Arendt, Hannah - La banalità del male

MadLuke

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All'apertura della Meeting di Rimini del 2007, nel corso della sua conferenza, Mons. Ventorino riprendeva a sua volta un brano dell'allora cardinale Ratzinger dal titolo "La coscienza nel tempo", che rileggeva e commentava una dichiarazione ufficiale di Hitler:
"Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza e morale, e dalle pretese di una libertà e autodeterminazione personale, di cui ben pochi possono essere all’altezza”.
La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza.


Nel libro l'autrice mostra "a caratteri cubitali" quanto questo disegno di Hitler di rimuovere qualunque traccia di coscienza dal suo popolo, fosse riuscito oltre ogni limite immaginabile e salvo estremamente rare eccezioni, avesse permeato ogni strato della popolazione, civile e militare, tra gli iscritti al Partito Nazionalsocialista e non. Si avvale per questo dell'emblematico caso di Adolf Eichmann, un modestissimo impiegatuccio ai tempi della grande crisi, che si arruola nelle SS (gli elitari reparti dell'esercito che giurano fedeltà espressamente al fuhrer), al solo scopo di trovare qualche sorta di scopo nella vita. Qui Eichmann inizia una folgorante carriera che lo porta a raggiungere presto il livello più alto di potere cui per le sue umili origini e preparazione culturale potesse ambire.
Con la stessa disinvoltura con cui all'inizio degli anni '30 Eichmann collaborava con le autorità ebraiche per rendere più celeri le procedure di emigrazione degli ebrei dalla Germania e Austria (peraltro a costo di autentici saccheggi di qualunque proprietà degli ebrei stessi), nel momento in cui gli viene comunicata (a seguito della conferenza di Wannase) la decisione di Hitler di liberarsi definitivamente e fisicamente di tutti gli ebrei in Europa, egli non ha il minimo indugio ad redigere le nuove procedure per la deportazioni di milioni di ebrei verso i campi di concentramento, compresi quelle persone con cui aveva collaborato fino a poco tempo prima. Nel corso del processo che fu istituito a suo carico, non esitò a dichiarare che avrebbe mandato a morire il suo stesso padre se a causa di un tradimento gli avessero ordinato di farlo. In realtà Eichmann, nello svolgimento delle sue mansioni, ci profuse un impegno e zelo che andavano anche oltre il dovere dell'obbedienza, lui desiderava essere ammirato, dal suo fuhrer in particolare, per l'efficienza che dimostrava nello svolgimento delle sue funzioni, qualunque esse fossero, altro non importava.
I numeri di quella tragedia bene o male abbiamo imparato tutti a conoscerli, fin dai tempi delle elementari, e i film di guerra o i documentari ci hanno mostrato anche le scene raccapriccianti cui dovettero assistere le truppe alleate man mano che liberavano i territori occupati.
Eppure il pericolo di scadere in mere analisi statistiche o sottovalutare quelle scene come fossero cose lontane da noi, semplicemente frutto di qualche truccatore, è ancora grande. Il grande potere evocativo del libro sta nel coinvolgere il lettore in quel processo che prese piede in Germania per cui l'avversione, l'umiliazione, lo spoglio dei propri beni, la deportazione e infine la tortura e la morte era semplicemente diventato "normale", presso ogni strato della popolazione.
Per far si che quei fatti non rimangano semplici parole scritte sulla carta, il lettore non può esimersi dal compiere uno sforzo d'immaginazione, che non riguardi certo le alte sfere del potere bensì i cittadini comuni... Un vicino di casa o un amico, qualcuno con cui ci si trovava per giocare a carte, che magari qualche volta si era anche invitato a cena in casa propria; un giorno senti per radio o dalla voce di alcuni volontari del partito, che gli ebrei sono sporchi, che sono la causa dei problemi della Germania, ecc. sicché immediatamente si smette di frequentare quelle persone; il messaggio assume un tono ulteriormente aggressivo: gli ebrei devono essere deportati, e tutti sono tenuti a collaborare. La popolazione quindi diligentemente si attiene alle disposizioni e segnala alla polizia qualunque ebreo di sua conoscenza, eventuali nascondigli ecc. Seppure in ritardo inizia giare voce di quale sia il destino degli ebrei, la soluzione "finale"... e tutto questo neanche lontanamente riesce a instillare il benché minimo turbamento. Tutto viene considerato assolutamente "normale", quand'anche qualcuno fosse stato anche colto dal dubbio "sarà giusto quello che sto facendo?", la domanda veniva immediatamente tacitata dallo spirito di obbedienza incondizionata alla legge, al fuhrer, allo Stato.
Probabilmente i più considereranno queste mie riflessioni già note e sentite, più e più volte, lo stesso era per me prima che leggessi questo libro. Eppure la candida precisione e chiarezza con cui l'autrice ha ripercorso quegli anni e i fatti che li caratterizzarono, più di una volta mi ha lasciato agghiacciato, mi ha fatto perdere mezzore di sonno, mi ha procurato un groppo in gola, per lo spaventoso abisso che a distanza di quasi settanta anni ancora mi si è spalancato davanti.

