Parto con una premessa: sono sempre più convinta che Virginia Woolf sia come uno di quei luoghi (sempre più rari, al giorno d’oggi) non ancora stuprati dal turismo, quei luoghi a cui è difficile accedere (vuoi perché non sono così pubblicizzati, vuoi perché per raggiungerli occorre uno sforzo reale, fisico) e che per questo conservano ancora intatti la loro bellezza originaria, il loro incanto. Nel commentare questo romanzo, non ho lo scopo di convincere quanta più gente possibile a leggerlo o a riscoprire l’eccezionale valore di questa scrittrice... innanzitutto perché Virginia Woolf non è per tutti (e, credetemi, non lo dico con arroganza: è questione di empatia, non di “bravura”) e poi perché, se lo diventasse, perderebbe gran parte della sua bellezza e del suo fascino.
Non a caso paragono Virginia Woolf a un luogo... tale è per me. Non tanto una scrittrice, quanto un “ambiente” da esplorare, da vivere: vento che accarezza il viso, luce che avvolge, suoni, colori, il contatto con la terra... Virginia Woolf non va capita, va percepita. In modo istintuale, quasi “animalesco” (ho trovato questa espressione in un’altra recensione e l’ho trovata calzante).
E questo romanzo, il più sperimentale dell’autrice in quanto a lingua e struttura, è in assoluto l’apice di questo tipo di approccio, così impegnativo, così difficile... e per questo così appagante! Non esiste trama in questo libro: sei amici si alternano in un monologo tutto interiore. Alcuni passaggi sono pura lirica, non tutti sono facilmente comprensibili, ma non ha importanza. “Leggere significa anche questo: essere sommersi dall’onda di una lingua che ci travolge. Non dobbiamo sempre capire. V’è una conoscenza che si forma nell’incomprensione, nell’urto con le difficoltà”, scrive Nadia Fusini nella sua bellissima prefazione.
Il vero soggetto di questo libro sono il tempo e la voce. Il tempo non è kronos, il tempo che scorre indifferenziato, ma rythmos: in questo caso il moto ripetitivo, incessante e oscillatorio delle onde. Questo continuo andare e venire, dilatarsi e contrarsi, è il filo conduttore che attraversa a vari livelli tutta l’opera.
Vi è poi la voce, anzi, le voci. Ognuna definisce un carattere diverso, che impariamo a conoscere e riconoscere pagina dopo pagina: Rhoda, la “ninfa delle sorgenti”, che non ha una forma propria ma è come “la schiuma che precipita a riva”; Susan, la madreterra, che vive di amore e odio e di “felicità naturale”; Jenny, la cui “bellezza è fatta di carne, materia”; Louis, “scolpito nella roccia, statuario”, la cui vocazione è di “riportare tutti all’ordine”; Neville, “tagliente come le forbici, preciso”, che respinge “l’orrore dell’informe” e Bernard, colui che inventa storie: “la mia sola misura è la frase”. Vi è infine un settimo personaggio, Percival, il quale non è dotato di voce propria ma che vive attraverso la coscienza dei suoi amici: a lui è legato il tema fondamentale della vita e della morte.
A questo coro di voci è affidato il compito di esprimere, e contraddire, il concetto di individualità, e persino di identità, la quale non è data in modo unico e finito – una sostanza solida, della forma di un globo, che si possa rigirare tra le dita e offrire agli altri come si offre un frutto – bensì è materia plasmata dal contatto continuo con altri individui, in special modo coloro con cui si condivide parte della propria vita (così i sei amici, l’uno per l’altro).
Benchè tutti, in modo diverso, incarnino questa consapevolezza, una voce si eleva sulle altre e si fa veicolo principale del cuore di questo libro: si tratta di Bernard. In lui mi sembra di leggere Virginia stessa; lui, che (come Virginia) conosce il potere creativo e generativo della parola (“una bella frase mi sembra abbia una sua esistenza autonoma”), lui, più degli altri, è colui che non può fare a meno di entrare in contatto col mondo e con le altre coscienze. Lui, che vive di storie, sa che non potrebbe esistere se non in continua osmosi con la vita, fatta di cose reali, concrete – “la mente mi si riempie di qualsiasi cosa sia contenuta in una stanza, in uno scompartimento di treno, al modo in cui una penna si intinge di inchiostro”, “mi piace l’aspetto copioso, informe, caldo, non troppo intelligente, ma estremamente facile, e piuttosto grossolano, della realtà” – e con le altre persone – “per essere me stesso (noto) ho bisogno della luce che viene dagli occhi altrui, e perciò non sono affatto sicuro di chi sono veramente”, “non sono una persona sola, sono molte persone. Nè saprei distinguere la mia vita dalla loro.”
Per questa ragione, alla voce di Bernard, che più degli altri necessita del contatto col mondo per definire la propria identità, è attribuita la percezione del tempo quale lo abbiamo descritto prima: un continuo andare e venire, perdersi, annullarsi fino a raggiungere uno stato di contemplazione simile all’estasi (nella quale si perde coscienza di sè per sentirsi parte del tutto) per poi rientrare in se stessi, richiamati alla vita (e alla propria individualità) dalla percezione di un suono, di un’immagine, di un evento che ha il potere di richiamarci al mondo reale. Può essere il rumore della natura o il frastuono del traffico... non ha importanza: è la vita che riprende il sopravvento. Vorremmo poter isolare quel momento, fermare il tempo – “se quella nuvola celeste restasse così per sempre; se quest’attimo durasse per sempre” – ma non è possibile: “ecco come torno in me stesso. Perché non sono un mistico, c’è sempre qualcosa che mi afferra – la curiosità, l’invidia, l’ammirazione, l’interesse per i parrucchieri, sì, cose del genere mi riportano in superficie.”
