Feedback su Castelli di rabbia di Baricco

GermanoDalcielo

Scrittore & Vulca-Mod
Membro dello Staff
Preghiera a chi possiede una copia di questo libro di baricco: ho bisogno di un favore. Potete controllarmi, o magari ve lo ricordate a memoria, se questo paragrafo a pagina 20-25 circa è DAVVERO scritto così oppure è la conversione in ebook che me l'ha "scombussolato"?
Grazie


Parole in processione. bile non è pos- Non è possibile, accidenti... non è possi , sibile, non è
possibile... non può sparire cosi, da qualche e deve andare a finire... non puoi versare litri e litri di e
spari parole in un tubo e poi vedertel re così, ésset e un erchi... chi se la beve tutta quella voce?...
Ci d r , da qualche rore, questo è sicuro... c'è e bbe un t bo più i q parte sbagliamo... forse ci vorre ,
p ccolo... o forse biso a metterlo leggermente in discesa ecco forse ci po' di pendenza... d'altronde è
chiaro, quella è vorrebbe un ' pro rio a metà del tubo...
p po , capace di fermarsi do o un p a po nell'aria, si finita la spinta, quella si ferma. g 1 stagno la
assormescola e poi si posa sul fondo del tubo e o be... è sicuramente una cosa del genere... che a
pensarci bene dovrebbe funzionare anche al contrario... sicuramente...
se io parlo in un tubo in salita le parole salgono finché hanno s inta e poi ridiscendono, e così io le
risento...
Pehnt, que ò è geniale, lo capisci cosa può significare?... praticamente la gente potrebbe risentirsi,
potrebbe ascoltare la ro ria stessa medesima voce... uno prende un tubo, lo dirige e verso l'alto,
diciamo con una pendenza del 10 per cento, e poi ci canta dentro... ci canta dentro una frase più o
meno corta, dipende ovviamente dalla lunghezza del tubo... canta e poi si mette ad ascoltare, e... e la
voce sale, sale poi si ferma e torna indietro, e lui la sente, capisci, la sente... la sua voce...
sarebbe straordinario... potersi sentire... sarebbe una rivoluzione per tutte le scuole di canto del
mondo... te lo immagi? "l'autoauscultatore Pekisch, lo stru t0 211d2S 7e' ni ..
 

Jessamine

Well-known member
Uhm, non ce l'ho sotto mano al momento, appena posso controllo, ma per quanto Baricco mi entusiasmi poco e quindi lo legga senza particolare attenzione, non mi pare di ricordare un paragrafo del genere, temo sia impazzito l'ebook :mrgreen:
 

Nerst

enjoy member
trovato caro...è la copia elettronica che è guastata, stavolta Baricco non c' entra :mrgreen: con calma ti riscrivo il periodo, così ti fai le risate...
a dopo.... :wink:

Peccato perché a me il libro è piaciuto molto, così rischi di non apprezzarlo.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
ti copincollo da 20 a 22 e poi da 23 a 25, prova a verificare