Verrebbe allora da pensare che va bene, furono anni tragici ma dopotutto ormai quei tempi sono passati ormai, ed eventi del genere certamente non si verificheranno più in futuro (è davvero difficilissimo riuscire a pensare altrimenti), per cui pure con tutta la dovuta commozione e affranto, val la pena metterci una pietra sopra e non pensarci più. Ma non è così, non per me.
In varia misura tutti assistiamo o addirittura siamo coinvolti in qualche modo nei grandi esodi delle popolazioni del sud del mondo o dall'est dell'Europa, chi può dire quanto il sentimento di razzismo che in misura anche minima non sia frutto dell'abdicazione del libero alla cultura dominante che i mass media diffondono?
Pur glissando temi sociali tanto complessi come quello dell'emigrazione, chi può dire di possedere un pensiero realmente "libero" nel giudicare i fatti di cronaca di cui sentiamo al telegiornale, o anche solo un pettegolezzo o maldicenza su un collega o un conoscente.
Ancora più banalmente chi può dire di non aver mai avuto una condotta scorretta alla guida, di aver mandato al diavolo qualcuno solo perché "quello è passato col rosso" o ancora più semplicemente perché "sono di fretta".
Eppure leggendo della sottile strategia con cui iniziarono quelle persecuzioni anni fa, scommetto non c'è nessuno che ora non direbbe "avrebbero dovuto ribellarsi, disobbedire, non prestarsi a quegli ordini", è naturale.

Dice ancora il cardinale Ratzinger:
La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà.

La "coscienza" è una facoltà dell'intelletto che richiede continuo esercizio di critica. La critica a sua volta non è uno sfoggio di cultura o di architetture filosofiche, o politiche, o religiose bensì un lavoro di costante verifica tra quanto ci è proposto di fare, sentire, dire, assistere, partecipare, ecc. e la corrispondenza con l'anelito del cuore di bellezza, di giustizia, di amore. Ad ogni proposta di sorta che riceviamo, è nostro diritto e dovere, per tutela della nostra umanità chiederci: potrei fare davvero io una cosa del genere, e se lo facessi potrei sentirmi ancora "uomo", potrei sentirmi in pace e in armonia, sarei più felice?
Questa continua critica e autoverifica credo sia la "barriera" di cui andava parlando l'attuale Papa Benedetto XVI, e a cui altrettanto bruscamente richiama l'autrice.
 

Grantenca

Well-known member
......
I numeri di quella tragedia bene o male abbiamo imparato tutti a conoscerli, fin dai tempi delle elementari, e i film di guerra o i documentari ci hanno mostrato anche le scene raccapriccianti cui dovettero assistere le truppe alleate man mano che liberavano i territori occupati.
Eppure il pericolo di scadere in mere analisi statistiche o sottovalutare quelle scene come fossero cose lontane da noi, semplicemente frutto di qualche truccatore, è ancora grande. Il grande potere evocativo del libro sta nel coinvolgere il lettore in quel processo che prese piede in Germania per cui l'avversione, l'umiliazione, lo spoglio dei propri beni, la deportazione e infine la tortura e la morte era semplicemente diventato "normale", presso ogni strato della popolazione.
Per far si che quei fatti non rimangano semplici parole scritte sulla carta, il lettore non può esimersi dal compiere uno sforzo d'immaginazione, che non riguardi certo le alte sfere del potere bensì i cittadini comuni... Un vicino di casa o un amico, qualcuno con cui ci si trovava per giocare a carte, che magari qualche volta si era anche invitato a cena in casa propria; un giorno senti per radio o dalla voce di alcuni volontari del partito, che gli ebrei sono sporchi, che sono la causa dei problemi della Germania, ecc. sicché immediatamente si smette di frequentare quelle persone; il messaggio assume un tono ulteriormente aggressivo: gli ebrei devono essere deportati, e tutti sono tenuti a collaborare. La popolazione quindi diligentemente si attiene alle disposizioni e segnala alla polizia qualunque ebreo di sua conoscenza, eventuali nascondigli ecc. Seppure in ritardo inizia giare voce di quale sia il destino degli ebrei, la soluzione "finale"... e tutto questo neanche lontanamente riesce a instillare il benché minimo turbamento. Tutto viene considerato assolutamente "normale", quand'anche qualcuno fosse stato anche colto dal dubbio "sarà giusto quello che sto facendo?", la domanda veniva immediatamente tacitata dallo spirito di obbedienza incondizionata alla legge, al fuhrer, allo Stato.
Probabilmente i più considereranno queste mie riflessioni già note e sentite, più e più volte, lo stesso era per me prima che leggessi questo libro. Eppure la candida precisione e chiarezza con cui l'autrice ha ripercorso quegli anni e i fatti che li caratterizzarono, più di una volta mi ha lasciato agghiacciato, mi ha fatto perdere mezzore di sonno, mi ha procurato un groppo in gola, per lo spaventoso abisso che a distanza di quasi settanta anni ancora mi si è spalancato davanti.
Condivido pienamente il tuo commento sul bel libro della Arendt. In effetti il grosso pericolo per questi fatti "storici" è che li si consideri ormai "storici", qualcosa avvenuto nel passato, seppur non troppo lontano, e che non può riguardare la società moderna. Non è così. In un determinato contesto sociale anche la persona più insignificante può assurgere a protagonista di azioni mostruose. Il pericolo più grande si nasconde nella ottusa mediocrità , abissale ignoranza e mancanza di coscienza umana e civile di gente che, anche nell'era moderna, può arrivare alle più alte cariche del potere.
 