E’ la seduzione della vita, della “felicità naturale”, a cui Virginia, nonostante la sua natura così fragile, non ha mai saputo resistere (in questo mi ricorda tantissimo Robert Walser). Ed è per questo che la amo così tanto, è per questo che quando la leggo non posso fare a meno di entrare in perfetta sintonia con lei e di farmi trasportare in quel luogo, dipinto da lei, che è lei, in cui tutto è poesia.
Non a caso paragono Virginia Woolf a un luogo... tale è per me. Non tanto una scrittrice, quanto un “ambiente” da esplorare, da vivere: vento che accarezza il viso, luce che avvolge, suoni, colori, il contatto con la terra... Virginia Woolf non va capita, va percepita. In modo istintuale, quasi “animalesco” (ho trovato questa espressione in un’altra recensione e l’ho trovata calzante).
E questo romanzo, il più sperimentale dell’autrice in quanto a lingua e struttura, è in assoluto l’apice di questo tipo di approccio, così impegnativo, così difficile... e per questo così appagante! Non esiste trama in questo libro: sei amici si alternano in un monologo tutto interiore. Alcuni passaggi sono pura lirica, non tutti sono facilmente comprensibili, ma non ha importanza. “Leggere significa anche questo: essere sommersi dall’onda di una lingua che ci travolge. Non dobbiamo sempre capire. V’è una conoscenza che si forma nell’incomprensione, nell’urto con le difficoltà”, scrive Nadia Fusini nella sua bellissima prefazione.
Il vero soggetto di questo libro sono il tempo e la voce. Il tempo non è kronos, il tempo che scorre indifferenziato, ma rythmos: in questo caso il moto ripetitivo, incessante e oscillatorio delle onde. Questo continuo andare e venire, dilatarsi e contrarsi, è il filo conduttore che attraversa a vari livelli tutta l’opera.
Vi è poi la voce, anzi, le voci. Ognuna definisce un carattere diverso, che impariamo a conoscere e riconoscere pagina dopo pagina: Rhoda, la “ninfa delle sorgenti”, che non ha una forma propria ma è come “la schiuma che precipita a riva”; Susan, la madreterra, che vive di amore e odio e di “felicità naturale”; Jenny, la cui “bellezza è fatta di carne, materia”; Louis, “scolpito nella roccia, statuario”, la cui vocazione è di “riportare tutti all’ordine”; Neville, “tagliente come le forbici, preciso”, che respinge “l’orrore dell’informe” e Bernard, colui che inventa storie: “la mia sola misura è la frase”. Vi è infine un settimo personaggio, Percival, il quale non è dotato di voce propria ma che vive attraverso la coscienza dei suoi amici: a lui è legato il tema fondamentale della vita e della morte.
A questo coro di voci è affidato il compito di esprimere, e contraddire, il concetto di individualità, e persino di identità, la quale non è data in modo unico e finito – una sostanza solida, della forma di un globo, che si possa rigirare tra le dita e offrire agli altri come si offre un frutto – bensì è materia plasmata dal contatto continuo con altri individui, in special modo coloro con cui si condivide parte della propria vita (così i sei amici, l’uno per l’altro).
Benchè tutti, in modo diverso, incarnino questa consapevolezza, una voce si eleva sulle altre e si fa veicolo principale del cuore di questo libro: si tratta di Bernard. In lui mi sembra di leggere Virginia stessa; lui, che (come Virginia) conosce il potere creativo e generativo della parola (“una bella frase mi sembra abbia una sua esistenza autonoma”), lui, più degli altri, è colui che non può fare a meno di entrare in contatto col mondo e con le altre coscienze. Lui, che vive di storie, sa che non potrebbe esistere se non in continua osmosi con la vita, fatta di cose reali, concrete – “la mente mi si riempie di qualsiasi cosa sia contenuta in una stanza, in uno scompartimento di treno, al modo in cui una penna si intinge di inchiostro”, “mi piace l’aspetto copioso, informe, caldo, non troppo intelligente, ma estremamente facile, e piuttosto grossolano, della realtà” – e con le altre persone – “per essere me stesso (noto) ho bisogno della luce che viene dagli occhi altrui, e perciò non sono affatto sicuro di chi sono veramente”, “non sono una persona sola, sono molte persone. Nè saprei distinguere la mia vita dalla loro.”
Per questa ragione, alla voce di Bernard, che più degli altri necessita del contatto col mondo per definire la propria identità, è attribuita la percezione del tempo quale lo abbiamo descritto prima: un continuo andare e venire, perdersi, annullarsi fino a raggiungere uno stato di contemplazione simile all’estasi (nella quale si perde coscienza di sè per sentirsi parte del tutto) per poi rientrare in se stessi, richiamati alla vita (e alla propria individualità) dalla percezione di un suono, di un’immagine, di un evento che ha il potere di richiamarci al mondo reale. Può essere il rumore della natura o il frastuono del traffico... non ha importanza: è la vita che riprende il sopravvento. Vorremmo poter isolare quel momento, fermare il tempo – “se quella nuvola celeste restasse così per sempre; se quest’attimo durasse per sempre” – ma non è possibile: “ecco come torno in me stesso. Perché non sono un mistico, c’è sempre qualcosa che mi afferra – la curiosità, l’invidia, l’ammirazione, l’interesse per i parrucchieri, sì, cose del genere mi riportano in superficie.”
E’ la seduzione della vita, della “felicità naturale”, a cui Virginia, nonostante la sua natura così fragile, non ha mai saputo resistere (in questo mi ricorda tantissimo Robert Walser). Ed è per questo che la amo così tanto, è per questo che quando la leggo non posso fare a meno di entrare in perfetta sintonia con lei e di farmi trasportare in quel luogo, dipinto da lei, che è lei, in cui tutto è poesia.