Fu lei a vincere, il 14 ottobre 1829, il certame di Rainhill.
In gara c'erano altre tre locomotive, ciascuna con il suo bel nome (a ciò che spaventa si dà sempre un nome, come dimostra il fatto che gli uomini ne hanno, per prudenza, due): Novelty, Sans Parell, Perseverance.
A dire il vero ne iscrissero anche una quarta: si chiamava I,e ciclopéde, l'aveva inventata un certo Brandreth, e consisteva in un cavallo che galoppava su un tapis roulant collegato a quattro ruote che correvano, a loro volta, sui binari.
Vedi come ogni volta, sempre, il passato resiste al futuro, conia incredibili compromessi senza il minimo senso del ridicolo, si mortifica perdutamente pur di continuare a possedere il presente, anche a tempo scaduto, ostinato e ottuso, e mentre profetiche caldaie in ebollizione sventolavano le loro ciminiere lucide in sbuffi e sberleffi di vapore bianco, quello montava un povero cavallo su un trabiccolo che scambiava il mezzo, cioé le rotaie, per il fine.
Lo squalificarono, comunque.
Lo squalificarono prima ancora che partisse.
Così gareggiarono in quattro, la Rocket e le altre tre.
Prima prova, un percorso di un miglio e mezzo.
La Novelty lo divorò alla media di 45 chilometri orari, destando enorme impressione.
Peccato che alla fine esplose, proprio così, esplose - dev'essere magnifico vedere una locomotiva esplodere, la caldaia che si disfa come una vescica rovente, la piccola stretta lunga ciminiera che vola, improvvisamente leggera come il fumo che ha dentro, e poi gli uomini, perché qualcuno doveva pur esserci alla guida di quella bomba innescata su due binari di ferro, gli uomini anche loro a volare come fantocci, come sbuffi insanguinati, razione quotidiana di sangue per oliare le ruote del progresso, dev'essere magnifico vedere una locomotiva correre, e poi esplodere.
La seconda prova prevedeva un percorso di 112 chilometri da coprire alla velocità di 16 chilometri orari.
La Rocket si lasciò dietro tutti, navigò sicura a 25 chilometri all'ora, uno spettacolo a vedersi.
Fatte le somme si decretò che aveva vinto.
Aveva vinto quel geniaccio di Stephenson.
E tutto questo, si badi bene, non accadde nel segreto di un interessato consesso di ricconi in cerca di un sistema veloce e indolore per portare ovunque le loro vagonate di carbone.
No.
Tutto questo si stampò, indelebile, negli occhi di diecimila persone, e cioé in ventimila occhi, guercio più guercio meno, tanti quanti accorsero da ogni parte quel giorno, a Rainhili per assistere alla gara del secolo - piccola ma enorme porzione di umanità mossa fin lì dal presentimento che qualcosa stava succedendo che le avrebbe ben presto scompigliato i meccanismi del cervello.
Videro la Rocket sfilare sul rettilineo di Rainhill a 85 chilometri orari.
E questo ancora non doveva essere uno stupore più di tanto: perché un oggetto in velocità restava pur sempre un'immagine che da qualche parte dovevano avere almeno una volta incrociato, foss'anche un solitario falco in picchiata, o un tronco giù dalle rapide del fiume, o chissà, una bomba sputata nel cielo.
Ma sconcertante, questo sì, fu il pensiero che li punse, l'elementare deduzione che se quella locomotiva non esplodeva, allora prima o poi la storia li avrebbe fatti salire là sopra, in folle corsa su quella strada ferrata, improvvisamente divenuti, loro stessi, proprio loro, falchi in picchiata e tronchi e bombe sputate nel vento.
Ed è impossibile, proprio impossibile, che non abbiano pensato, tutti, proprio tutti, con generale febbrile impaurita curiosità - cosa sarà il mondo, visto da lassù? E subito dopo: sarà quello un nuovo modo di vivere, o un modo più esatto e spettacolare di morire? Piovvero le risposte, poi, a mano a mano che fiorivano rotaie in ogni direzione e salpavano treni spianando colline e bucando montagne, quasi protervi nella loro feroce voglia di arrivare a destinazione.
Nelle orecchie entrava il ritmico lamento delle rotaie, e intanto tutto vibrava come di fatica, come di emozione - una specie di tic perpetuo che ti segava l'anima.