ayuthaya

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Membro dello Staff
Uno dei pochi saggi che ho letto (almeno in tempi recenti), La banalità del male, di Hannah Arendt, è stata sicuramente una lettura complessa e, fin dalle sue premesse, tutt'altro che scontata.
Per prima cosa vorrei evidenziare che l'approccio della scrittrice - filosofa tedesca di origine ebraica – è incredibilmente lucido, coraggioso, scevro da ogni tipo di condizionamento politico, ideologico e religioso. È proprio il tipo di approccio che amo quando leggo un libro (anche un romanzo), seguo un dibattito, mi confronto con qualcuno... e cioè quello che alla fine mi porta non a confermare ciò che già credevo di sapere, ma al contrario a “deviare” dalle solite strade, a percorrerne di nuove... in poche parole: a guardare le cose da un altro punto di vista.
Anche solo per questa ragione, quest'opera merita il massimo della considerazione e rientra pienamente nella lista dei “must”.

Hannah Arendt non si pone nessun problema nel sottolineare, fin dalle primissime pagine, tutte le contraddizioni con cui si apre il processo Eichmann (per chi non lo sapesse, l’opera è il “resoconto ragionato” del processo svoltosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann, funzionario SS esperto in “questioni ebraiche” e “deportazioni”, e perciò considerato uno dei massimi responsabili della soluzione finale nella Seconda Guerra mondiale), a partire dall’impostazione “sbagliata” del processo stesso, quasi lo scopo non fosse quello di giudicare le azioni di un singolo uomo, bensì le sofferenze di un intero popolo.
La giustizia vuole che l’imputato sia processato, difeso e giudicato, e che tutte le altre questioni, anche se più importanti (“come è potuto accadere?” “perchè è accaduto?” “perchè gli ebrei?” “perchè i tedeschi?” “qual è stato il ruolo delle altre nazioni?”...) siano lasciate da parte”.

Ponendosi domande “scomode”, e non avendo paura di rispondere in modo altrettanto “scomodo”, la Arendt riesce a fare un po' di luce su questioni che altrimenti riterremmo troppo assurde, orrende, illogiche per poter essere anche solo discusse, figuriamoci “giudicate”... E invece il merito eccezionale di questa donna e di questo libro sta proprio nell’essere riuscita a deporre il Male del nazismo dal suo orrendo piedistallo, di avergli strappato quella macabra aurea che lo rendeva, e tuttora lo rende, inavvicinabile, impronunciabile, persino inconcepibile, per mostrarcelo invece in tutta la sua terrificante banalità.

È la banalità di uomo che in realtà ha commesso molto “meno” di quanto non gli si voglia attribuire durante il processo, un uomo le cui responsabilità furono non dico minime, ma inserite in quei complessi ingranaggi della burocrazia nazista per cui l'intera macchina alla fine sembra quasi muoversi da sé, in perfetta efficienza. Eichmann non è un “bruto”, meno che mai un “folle”... pur riconoscendo tante accuse, fino alla fine si rifiuterà persino di essere chiamato “assassino”. Egli non è niente di più di un funzionario di un sistema di morte contro cui quasi nessuno si sogna di ribellarsi, perchè – come scrive la Arendt con gran lucidità – “il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero essere tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa; e dovettero essere tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e diventarne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.”

È evidente che quanto più si limita il “potere” e quindi la responsabilità di quest'uomo, tanto più drammatico è il quadro che si delinea al suo posto (e credo che l'intento principale della scrittrice sia proprio questo). Allo stesso tempo, però, Eichmann non è un semplice esecutore di un volere altrui, come cerca a volte di farsi passare durante il processo... Non è un soldato il cui dovere è la cieca obbedienza verso i propri superiori. Vero è che la parola, anzi, la volontà di Hitler aveva valore non solo di legge ma di “legge dello Stato” (e, in quanto tale, non perseguibile perchè “completamente al di fuori del campo giuridico”), ma quel che è davvero grave è che Eichmann (e con lui qualsiasi “buon nazista”) prende su di sè la coscienza stessa del Fuhrer, facendo proprio l’imperativo categorico del Terzo Reich: “agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe.
Tutto questo a noi oggi sembra mostruoso, e lo è, ma ci spiega come mai per tutta la sua vita, quest’uomo ha adempiuto al suo “dovere” con uno “zelo” altrimenti ingiustificabile e come mai, nel farlo, non sia mai entrato in crisi.
Egli non aveva bisogno di chiudere gli orecchi per non ascoltare la voce della coscienza: non perchè non avesse una coscienza, ma perchè la sua coscienza gli parlava con una voce rispettabile, la voce rispettabile della società che lo circondava.”
Cosa c’è di più mostruoso di questo Male “rispettabile”, perpetrato non in modo disumano, ma “secondo coscienza”?

