceneri mi fissavano, laddove mi sarei aspettato di trovare l’allegra accoglienza di tizzoni roventi. Rimasi esterrefatto, tremando al contempo di freddo e di rabbia.
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