"Pekisch, da parte sua, fornì a Pehnt alcune utili certezze tra le quali figurava, non ultima, l'aurea regola secondo cui il sistema più semplice per crescere era quello di rimanere il più possibile in piedi.
- E un po' come per la voce nei tubi.
Se il tubo fa delle curve la voce fa più fatica a passare.
Per te è lo stesso.
Solo se stai in posizione eretta la forza che hai dentro può crescere senza intoppi, senza dover far curve e perdere tempo.
Stai in piedi, Pehnt, tieni il tubo più dritto che puoi.
Pehnt teneva il tubo più dritto che poteva.
Ciò spiega anche perché usasse le sedie, sì, ma per starci in piedi sopra.
- Siediti, Pehnt - diceva la gente.
- Grazie - diceva lui, e saliva in piedi sulla sedia.
- Non che sia il massimo dell'educazione - diceva la vedova Abegg.
- Neanche cagare è una delizia.
Ma ha i suoi vantaggidiceva Pekisch.
E così cresceva Pehnt.
Mangiando uova a pranzo e cena, stando in piedi sulle seggiole, e annotando una verità al giorno su un quaderno viola.
Girava con quella enorme giacca addosso come viaggia una lettera nella busta che reca scritta la sua destinazione.
Girava avviluppato nel suo destino.
Come tutti, peraltro, solo che in lui lo si poteva vedere ad occhio nudo.
Non aveva mai visto la capitale e non poteva immaginare cosa precisamente stava inseguendo.
Ma aveva capito che, in qualche modo, il gioco consisteva nel diventare grandi.
E ce la metteva tutta per vincere.
Però, la notte, sotto le coperte, dove nessuno poteva vederlo, più silenziosamente possibile, con un po' di batticuore, si rannicchiava più che poteva, proprio così, e come un tubo contorto in cui non sarebbe passata una voce nemmeno a sparagliela dentro con un cannone si addormentava e sognava una giacca eternamente troppo grande.
Jun stava con il capo appoggiato sul petto del signor Rail.
Fare l'amore così, la notte che lui tornava, era un po' più bello, un po' più semplice; un po' più complicato che in una notte qualunque.
C'era di mezzo qualcosa come lo sforzo di ricordarsi qualcosa.
C'era di mezzo un sottile timore di scoprire chissaché.
C'era di mezzo il bisogno che fosse comunque bellissimo.
C'era di mezzo una voglia un po' impaziente, un po' feroce, che non c'entrava con l'amore.
C'era di mezzo un sacco di roba.
Dopo - dopo era come: ricominciare a scrivere da una pagina bianca.
Qualsiasi viaggio avesse portato in giro per il mondo il signor Rail, scompariva nel bicchier d'acqua di quella mezz'ora d'amore.
Si ricominciava da dove ci si era lasciati.
IL sesso cancella fette di vita che uno nemmeno si immagina.
Sarà anche stupido, ma la gente si stringe con quello strano furore un po' panico e la vita ne esce stropicciata come un bigliettino stretto in un pugno, nascosto con una mossa nervosa di paura.
Un po' per caso, un po' per fortuna, spariscono nelle pieghe di quella vita appallottolata mozziconi di tempo dolorosi, o vigliacchi, o mai capiti.
Così.
Stava lì, Jun, con il capo sul petto del signor Rail e una mano che vagava sulle sue gambe, e ogni tanto si chiudeva sul suo sesso, scivolava su di lui, tornava a intrufolarsi tra le gambe - non c'è niente di più bello delle gambe di un uomo, pensava Jun, quando sono belle.
La voce del signor Rail le giunse piano, con dentro l'aria di un sorriso - Jun, non puoi immaginare cosa ho comprato questa volta.
Effettivamente non poteva immaginarselo.
Si rannicchiò su di lui, sfiorava con le labbra la sua pelle - non c'è niente di più bello delle labbra di Jun, pensava la gente, quando sfiorano qualcosa.
- Potresti passare tutta la notte a provare, ma non riusciresti a indovinare.
- Mi piacerà? - Certo che ti piacerà.
- Mi piacerà come mi piace fare l'amore con te? - Molto di più.
- Stupido.
Jun alzò lo sguardo verso di lui, si avvicinò al suo viso.
Nella penombra lo vedeva sorridere.
- Allora, cos'hai comprato questa volta, matto di un signor Rail? A dieci chilometri da lì, il campanile di Quinnipak suonò la mezzanotte, c'era vento da nord, si portò addosso i rintocchi, uno a uno, dal paese fino al letto di quei duequand'è così è come se quei rintocchi facessero a spicchi la notte, è il tempo che è una lama acuminatissima e seziona l'eternità - la chirurgia delle ore, ogni minuto una ferita, una ferita per salvarsi - si sta aggrappati al tempo, questa è la verità, perché il tempo numera i conati di essere che si é, minuto per minuto - numerare è salvarsi, questa è la verità, e la legittimazione trascendentale di qualsiasi orologio, e la dolcezza straziante di tutti i rintocchi di qualsiasi campana - avvinghiati al tempo perché ci sia un ordine nell'elettrizzante disfatta quotidiana, un prima e un dopo ogni shockavvinghiati con feroce paura, e determinazione, con isterica pignoleria e disumana forza.