Un testo intelligente, preciso, a dispetto del titolo mai “banale”... un’esposizione chiara che calamita l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina e che ci mostra aspetti fondamentali, benché forse poco risaputi, di questa tragedia (uno fra tutti: il collaborazionismo da parte delle alte sfere ebraiche).
Un libro fondamentale per chiunque voglia andare al di là di ciò che “tutti sanno” (o credono di sapere).
 

Grantenca

Well-known member
Condivido pienamente il tuo commento sul bel libro della Arendt. In effetti il grosso pericolo per questi fatti "storici" è che li si consideri ormai "storici", qualcosa avvenuto nel passato, seppur non troppo lontano, e che non può riguardare la società moderna. Non è così. In un determinato contesto sociale anche la persona più insignificante può assurgere a protagonista di azioni mostruose. Il pericolo più grande si nasconde nella ottusa mediocrità , abissale ignoranza e mancanza di coscienza umana e civile di gente che, anche nell'era moderna, può arrivare alle più alte cariche del potere.

Condivido pienamente la tua idea che l'opinione pubblica corrente possa considerare "storici" questi fatti che invece, potenzialmente, sono ancora attualissimi. Invero è bellissimo e altamente significativo il titolo "la banalità del male" che già di per se dice molte cose. Da parte mia mi permetto di segnalare un'altra opera sull'argomento "In quelle tenebre" di Gitta Sereny, dove, a mio avviso "la banalità del male" è ancora più evidente.
 

MadLuke

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Qualcuno si ricorda, o ancora meglio, ha letto l'intervista a non ricordo quale filosofo che aveva disprezzato con grande veemenza la Harendt, perchè si era permesso di definire Eichmann "banale", negando così implicitamente che i nazisti fossero invece degli autentici signori del male, corrotti fino al midollo?

Ciao, MadLuke.
 

pitchblack

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Qualcuno si ricorda, o ancora meglio, ha letto l'intervista a non ricordo quale filosofo che aveva disprezzato con grande veemenza la Harendt, perchè si era permesso di definire Eichmann "banale", negando così implicitamente che i nazisti fossero invece degli autentici signori del male, corrotti fino al midollo?

Ciao, MadLuke.

Io non so chi sia questo filosofo, ma la banalità di cui parla la Harendt non è in funzione di una diminuzione di responsabilità dei nazisti. Ora devo disconnettermi e non posso articolare il discorso, ma il concetto che l'autrice vuole esprimere è ben diverso.
 

MadLuke

New member
Io non so chi sia questo filosofo, ma la banalità di cui parla la Harendt non è in funzione di una diminuzione di responsabilità dei nazisti. Ora devo disconnettermi e non posso articolare il discorso, ma il concetto che l'autrice vuole esprimere è ben diverso.

:-D Guarda che io il libro l'ho letto. Al limite queste cose dovresti dirle al suddetto filosofo ignoto, il quale però non sarà certamente uno stupido (a prescindere che si concordi con lui oppure no), per cui se ugualmente si è permesso di criticare la tesi della Harendt, avrà pur i suoi motivi... Di cui però io non ho letto approfonditamente, solo questo volevo dire, e per cui ho chiesto sopra.

Ciao, MadLuke.
 

pitchblack

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Ancora oggi la generazione di tedeschi che sta attorno ai 50 anni, cioè coloro i cui genitori hanno votato convintamente il partito nazionalsocialista negli anni '30, ha delle evidenti difficoltà a spiegare la ragione di certe prese di posizione. A distanza di 70 anni desta ancora inquetudine il fatto che il proprio padre o la propria madre fossero nazisti. Un attentato ontologico all'umanità non lo spieghi con la corruzione o attraverso il ricorso al demoniaco, come la comunità ebraica ha tentato di fare all'indomani della pubblicazione del lavoro della harendt. L'orrore che ci si spalanca davanti attraverso questa testimonianza, la quale ha oltretutto un grande valore letterario, sta nel fatto che persone in apparenza normalissime, padri che si prendono cura della moglie e dei figli, inserite in certi contesti, sono potenzialmente esecutori del terrore.
 

bouvard

Well-known member
Qualcuno si ricorda, o ancora meglio, ha letto l'intervista a non ricordo quale filosofo che aveva disprezzato con grande veemenza la Harendt, perchè si era permesso di definire Eichmann "banale", negando così implicitamente che i nazisti fossero invece degli autentici signori del male, corrotti fino al midollo?
Ciao, MadLuke.

Suppongo tu ti riferisca alla polemica con lo scrittore e filosofo Golo Mann (figlio di Thomas Mann). Non ho letto l'intervista, ma in effetti tutta quella polemica era ingiustificata, in quanto nacque da una errata interpretazione del concetto di "banalità" usato dalla Arendt, che non lo aveva affatto usato per sminuire le colpe e le atrocità commesse dai nazisti.
 

