Walser, Robert - uno "zero assoluto" innamorato della vita

ayuthaya

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(dal Giornalino di Forumlibri n.6)

Non essendomi mai capitato di commentare un autore, e non volendo rischiare di riportare pari pari molte delle bellissime (e autorevoli) considerazioni che mi è capitato di leggere in questi giorni, commenterò nell'unico modo in cui sono capace di fare: partendo da me stessa, dalle mie emozioni.
Ci sono due modi in cui mi innamoro leggendo: posso innamorarmi di un libro − tale da decretarlo un capolavoro "a prescindere" − o posso innamorarmi di uno scrittore. Il livello di conoscenza, il numero dei libri letti, non contano nulla: può capitarmi l'una o l'altra cosa avendo letto di un autore un solo romanzo. Ciò che fa la differenza è il modo in cui l'anima di un artista riesce, talvolta, ad oltrepassare la barriera delle pagine scritte, per arrivare dritto al mio cuore. Ci sono libri, insomma, che secondo me rivelano l'interiorità di chi li ha scritti molto più di altri. Poi è chiaro che, perché scatti la "scintilla", ci deve essere, fra l'anima di chi ha scritto e l'anima di chi legge, una certa affinità di sentimento, e questo dipende dal carattere di ognuno. Ciò che posso affermare senz'ombra di dubbio è che fra me e Robert Walser questa scintilla è stata immediata.

Che cosa rende questo artista, per me, così speciale, diverso da tutti gli altri? E, innanzitutto, chi è Robert Walser, scrittore tanto osannato da altri (illustri) scrittori, quanto quasi sconosciuto al grande pubblico? Per quanto io mal sopporti le biografie (mi annoio a leggerle, figuriamoci a scriverle!), qualche cenno alla sua vita è indispensabile per capire la sua poetica.

R. Walser nasce il 15 Aprile 1878 a Biel, cantone di Berna, in terra di lingua tedesca. Ancor prima di terminare le superiori comincia a lavorare, perlopiù in qualità di impiegato, perché la famiglia non può permettersi di mantenerlo agli studi. Dopo aver seguito un corso per camerieri, viene assunto come servitore in un castello dell'alta Slesia. Comincia a scrivere intorno ai trent'anni e il suo soggiorno berlinese (dal 1905 al 1913) coincide con il periodo di massima produzione letteraria. Torna in Svizzera, gli anni passano: nel 1929, dopo un tentativo fallito di suicidio, viene ricoverato per la prima volta in una clinica per malattie mentali. Verrà internato definitivamente nel '33 a Berna (clinica di Waldau): passerà il resto della sua vita (altri ventitrè anni) senza più scrivere, ma facendo lunghe camminate, spesso in compagnia di Carl Seelig, che, in Passeggiate con Robert Walser, ci ha lasciato una toccante testimonianza di questo periodo. Muore nel pomeriggio del Natale del 1956, mentre passeggiava da solo in un campo innevato.

Nessun evento eclatante, quindi. Ed è proprio questo minimalismo estremo la chiave più preziosa per comprendere la natura sua e delle sue opere.
Il primo libro che ho letto, La passeggiata, mi ha introdotto alla sua estrema sensibilità, a quel misto di stupore estatico − puro come quello dei bambini − e di malinconia propria di chi sa di essere un escluso, uno ‘straniero’.
È seguìto Jakob von Gunten, un libro forte, per certi versi sconvolgente. Ma, per quanto mi abbia colpito e affascinato, ora mi rendo conto di non averlo compreso pienamente. “Ingannata” da quella delicata ironia che caratterizza il suo stile (un'ironia lieve, che non è rifiuto della realtà, ma al contrario un modo per accoglierla pienamente, in ogni suo minimo aspetto), ho creduto che − dando voce a un personaggio che si pone come massima ambizione l'azzeramento della propria personalità, sottolinea ripetutamente il suo sentirsi (e volersi sentire) un nulla assoluto, “un magnifico zero rotondo come una palla”, ed esalta il valore di questo annichilimento, raggiunto e sublimato nel servizio − egli ci stesse prendendo in giro o, al contrario, stesse denunciando un tipo di società produttrice di automi. E invece no.
I fratelli Tanner, suo indiscusso (ma non unico) capolavoro, è stata in questo senso una rivelazione. Simon Tanner esprime tutta la gioia, la beatitudine di vivere e allo stesso tempo l'irrisolvibile senso di disadattamento del suo creatore. Da lui comprendiamo la sincerità di quel rovesciamento dei “buoni valori borghesi” che nel Jakob (successivo di un paio di anni) raggiungerà l'apice. I toni non sono ancora così cupi, l’atmosfera è solare, giocosa, un inno alla vita, ma la “rottura” c’è tutta ed è irreversibile. E soprattutto, come dicevo, è autentica, sentita.
Nella figura di Simon Tanner ritroviamo Walser stesso: candido, gaudente, desideroso di dare senza ricevere nulla in cambio (anzi! il ricambio sarebbe persino disprezzato da lui, perché avrebbe reso vano il suo darsi senza riserve...), gioioso nella sventura e malinconico nella cornice di una “felicità di maniera”, forte nella sua diversità e arrendevole nella banalità dei rapporti convenzionali.

L'uno, come l'altro, sono talmente puri, talmente innamorati della vita, da far dubitare della loro consistenza. E forse è proprio così, forse è questa la ragione per cui il diritto alla vita, concesso ai suoi personaggi, al loro ideatore è stato negato. Troppo simile, troppo intimamente affine alle sue creature, lui che non all’atmosfera onirica dei propri romanzi, ma alla “società” apparteneva. Uno scarto evidentemente troppo profondo per Robert Walser, l'impiegatuccio, il servitore, poi il malato di mente o forse l'uomo che ha scelto di finire la sua vita nel modo che più gli era congeniale: ritirandosi dal mondo, riappropriandosi del mondo. Ritirandosi dalla “scena”, quella che persino nei periodi maggior successo lo ha visto protagonista timido, dimesso, vulnerabile, e riprendendo possesso di ciò che nessuno meglio di lui sapeva apprezzare: la bellezza della natura e dei gesti semplici, quotidiani. Come passeggiare da solo, un pomeriggio di Natale, in un campo innevato.
 
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