E nel finestrino - nel finestrino, di là dal vetro, sfilavano via i cocci di un mondo fatto a pezzi, perennemente in fuga, sminuzzato in migliaia di immagini lunghe un istante, strappato via da una forza invisibile. "Prima che inventassero le ferrovie la natura non palpitava più: era una Bella Addormentata nel bosco" scrissero.
Ma molto tempo dopo, col senno di poi.
Ci facevano su della poesia.
Al momento, proprio le prime volte che la Bella Addormentata si faceva violentare da quella macchina lanciata a colpevole velocità, fu appunto la violenza che rimase impressa nelle parole e nei ricordi.
E la paura. "É davvero un volo, ed è impossibile sottrarsi all'idea che il minimo incidente potrebbe causare la morte istantanea di tutti", così la pensavano.
E certo dovette formarsi inconsapevolmente nell'animo un nesso preciso tra quel presentimento di morte e l'immagine distorta che, dal finestrino e a prezzo del rischio della vita, il mondo tutto offriva di sé.
Come ai morti, a cui passa negli occhi in pochi istanti tutta una vita, sfilando via veloce.
A quelli sfilavano via prati, persone, case, fiumi, animali...
Bisogna immaginarselo, la paura da una parte e quel bombardamento di immagini dall'altra, o meglio una, la paura, dentro l'altro, il bombardamento, come onde concentriche di un unico soffocamento, angoscioso, certo, ma anche... qualcosa come un improvviso squarciarsi della percezione, qualcosa che doveva avere dentro la scintilla di un qualche bruciante piacere - un avvitamento progressivo del ritmo delle percezioni, dalla lenta partenza alla corsa incondizionata dentro alle cose, tutto un protocollo vertiginoso di immagini che si affastellano in disordine pigiandosi negli occhi, ferite incurabili nella memoria, e schegge, strisciate di passaggio, fughe di oggetti, polvere di cose - questo doveva essere piacere, perdìo - "intensificazione della vita nervosa", l'ha poi chiamata Simmel - sembra un referto medico - e in effetti ha il profilo, e il sapore, della malattia, quell'ipertrofia del vedere e del sentire - ti si tendevano le reti del cervello, dolorosamente, fino allo stremo, come ragnatele esauste chiamate dopo secoli di sonno a catturare il volo di immagini impazzite, figure come insetti collassati dal vortice della velocità, e il ragno, che eri tu, ad affannarsi avanti e indietro in bilico tra l'ebbrezza dell'abbuffata e la precisa, esatta, numerica certezza che la ragnatela era a un istante dal cedere per sempre, e arrotolarsi su se stessa, gi umo di bava, penzula poltiglia inservibile, nodo mai più districabile, geometrie perfette perse per sempre, squallido bolo di cervello sfatto - il piacere lancinante di divorare immagini a ritmo sovrumano e il dolore di quella gabbia di fili tesa fino allo sfinimento - il piacere e il rumore sordo dello sgretolamento - il piacere e dentro, subdola, la malattia - il piacere e dentro la malattia, la malattia e dentro il piacere - tutt'e due a inseguirsi dentro il bozzolo della paura - la paura e dentro il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro la malattia e dentro il piacere - così ti girava dentro l'anima, all'unisono con le ruote del treno scatenate sulla via fatta di ferro - perversa rotazione onnipotente - così mi gira l'anima dentro, triturandosi gli attimi e gli anni - perversa rotazione onnipotente - chissà se c'è un modo per fermarla, chissà se è fermarla che si devechissà se è proprio scritto che debba fare male così - e da dove è mai partita, magari sapendolo uno potrebbe tornare lassù, sulla cima della discesa mozzafiato, all'inizio del binario, e pensarci un po' su prima di - così si rigira l'anima dentro, perversa rotazione onnipotente - chissà se è forza o solo stremata sconfitta - e se anche fosse forza e vita, doveva proprio essere così? minuzioso e crudele sterminio che ti germoglia dentro - chissà se c'è un modo di fermarlo, o un posto - un posto qualunque dove non tiri la bisa di questa rotazione perversa che inanella i giri del progressivo e mai più reversibile sfinimento, tarlo miserabile che sfarina la presa infrangibile dei più geniali desideri - il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro - venga qualcuno e silenziosamente la fermi, l'ammutolisca in un angolo di vittoriosa quiete, la sciolga per sempre nel fango di una vita qualunque da scontare in un tempo senza ormai più oreo la faccia finita in un attimo senza memoria - üì un attimo - la faccia finita.