MadLuke

New member
Ancora oggi la generazione di tedeschi che sta attorno ai 50 anni, cioè coloro i cui genitori hanno votato convintamente il partito nazionalsocialista negli anni '30, ha delle evidenti difficoltà a spiegare la ragione di certe prese di posizione. A distanza di 70 anni desta ancora inquetudine il fatto che il proprio padre o la propria madre fossero nazisti. Un attentato ontologico all'umanità non lo spieghi con la corruzione o attraverso il ricorso al demoniaco, come la comunità ebraica ha tentato di fare all'indomani della pubblicazione del lavoro della harendt. L'orrore che ci si spalanca davanti attraverso questa testimonianza, la quale ha oltretutto un grande valore letterario, sta nel fatto che persone in apparenza normalissime, padri che si prendono cura della moglie e dei figli, inserite in certi contesti, sono potenzialmente esecutori del terrore.

Questo tuo post offre diversi spunti di riflessione. Un po' mi fa venir voglia di leggere alcuni discorsi che fece Adenauer, primo presidente della Germania federale dopo la guerra, e anche dell'allora prof. Ratzinger, sulle colpe del popolo e sulla clamorosa "fragilità" della coscienza collettiva tedesca del tempo.

Ciao, MadLuke.
 

bouvard

Well-known member
Nel leggere prima e poi nello scrivere un commento a questo libro mi sono trovata più volte in difficoltà. La prima difficoltà è stata innanzitutto il riuscire a dare il giusto significato alla lucidità, al rigore, all’imparzialità tenuti dalla Arendt per non incorrere nell’errore di scambiarli per freddezza e ridurre il libro ad una mera dissertazione filosofica. Essendo, infatti, la Arendt una persona di origine ebrea, quindi direttamente toccata dai fatti sotto processo, non ci si aspetterebbe da lei un atteggiamento tanto imparziale, scevro da pregiudizi, né tantomeno ci si aspetterebbe un tale autentico desiderio di capire, piuttosto si troverebbe comprensibile, e forse anche più “naturale”, sentirle pronunciare una condanna a priori verso uno di quegli uomini che fino a qualche decennio prima avrebbe avuto su di lei potere di vita o di morte. Invece sono proprio quella lucidità, e quel rigore ad impedirle di cadere nella facile trappola della “vendetta”, e a consentirle una ricerca imparziale della Verità.
Non a caso la Arendt non tace, anzi li sottolinea più volte, gli “errori” del Processo Eichmann. Ma perché – si potrebbe pensare – cercare degli “errori” in questo processo? Eichmann è colpevole, ed è giustamente processato per le sue evidenti colpe, quindi perché intestardirsi nel cercare degli “errori”? Perché mettere in discussione questo processo? Solo un nemico del popolo ebraico potrebbe non volere la condanna di Eichmann. E la Arendt non è nemica del suo popolo, infatti non si è mai espressa contro questa condanna, non ha mai ritenuto Eichmann innocente, semmai ha evidenziato la necessità – insistendoci su più e più volte – che si definisse adeguatamente il crimine commesso da Eichmann e dagli altri nazisti. Necessità questa tutt’altro che marginale o secondaria, dal momento che il Diritto stesso si era trovato impreparato – lo si era già visto durante il Processo di Norimberga – a definire e a giudicare i crimini nazisti.
“Crimine contro l’umanità” era la formula creata per indicare sia la vastità che l’atrocità di questi crimini, ma questa formula lasciava insolute alcune domande:
1) Come si può parlare di crimine quando la realtà stessa in cui si vive è satura di crimine, cioè quando è lo Stato stesso ad autorizzare il crimine?
2) Nei “crimini contro l’umanità” è possibile parlare di una “responsabilità personale”?
3) A chi tocca giudicare questo tipo di crimini?
Quest’ultimo punto fa capire perché la Arendt ha parlato di “errori” nel processo. Nel Processo di Gerusalemme, infatti le “vittime” (un tribunale ebreo) giudica l’antico “carnefice” (l’imputato tedesco) e questo è contrario a tutti i principi del diritto, perché va da sé che in questi casi l’imparzialità non è assicurata. Eichmann andava sicuramente processato e condannato, ma non da un tribunale ebreo, bensì da un Tribunale Internazionale, ecco ciò su cui la Arendt insiste in modo quasi ossessivo.
L’analisi dei primi due punti ha permesso, invece, alla Arendt di evidenziare tutta la “banalità” che si nasconde dietro il Male commesso dai nazisti. Il termine banalità ovviamente non viene usato per indicare inconsistenza o peggio insignificanza del Male, ma per indicare la mediocrità, la vuotezza che vi stava dietro. Dietro il Nazismo non ci sono menti brillanti, né Grandi Idee, ma solo ed unicamente persone mediocri (come appunto Eichmann), che con il loro zelo ottuso, con la loro incapacità di interrogarsi criticamente su quanto stava succedendo ne hanno permesso l’affermarsi. Può sembrare assurdo, ma forse sarebbe stato meglio scoprire che Eichmann era colpevole perché, pur essendo capace di distinguere tra Bene e Male, avesse scelto deliberatamente il Male, piuttosto che scoprire in lui un semplice esecutore delle decisioni altrui, un “burocrate” incapace di pensare con la propria testa, di avere delle proprie idee. Ecco in cosa consiste la “banalità” del Male, nel fatto che una delle tragedie più grandi della Storia è stata possibile non per la forza di uno Stato, non per la potenza delle sue idee, ma solo grazie ai tanti Eichmann che lo hanno sostenuto con la loro passività. La cosa che più spaventa in Eichmann è appunto la sua “normalità”, il fatto che sia una persona come tante, per cui ognuno avrebbe potuto essere un “Eichmann” e cosa ancor più grave tanti sono stati degli “Eichmann” senza neppure saperlo. Persino nel travisare l’imperativo categorico di Kant da parte di Eichmann non c’è intelligenza, ma solo un ribadire la sua cieca “obbedienza cadaverica” (come egli stesso la definì). Decisamente Eichmann non aveva capito niente, né della legge morale di Kant, né della sua filosofia, se pensava di poter trovare una giustificazione alla sua condotta in questo filosofo.
…i nazisti non avevano né gli uomini necessari, né il coraggio di restare “duri” quando urtavano un’opposizione decisa”, questo è apparso evidente in alcune occasioni con la Francia, ma soprattutto lo si è visto con la Danimarca. I Danesi sono stato l’unico Popolo a far fronte unito contro Hitler e le sue leggi razziali, e sono stati gli unici a vedere i tedeschi rinunciare alle loro richieste. Ed ecco il secondo punto del libro ad avermi messo in difficoltà. Quando la Arendt analizza il comportamento dei diversi Stati europei rispetto alle leggi razziali mi sono trovata in totale disaccordo con il suo atteggiamento “generoso” nei confronti dell’Italia. “Quello che in Danimarca fu il risultato di una profonda sensibilità politica, di un’innata comprensione dei doveri e delle responsabilità di una nazione che vuole essere veramente indipendente(…) in Italia fu il prodotto della generale spontanea umanità di un popolo di antica civiltà”. E’ vero l’Italia ha tardato ad applicare le leggi razziali e c’è stata poca collaborazione, ma non dimentichiamoci che 6.807 ebrei italiani vennero deportati e di questi ben pochi tornarono dai campi di sterminio. Avere meno responsabilità degli altri non vuol dire non avere alcuna responsabilità. Il comportamento dei Danesi va elogiato, ma il comportamento dell’Italia – per quanto meno grave di quello di altri Stati – va comunque criticato e condannato. Se un piccolo Stato quale la Danimarca è riuscita a tener testa alla nazione che in quel momento terrorizzava l’Europa, ed è riuscita a non avere ebrei sulla propria coscienza, a maggior ragione uno Stato come l’Italia – alleata della Germania – avrebbe dovuto tenerle testa e non avere a sua volta ebrei sulla coscienza. Sinceramente a fronte di questi morti le parole, quasi di elogio, della Arendt verso l’Italia mi hanno lasciata perplessa.
“Più d’uno, soprattutto nei circoli intellettuali, seguita a deplorare pubblicamente che la Germania costringesse Einstein a far fagotto, ma sembra che costoro non si rendano conto che delitto molto più grave fu uccidere il piccolo Hans Cohn, che abitava all’angolo, anche se non era un genio”.
 