E come ogni isteria del terrore, anche questa si è composta in un rito, essendo il rito, sempre, la ricomposizione di milioni di isterici scatti di paura in un'unica danza divina, il palcoscenico su cui l'uomo diventa capace di muoversi come un Dio - un rito, dico, che era il rito dell'orologio della Grand Junction - si badi bene, quando ancora ogni città aveva la sua ora, dunque il suo tempo, mille tempi diversi, ogni città il suo, se qui erano le 14 e 25 là potevano essere le 15, ogni città con il suo orologio - e la Grand Junction era una linea ferroviaria, una delle prime linee ferroviarie mai costruite, correva come un'incrinatura lungo un vaso, sulla terra e sul mare, da Londra a Dublino - correva e si portava un suo tempo dentro che scivolava nei tempi altrui, come una goccia d'olio su un vetro bagnato, e aveva una sua ora che doveva resistere a tutte le altre, per tutto il viaggio, e tornare intatta, una gemma intatta, affinché ogni istante potesse sapere se era un istante di ritardo o di anticipo, affinché ogni istante potesse conoscere se stesso, e dunque non smarrirsi, e dunque salvarsi - un treno che corre con nel cuore la sua ora, sorda a tutte le altre - per quel treno l'uomo coniò il rito elementare e sacro: "Tutte le mattine, un messo dell'Ammiragliato consegnava all'impiegato di turno ded treno postale Londra-Dublino un orologio che indicava l'ora esatta.
A Holyhead d'orologio veniva consegnato agli impiegati del traghetto di Kingston che lo portava a Dublino.
Al ritorno gli impiegati del traghetto di Kingston riportavano l'oroLogio all'impiegato di turno del treno postale.
Quando il treno arrivava di nuovo a Lonrira l'orologio veniva riconsegnato al messo dell'Ammiraglio.
Così ogni giorno, per centinaia di giorni. " .
Erano i tempi in cui nella stazione di Buffalo c'erano tre orologi, ognuno con un'ora diversa, e sei ce n'erano nella stazione di Pittsburgh, uno per ogni linea ferroviaria che passava - era la Babele delle ore - e allora si capisce il rito della Londra-Dublino, treno postale - quell'orologio che va avanti e indietro, in una scatola di velluto, passando di mano in mano, prezioso come un segreto, prezioso come un gioiello...
(C'era un uomo che partiva, viaggiava, e quando tornava, prima di lui arrivava un gioiello, in una scatola di velluto.
La donna che lo aspettava apriva la scatola, vedeva il gioiello e allora sapeva che sarebbe tornato.
La gente credeva che fosse un regalo, un prezioso regalo per ogni fuga.
Ma il segreto era che il gioiello era sempre lo stesso.
Cambiavano le scatole ma lui era sempre quello.
Partiva con l'uomo, restava con lui ovunque andasse, passava di valigia in valigia, di città in città, e poi tornava indietro.
Veniva dalle mani della donna e lì ritornava, esattamente come l'orologio ritornava nelle mani dell'Ammiraglio.
La gente credeva fosse un regalo, un prezioso regalo per ogni fuga.
Invece era ciò che custodiva il filo del loro amore, nel labirinto di mondi in cui l'uomo correva, come un'incrinatura lungo un vaso.
Era l'orologio che contava i minuti del tempo anomalo, e unico, che era il tempo del loro volersi.
Tornava indietro prima di lui perché lei sapesse che dentro colui che stava arrivando non si era spezzato il filo di quel tempo.
Così l'uomo arrivava, infine, e non c'era bisogno di dir nulla, di chiedere nulla, né di sapere.
L'istante in cui si vedevano era, per tutt'e due, ancora una volta, lo stesso istante.) ... prezioso come un segreto, prezioso come un gioiello - un orologio che teneva la ferrovia insieme, che teneva Londra e Dublino legate una all'altra affinché non svanissero alla deriva di una babele di tempi ed ore differentiquesto fa pensare - questo sì fa pensare - questo fa pensare.
Ai treni.
Allo shock della ferrovia.
Non ne avevano mai avuto bisogno, prima, della manfrina dell'orologio.
Mai.
Perché non esisteva il treno.
Neanche lo possedevano come idea.
E allora viaggiare da qui a là era una cosa talmente lenta, e sgangherata, e casuale, che comunque il tempo ci si smarriva senza che nessuno si sognasse di opporre resistenza.
Resistevano un paio di generali discriminazioni -l'alba, il tramonto - tutto il resto erano attimi confusi in un'unica grande poltiglia di istanti.
Prima o poi si arrivava, tutto lì.
Ma il treno... quello era esatto, era tempo divenuto ferro, ferro in corsa su due binari, sequela precisa di prima e di poi, incessante processione di traversine... e soprattutto... era velocità... velocità.