Sui treni, per salvarsi, per fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro, e per schivare la paura, e per non farsi risucchiare dalla vertigine della velocità che certo doveva continuamente bussargli nel cervello quanto meno nella forma di quel mondo che strisciava di là dal vetro in forme mai viste prima, meravigliose certo, ma impossibili perché il solo concederglisi per un attimo istantaneamente rimetteva in corsa la paura, e di conseguenza quell'ansia densa e informe che cristallizzata in pensiero si rivelava a tutti gli effetti nient'altro che il sordo pensiero della morte - sui treni, per salvarsi, presero l'abitudine di consegnarsi a un gesto meticoloso, una prassi peraltro consigliata dagli stessi medici e da insigni studiosi, una minuscola strategia di difesa, ovvia ma geniale, un piccolo gesto esatto, e splendido.
Sui treni, per salvarsi, leggevano. Linimento perfetto.
La fissa esattezza della scrittura come sutura di un terrore.
L'occhio che trova nei minuscoli tornanti dettati dalle righe la nitida scorciatoia per sfuggire all'indistinto flusso di immagini imposto dal finestrino.
Vendevano, nelle stazioni, delle apposite lampade, lampade per la lettura.
Si reggevano con una mano, descrivevano un intimo cono di luce da fissare sulla pagina aperta.
Bisogna immaginarselo.
Un treno in corsa furibonda su due lame di ferro, e dentro il treno un angolo di magica immobilità ritagliato minuziosamente dal compasso di una fiammella.
La velocità del treno e la fissità del libro illuminato.
L'eternamente cangiante multiformità del mondo intorno e l'impietrito microcosmo di un occhio che legge.
Come un nòcciolo di silenzio nel cuore di un boato.
Non fosse storia vera, vera storia, si potrebbe pensare: non è che la bellezza di un'esatta metafora.
Nel senso che forse, . sempre, e per tutti, altro non è mai, léggere, che fissare un punto per non essere sedotti, e rovinati, dall'incontrollabile strisciare via del mondo.
Non si leggerebbe, nulla, se non fosse per paura.
O per rimandare la tentazione di un rovinoso desiderio a cui, si sa, non si saprà resistere.
Si legge per non alzare lo sguardo verso il finestrino, questa è la verità.
Un libro aperto è sempre la certificazione della presenza di un vilegli occhi inchiodati su quelle righe per non farsi rubare lo sguardo dal bruciore del mondo - le parole che a una ad una stringono il fragore del mondo in un imbuto opaco fino a farlo colare in formine di vetro che chiamano libri - la più raffinata delle ritirate, questa è la verità.
Una sporcheria.
Però: dolcissima.
Questo è importante, e sempre bisognerà ricordarlo, e tramandarlo, di volta in volta, da malato a malato, come un segreto, il segreto, che non sfumi mai nella rinuncia di nessuno o nella forza di nessuno, che sopravviva sempre nella memoria di almeno un'anima sfinita e lì suoni come un verdetto capace di far tacere chicchessia: léggere è una sporcheria dolcissima.
Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro? No, quella è la sola e più dolce custodia di ogni paura - un libro che inizia.
Così che, insieme a migliaia di altre cose, cappelli, animali, ambizioni, valigie, soldi, lettere ' g, d amore, malattie, botti lie armi, ricordi, stivali, occhiali, pellicce, risate, sguardi, tristezze, famiglie, giocattoli, sottovesti, specchi, odori, lacrime, guanti, rumori - insieme a quelle migliaia di cose che già sollevavano da terra e lanciae, vano a velocità prodigiosa quei treni che rigavano avanti e indietro il mondo come ferite fumanti si portavano dentro anche la solitudine impagabile di quel segreto: l'arte di leggere.
Tutti quei libri aperti, infiniti libri aperti, come finestrelle aperte sul dentro del mondo, seminate su un proiettile che offriva allo sguardo, solo si avesse avuto il coraggio di alzarlo, lo sfavillante spettacolo del mondo di fuori.
Il dentro del mondo e il mondo di fuori.