Ultima modifica:

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Il processo doveva essere internazionale, su questo non ci sono dubbi.

Starei più attento, invece, a definire Eichmann come una sorta di ingranaggio inconsapevole.

Fu lui la mente (se di mente vogliamo parlare) della famosa soluzione finale approvata nella conferenza di Swannsee. Non aveva responsabilità dirigenziali nelle SS, questo è vero, ma fu l’ideatore e il responsabile dei modi del genocidio sotto le direttive di Himmler.

Questo dice la storia e questo dicono i documenti. A meno di non tirar fuori teorie complottiste o deviazioniste che, puntualmente, negano di tutto.

Eichmann era molto fiero di essere l’ esperto del “problema ebraico”. Disse che sapere di aver organizzato l’uccisione di cinque milioni di ebrei lo faceva sobbalzare di gioia. Stilò, lui, le liste numeriche degli uomini, delle donne e dei bambini da uccidere, paese per paese.

Al processo di Gerusalemme disse che lui organizzava solo i trasferimenti dai campi di concentramento ai campi di sterminio, senza sapere di preciso cosa avvenisse al loro interno. Insomma, era talmente sciocco, talmente inconsapevole, da non chiedersi nemmeno che fine facessero i corpi delle migliaia di persone che puntualmente varcavano i cancelli di Auschwitz. Non solo non si chiedeva dove andassero a finire gli uomini, le donne e i bambini, ma non collegò mai la sparizione dei corpi al fumo continuo delle “docce”. In pratica un perfetto idiota. Abilissimo nell'organizzare convogli, ma stupidissimo in tutto il resto.