La velocità non perdonava.
Se c'erano sette minuti di differenza tra l'ora di qui e l'ora di là, lei li rendeva visibili... pesanti...
Anni di viaggi in carrozza non erano mai riusciti a scoprirli, un solo treno in corsa poteva smascherarli per sempre.
La velocità.
Gli dev'essere scoppiata dentro, a quel mondo, come un urlo represso per migliaia di anni.
Niente dev'esser sembrato uguale a prima quando arrivò la velocità.
Tutte le emozioni ridotte a piccole macchine da ritarare.
Chissà quanti aggettivi si rivelarono improvvisamente scaduti.
Chissà quanti superlativi si sbriciolarono in un attimo, tutto d'un colpo tristemente ridicoli...
Di per sé il treno non sarebbe stata gran cosa, non era poi che una macchina... questo però è geniale: quella macchina non produceva forza, ma qualcosa di concettualmente ancora sfumato, qualcosa che non c'era: velocità.
Non una macchina che fa ciò che mille uomini potrebbero fare.
Una macchina che fa ciò che non era mai esistito.
La macchina dell'impossibile.
Una delle prime e più famose locomotive costruite da George Stephenson si chiamava Rocket e faceva gli 85 chilometri orari.
Fu lei a vincere, il 14 ottobre 1829, il certame di Rainhill.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Fu lei a vincere, il 14 ottobre 1829, il certame di Rainhill.
In gara c'erano altre tre locomotive, ciascuna con il suo bel nome (a ciò che spaventa si dà sempre un nome, come dimostra il fatto che gli uomini ne hanno, per prudenza, due): Novelty, Sans Parell, Perseverance.
A dire il vero ne iscrissero anche una quarta: si chiamava I,e ciclopéde, l'aveva inventata un certo Brandreth, e consisteva in un cavallo che galoppava su un tapis roulant collegato a quattro ruote che correvano, a loro volta, sui binari.
Vedi come ogni volta, sempre, il passato resiste al futuro, conia incredibili compromessi senza il minimo senso del ridicolo, si mortifica perdutamente pur di continuare a possedere il presente, anche a tempo scaduto, ostinato e ottuso, e mentre profetiche caldaie in ebollizione sventolavano le loro ciminiere lucide in sbuffi e sberleffi di vapore bianco, quello montava un povero cavallo su un trabiccolo che scambiava il mezzo, cioé le rotaie, per il fine.
Lo squalificarono, comunque.
Lo squalificarono prima ancora che partisse.
Così gareggiarono in quattro, la Rocket e le altre tre.
Prima prova, un percorso di un miglio e mezzo.
La Novelty lo divorò alla media di 45 chilometri orari, destando enorme impressione.
Peccato che alla fine esplose, proprio così, esplose - dev'essere magnifico vedere una locomotiva esplodere, la caldaia che si disfa come una vescica rovente, la piccola stretta lunga ciminiera che vola, improvvisamente leggera come il fumo che ha dentro, e poi gli uomini, perché qualcuno doveva pur esserci alla guida di quella bomba innescata su due binari di ferro, gli uomini anche loro a volare come fantocci, come sbuffi insanguinati, razione quotidiana di sangue per oliare le ruote del progresso, dev'essere magnifico vedere una locomotiva correre, e poi esplodere.
La seconda prova prevedeva un percorso di 112 chilometri da coprire alla velocità di 16 chilometri orari.
La Rocket si lasciò dietro tutti, navigò sicura a 25 chilometri all'ora, uno spettacolo a vedersi.
Fatte le somme si decretò che aveva vinto.
Aveva vinto quel geniaccio di Stephenson.
E tutto questo, si badi bene, non accadde nel segreto di un interessato consesso di ricconi in cerca di un sistema veloce e indolore per portare ovunque le loro vagonate di carbone.
No.
Tutto questo si stampò, indelebile, negli occhi di diecimila persone, e cioé in ventimila occhi, guercio più guercio meno, tanti quanti accorsero da ogni parte quel giorno, a Rainhili per assistere alla gara del secolo - piccola ma enorme porzione di umanità mossa fin lì dal presentimento che qualcosa stava succedendo che le avrebbe ben presto scompigliato i meccanismi del cervello.
Videro la Rocket sfilare sul rettilineo di Rainhill a 85 chilometri orari.
E questo ancora non doveva essere uno stupore più di tanto: perché un oggetto in velocità restava pur sempre un'immagine che da qualche parte dovevano avere almeno una volta incrociato, foss'anche un solitario falco in picchiata, o un tronco giù dalle rapide del fiume, o chissà, una bomba sputata nel cielo.
Ma sconcertante, questo sì, fu il pensiero che li punse, l'elementare deduzione che se quella locomotiva non esplodeva, allora prima o poi la storia li avrebbe fatti salire là sopra, in folle corsa su quella strada ferrata, improvvisamente divenuti, loro stessi, proprio loro, falchi in picchiata e tronchi e bombe sputate nel vento.