In realtà, era talmente preso dall’organizzazione dello sterminio che, ad un certo punto, andò contro le direttive di Himmler stesso, in senso peggiorativo per noi, migliorativo per lui. In alcune occasioni, fece uccidere più persone di quante avrebbe dovuto.

Io credo che la Arendt immise astutamente nel sistema editoriale una vera e propria bomba; un'ebrea che in certo qual modo tentava di comprendere, quando vi era tutt'attorno odore di giustizialismo e vendetta.

Approfittò del fatto che Eichmann, al processo di Gerusalemme, si fece passare da stolto, fingendo, persino, di non capire le domande che gli venivano fatte.

La Arendt prese la palla al balzo per applicare un concetto astratto, nemmeno tanto originale, al caso specifico del momento. C’è sempre un meccanismo più grande di noi quando ci fa comodo.


Ovviamente è la mia opinione, nessuno può sapere per quale motivo abbia scritto questo che rimane, comunque, un buon libro, che so bene non giustifica nulla di ciò che ha fatto Eichmann.


E’ chiaro che di questo passo, però, dovremmo tentare di comprendere le motivazioni di assassini, mostri e genocidi. Basandoci su questa cosa del “sistema”, dovremmo essere indulgenti con gli stupratori perché la società ci propina donne succinte dalla mattina alla sera. Oppure, in più piccolo, perdonare gli arrivisti cha fanno carriera ai danni degli altri.

Io dico che Eichmann era un assassino consapevole e felice, ma anche che doveva essere giudicato da un tribunale internazionale. Credo che si possano sostenere le due tesi contemporaneamente senza sentirci, per un verso o per l’altro, in colpa.

E’ vero che il male è banale, ma io non riesco a capirlo lo stesso.

 

bouvard

Well-known member
Starei più attento, invece, a definire Eichmann come una sorta di ingranaggio inconsapevole.

Fu lui la mente (se di mente vogliamo parlare) della famosa soluzione finale approvata nella conferenza di Swannsee. Non aveva responsabilità dirigenziali nelle SS, questo è vero, ma fu l’ideatore e il responsabile dei modi del genocidio sotto le direttive di Himmler.

Questo dice la storia e questo dicono i documenti. A meno di non tirar fuori teorie complottiste o deviazioniste che, puntualmente, negano di tutto.


Sono perfettamente d'accordo con te sul fatto che Eichmann fosse più di quello che traspare dal libro. D'altronde ho detto che il libro mi ha messo in difficoltà in diversi punti, dicendo cose diverse da quelle che sapevo io :boh:
Visto che già così era venuto fuori un commento lunghissimo, alla fine ho taciuto sui miei dubbi sulla figura di Eichmann. Ma visto che me ne dai la possibilità dico che ho trovato quanto meno strano che prima Eichmann venga presentato come un mezzo ignorante, e poi si dica che leggesse Kant :? beh la filosofia di Kant non è proprio una lettura da spiaggia, perciò forse effettivamente era un uomo più complesso di quanto la Arendt lascia trasparire, o forse ancora più esattamente era più complesso di quanto egli stesso lasciava trasparire :boh:
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Sono perfettamente d'accordo con te sul fatto che Eichmann fosse più di quello che traspare dal libro. D'altronde ho detto che il libro mi ha messo in difficoltà in diversi punti, dicendo cose diverse da quelle che sapevo io :boh:
Visto che già così era venuto fuori un commento lunghissimo, alla fine ho taciuto sui miei dubbi sulla figura di Eichmann. Ma visto che me ne dai la possibilità dico che ho trovato quanto meno strano che prima Eichmann venga presentato come un mezzo ignorante, e poi si dica che leggesse Kant :? beh la filosofia di Kant non è proprio una lettura da spiaggia, perciò forse effettivamente era un uomo più complesso di quanto la Arendt lascia trasparire, o forse ancora più esattamente era più complesso di quanto egli stesso lasciava trasparire :boh:

Grazie per aver completato il mio commento. Avevo scritto anch'io della cosa di Kant, poi l ho cancellata perché mi stavo dilungando troppo...
 

c0c0timb0

Pensatore silenzioso 😂
:-D Guarda che io il libro l'ho letto. Al limite queste cose dovresti dirle al suddetto filosofo ignoto, il quale però non sarà certamente uno stupido (a prescindere che si concordi con lui oppure no), per cui se ugualmente si è permesso di criticare la tesi della Harendt, avrà pur i suoi motivi... Di cui però io non ho letto approfonditamente, solo questo volevo dire, e per cui ho chiesto sopra.

Ciao, MadLuke.
Pietro Genesini forse? Quello dello stupidario filosofico? So che ha scritto della Arendt ma credo impossibile un'intervista alla stessa...
Non ho letto il libro. Rimedierò; grazie ai vostri interessanti interventi.
 
Ultima modifica:

Monica

Active member
Ho trovato questi estratti del libro che ho già letti e che riassumono bene il pensiero della Arendt.

frasi-tratte-da-la-banalita-del-male-di-hannah-arendt


Quello che mi meraviglia è come abbia fatto una persona così intelligente come lei a lasciarsi abbagliare da quella che non fu altro che un abile strategia difensiva.Per fortuna la Corte non fu altrettanto ingenua.
 