Ed è impossibile, proprio impossibile, che non abbiano pensato, tutti, proprio tutti, con generale febbrile impaurita curiosità - cosa sarà il mondo, visto da lassù? E subito dopo: sarà quello un nuovo modo di vivere, o un modo più esatto e spettacolare di morire? Piovvero le risposte, poi, a mano a mano che fiorivano rotaie in ogni direzione e salpavano treni spianando colline e bucando montagne, quasi protervi nella loro feroce voglia di arrivare a destinazione.
Nelle orecchie entrava il ritmico lamento delle rotaie, e intanto tutto vibrava come di fatica, come di emozione - una specie di tic perpetuo che ti segava l'anima.
E nel finestrino - nel finestrino, di là dal vetro, sfilavano via i cocci di un mondo fatto a pezzi, perennemente in fuga, sminuzzato in migliaia di immagini lunghe un istante, strappato via da una forza invisibile. "Prima che inventassero le ferrovie la natura non palpitava più: era una Bella Addormentata nel bosco" scrissero.
Ma molto tempo dopo, col senno di poi.
Ci facevano su della poesia.
Al momento, proprio le prime volte che la Bella Addormentata si faceva violentare da quella macchina lanciata a colpevole velocità, fu appunto la violenza che rimase impressa nelle parole e nei ricordi.
E la paura. "É davvero un volo, ed è impossibile sottrarsi all'idea che il minimo incidente potrebbe causare la morte istantanea di tutti", così la pensavano.
E certo dovette formarsi inconsapevolmente nell'animo un nesso preciso tra quel presentimento di morte e l'immagine distorta che, dal finestrino e a prezzo del rischio della vita, il mondo tutto offriva di sé.
Come ai morti, a cui passa negli occhi in pochi istanti tutta una vita, sfilando via veloce.
A quelli sfilavano via prati, persone, case, fiumi, animali...
Bisogna immaginarselo, la paura da una parte e quel bombardamento di immagini dall'altra, o meglio una, la paura, dentro l'altro, il bombardamento, come onde concentriche di un unico soffocamento, angoscioso, certo, ma anche... qualcosa come un improvviso squarciarsi della percezione, qualcosa che doveva avere dentro la scintilla di un qualche bruciante piacere - un avvitamento progressivo del ritmo delle percezioni, dalla lenta partenza alla corsa incondizionata dentro alle cose, tutto un protocollo vertiginoso di immagini che si affastellano in disordine pigiandosi negli occhi, ferite incurabili nella memoria, e schegge, strisciate di passaggio, fughe di oggetti, polvere di cose - questo doveva essere piacere, perdìo - "intensificazione della vita nervosa", l'ha poi chiamata Simmel - sembra un referto medico - e in effetti ha il profilo, e il sapore, della malattia, quell'ipertrofia del vedere e del sentire - ti si tendevano le reti del cervello, dolorosamente, fino allo stremo, come ragnatele esauste chiamate dopo secoli di sonno a catturare il volo di immagini impazzite, figure come insetti collassati dal vortice della velocità, e il ragno, che eri tu, ad affannarsi avanti e indietro in bilico tra l'ebbrezza dell'abbuffata e la precisa, esatta, numerica certezza che la ragnatela era a un istante dal cedere per sempre, e arrotolarsi su se stessa, gi umo di bava, penzula poltiglia inservibile, nodo mai più districabile, geometrie perfette perse per sempre, squallido bolo di cervello sfatto - il piacere lancinante di divorare immagini a ritmo sovrumano e il dolore di quella gabbia di fili tesa fino allo sfinimento - il piacere e il rumore sordo dello sgretolamento - il piacere e dentro, subdola, la malattia - il piacere e dentro la malattia, la malattia e dentro il piacere - tutt'e due a inseguirsi dentro il bozzolo della paura - la paura e dentro il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro la malattia e dentro il piacere - così ti girava dentro l'anima, all'unisono con le ruote del treno scatenate sulla via fatta di ferro - perversa rotazione onnipotente - così mi gira l'anima dentro, triturandosi gli attimi e gli anni - perversa rotazione onnipotente - chissà se c'è un modo per fermarla, chissà se è fermarla che si devechissà se è proprio scritto che debba fare male così - e da dove è mai partita, magari sapendolo uno potrebbe tornare lassù, sulla cima della discesa mozzafiato, all'inizio del binario, e pensarci un po' su prima di - così si rigira l'anima dentro, perversa rotazione onnipotente - chissà se è forza o solo stremata sconfitta - e se anche fosse forza e vita, doveva proprio essere così? minuzioso e crudele sterminio che ti germoglia dentro - chissà se c'è un modo di fermarlo, o un posto - un posto qualunque dove non tiri la bisa di questa rotazione perversa che inanella i giri del progressivo e mai più reversibile sfinimento, tarlo miserabile che sfarina la presa infrangibile dei più geniali desideri - il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro - venga qualcuno e silenziosamente la fermi, l'ammutolisca in un angolo di vittoriosa quiete, la sciolga per sempre nel fango di una vita qualunque da scontare in un tempo senza ormai più oreo la faccia finita in un attimo senza memoria - üì un attimo - la faccia finita.
Sui treni, per salvarsi, per fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro, e per schivare la paura, e per non farsi risucchiare dalla vertigine della velocità che certo doveva continuamente bussargli nel cervello quanto meno nella forma di quel mondo che strisciava di là dal vetro in forme mai viste prima, meravigliose certo, ma impossibili perché il solo concederglisi per un attimo istantaneamente rimetteva in corsa la paura, e di conseguenza quell'ansia densa e informe che cristallizzata in pensiero si rivelava a tutti gli effetti nient'altro che il sordo pensiero della morte - sui treni, per salvarsi, presero l'abitudine di consegnarsi a un gesto meticoloso, una prassi peraltro consigliata dagli stessi medici e da insigni studiosi, una minuscola strategia di difesa, ovvia ma geniale, un piccolo gesto esatto, e splendido.
Sui treni, per salvarsi, leggevano. Linimento perfetto.
La fissa esattezza della scrittura come sutura di un terrore.
L'occhio che trova nei minuscoli tornanti dettati dalle righe la nitida scorciatoia per sfuggire all'indistinto flusso di immagini imposto dal finestrino.
Vendevano, nelle stazioni, delle apposite lampade, lampade per la lettura.
Si reggevano con una mano, descrivevano un intimo cono di luce da fissare sulla pagina aperta.
Bisogna immaginarselo.
Un treno in corsa furibonda su due lame di ferro, e dentro il treno un angolo di magica immobilità ritagliato minuziosamente dal compasso di una fiammella.
La velocità del treno e la fissità del libro illuminato.
L'eternamente cangiante multiformità del mondo intorno e l'impietrito microcosmo di un occhio che legge.
Come un nòcciolo di silenzio nel cuore di un boato.
Non fosse storia vera, vera storia, si potrebbe pensare: non è che la bellezza di un'esatta metafora.
Nel senso che forse, . sempre, e per tutti, altro non è mai, léggere, che fissare un punto per non essere sedotti, e rovinati, dall'incontrollabile strisciare via del mondo.
Non si leggerebbe, nulla, se non fosse per paura.
O per rimandare la tentazione di un rovinoso desiderio a cui, si sa, non si saprà resistere.
Si legge per non alzare lo sguardo verso il finestrino, questa è la verità.
Un libro aperto è sempre la certificazione della presenza di un vilegli occhi inchiodati su quelle righe per non farsi rubare lo sguardo dal bruciore del mondo - le parole che a una ad una stringono il fragore del mondo in un imbuto opaco fino a farlo colare in formine di vetro che chiamano libri - la più raffinata delle ritirate, questa è la verità.
Una sporcheria.
Però: dolcissima.
Questo è importante, e sempre bisognerà ricordarlo, e tramandarlo, di volta in volta, da malato a malato, come un segreto, il segreto, che non sfumi mai nella rinuncia di nessuno o nella forza di nessuno, che sopravviva sempre nella memoria di almeno un'anima sfinita e lì suoni come un verdetto capace di far tacere chicchessia: léggere è una sporcheria dolcissima.
Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro? No, quella è la sola e più dolce custodia di ogni paura - un libro che inizia.
Così che, insieme a migliaia di altre cose, cappelli, animali, ambizioni, valigie, soldi, lettere ' g, d amore, malattie, botti lie armi, ricordi, stivali, occhiali, pellicce, risate, sguardi, tristezze, famiglie, giocattoli, sottovesti, specchi, odori, lacrime, guanti, rumori - insieme a quelle migliaia di cose che già sollevavano da terra e lanciae, vano a velocità prodigiosa quei treni che rigavano avanti e indietro il mondo come ferite fumanti si portavano dentro anche la solitudine impagabile di quel segreto: l'arte di leggere.
Tutti quei libri aperti, infiniti libri aperti, come finestrelle aperte sul dentro del mondo, seminate su un proiettile che offriva allo sguardo, solo si avesse avuto il coraggio di alzarlo, lo sfavillante spettacolo del mondo di fuori.
Il dentro del mondo e il mondo di fuori.
 