MadLuke

New member
Quello che mi meraviglia è come abbia fatto una persona così intelligente come lei a lasciarsi abbagliare da quella che non fu altro che un abile strategia difensiva.Per fortuna la Corte non fu altrettanto ingenua.

Mi sbaglierò, ma secondo me si sottovalutà anche il fatto che la Harendt fosse ebrea, per cui a differenza dei cristiani che hanno diviso e quindi identificato il bene e il male (in Dio e Satana), lei culturalmente portasse l'idea che bene e male infusi nella stessa entità. Che bene e male siano solo giudizi dell'uomo che è limitato nella sua comprensione.

Ciao, MadLuke.
 

momi

Member
Non so quello che la Arendt volesse veramente dire, ma quello che io ne ho tratto è che:
non è il male ad essere banale, ma che può essere fatto da persone banali o comunque comuni,
perchè penso che fare il bene e opporsi ad un sistema diffuso di terrore (come il nazismo è stato) e di sovvertimento dei valori morali comuni, sia l'eccezione e ad appannaggio di persone con delle condizioni profonde;
ad essere cattivi e malvagi non occorre nulla, e i fatti storici passati, anche molto vicino a noi (ex-juguslavia, ruanda, RCA, ecc...) lo confermano.
 

estersable88

dreamer member
Membro dello Staff
Posto anche qui il commento che ho appena postato nel gruppo di lettura.

In questo saggio, scritto nel 1963, Hannah Arendt analizza il processo, tenutosi a Gerusalemme nel 1961, ad Eichmann. Chi fu Eichmann? Non il peggiore, ma uno dei tanti funzionari nazisti che parteciparono alla “Soluzione finale” ed allo sterminio degli ebrei. Uno dei tanti, appunto, non il peggiore: un particolare importante perché lo scopo del libro non è, in realtà, raccontare la storia di Eichmann perché diversa dalle altre, ma dimostrare che il male non è qualcosa di grande, impressionante, mostruosamente alieno, ma che esso è nella vita quotidiana, nella politica, nel mondo del lavoro, nella giustizia, nelle piccole cose. Il male è mediocre e banale, perciò è così terribile, specie quando è istituzionalizzato e si insinua nelle decisioni sulla vita altrui.
All’irrimediabile farsa nella quale si trasforma il processo, Eichmann appare come uno stupido, un uomo che non sa bene cosa gli accade intorno, uno che non ricorda, non è in grado di decidere né ha mai deciso nulla consapevolmente perché non è capace di pensare con la propria testa. E’ questa l’immagine che passa di un criminale nazista corresponsabile della morte di milioni di persone, immagine se possibile migliorata dal fatto che egli tentò, a suo dire, di trovare una soluzione che favorisse gli ebrei facendoli uscire dal Paese lasciando loro un po’ di terra sotto i piedi. Questo è giusto un accenno per farvi capire che persona fosse Eichmann. Più in generale, il racconto della vicenda Eichmann si rivela ben presto un pretesto che l’autrice usa per parlare diffusamente dell’avvento del nazionalsocialismo, delle leggi raziali, dell’olocausto, delle soluzioni, dei mille fraintendimenti e falsi equivoci che portarono allo sterminio. Tutto questo viene descritto con puntuale minuzia, ma le denunce della Arendt non sono dirette, bisogna leggere fra le righe per capire bene qual è la sua posizione. Di certo l’autrice non risparmia nessuno, neanche gli ebrei e il neonato Stato israeliano.
Personalmente ho trovato disturbante la perenne ambiguità delle pagine, che si dissipa finalmente nell’ultimo capitolo conclusivo. Ho fatto molta fatica a concludere la lettura, ma credo che oltre ad essere complesso questo libro sia utile: è complesso per i tanti sottointesi e per la precisione del racconto con nomi, episodi e fatti; è utile perché incita ad approfondire l’argomento per comprendere meglio ciò che viene narrato… e, vista l’importanza del tema, approfondire non può essere altro che un bene.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Il libro è finito ed adesso inizia la riflessione su un periodo storico ancora così vicino a noi da renderlo comprensibile nelle sue dinamiche storiche e politiche ed incomprensibile dal punto di vista umano perché ci siamo dentro ancora tutti. Questo è il gran pregio di questa lettura, muovere non solo il pensiero e le emozioni ma anche la coscienza, ossia quella parte di noi che mette insieme la razionalità e i sentimenti. Nel libro della Arendt ce n'è per tutti, dai Consigli degli ebrei ai funzionari più minuti, oltre che a chi ha diretto l'immane tragedia. Ce n'è per tutti ma alcuni sono riusciti a rimanerne fuori, sia singolarmente che come nazione e questo è il faro, la luce che ci guida e che nella ripetizione dei fatti successi in passato che potremmo rivedere oggi, ci permette di considerare profondamente il dissenso, l'indignazione, la difesa dei deboli contro tutti. E' un libro forte, un libro fonte di angoscia ma anche di lucida speranza.
 
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