Nerst

enjoy member
Ecco Ger, il passo che hai segnalato:



Parole in processione.
- Non è possibile, accidenti...non è possibile, non è possibile, non è possibile...non può sparire così, da qualche parte deve andare a finire..non puoi versare litri e litri di parole in un tubo e poi vedertele sparire così, sotto gli occhi…chi se la beve tutta quella voce?...ci deve essere un errore, qusto è sicuro…c’ è un errore, è chiaro…da qualche parte sbagliamo, forse ci vorrebbe un tubo più piccolo…o forse bisgogna metterlo leggermente in discesa, ecco, forse ci vorrebbe un po’ di pendenza…d’ altronde è chiaro, quella è capace di fermarsi dopo un po’, proprio a metà del tubo…finita la spinta quella si ferma…galleggia un po’ nell’ aria, si mescola e poi si posa sul fondo del tubo e lo stagno la assorbe…è sicuramente una cosa del genere…che al pensarci bene dovrebbe funzionare anche al contrario…sicuramente se io parlo in un tubo in salita le parole salgono finchè hanno spinta e poi ridiscendono e così io le risento…Pehnt, questo è geniale, lo capisci cosa può significare?...praticamente la gente potrenbbe risentirsi, potrebbe ascoltare la propria stessa medesima voce…uno prende un tubo, lo dirige verso l’ alto, diciamo con una pendenza del 10 per cento, e poi ci canta dentro una frase più o meno corta, dipende ovviamente dalla lunghezza del tubo…canta e poi si mette ad ascoltare e …e la voce sale , poi si ferma e torna indietro e lui la sente, capisci, la sente… la sua voce…sarebbe straordinario potersi sentire…sarebbe una rivoluzione per tutte le scuole di canto del mondo…te lo immagini?...” l’ autoauscultatore Pekisch, uno strumento indispensabile per creare un grande cantante”, ti dico che andrebbe a ruba…se ne potrebbero fare di tutte le misure, e studiare la pendenza migliore, provare tutti i metalli, chi lo sa, magari è i oro che bisognerebbe farli, bisogna provare, questo è il segreto, provare e riprovare, non si arriverà mai a niente, se non ci si ostina a provare e riprovare…
 
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