Szymusiak, Molyda - Il racconto di Peuw, bambina cambogiana

ayuthaya

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Nel ’75 Peuw aveva dodici anni. Abitava a Phnom Penh, capitale della Cambogia, con i genitori e quattro fratelli. Non lontano, nel suo stesso quartiere, abitavano la nonna, la zia e i cugini. Era, la sua, una famiglia borghese: padre e zio erano alti funzionari e lavoravano nel palazzo del ministero. Entrano a Phnom Penh i khmer rossi. Sono dei ragazzi soldati. Sono vestiti di nero; avanzano, armi in spalla, con visi impenetrabili. Alla popolazione danno ordine di andarsene immediatamente dalla città, dovendo «fare pulizia»...

Il racconto di Peuw è l'autobiografia degli anni vissuti, da questa ragazzina come tante, sotto il regime comunista di Pol Pot. Di una famiglia allargata composta da più di una decina di membri, alla fine di questo incubo sopravviveranno solo lei e tre cugini, tutti accolti presso famiglie francesi che li adotteranno.

Ho deciso di leggere questo libro in un momento particolare della mia vita che mi trova ancora più legata alla Cambogia, un Paese al quale ero già molto affezionata per averlo visto (anche se dovrei dire "vissuto") di persona e per aver appreso, se non tutto, almeno qualcosa delle sue travagliate vicende...
Eppure, benchè fossi più che consapevole che ciò che mi accingevo a leggere non fosse certo il racconto di una scampagnata fra amici, devo dire di essere rimasta davvero sconvolta dalla lettura di questo diario. Mi chiedo cinicamente che senso abbia inventare o cercare storie violente, atroci, per un (discutibile?) gusto del macabro, quando la Storia ci ha dato ripetutamente prova che l'orrore della realtà è insuperabile.
Mentre leggevo il resoconto angoscioso, a tratti raccapricciante, degli anni vissuti da Peuw sotto il dominio dell'Angkar, riuscivo solo a chiedermi in modo sciocco, infantile, imbambolata in una sorta di disco rotto: ma com'è possibile che tutto questo sia potuto accadere??? COME - E' - POSSIBILE.

Le violenze in un regime non hanno etichette, non hanno classifiche, meno che mai hanno giustificazioni. Ma mentre leggevo non potevo fare a meno di pensare che dietro questo orrore c'è stato il progetto lucido, spietato ma tutt'altro che "folle" di creare un uomo "nuovo", di restituire una nuova identità, e dignità (???) al popolo cambogiano. Non una guerra fra fazioni diverse. Non il prevaricare di una razza sull'altra per ragioni di presunta superiorità. No. Il progetto di un'uguaglianza "a tutti i costi".

Non ho molte altre parole per commentare questo libro, se non quelle per sottolineare che di questioni politiche e ideologiche in queste pagine non vi è alcuna traccia (tutto ciò che so, lo sapevo da me, a priori). E questo rende la lettura ancora più dura e straziante: una ragazzina alle soglie dell'adolescenza racconta in modo metodico e meccanico le privazioni, le minacce e le sofferenze subite. Non c'è occasione di chiedersi "perchè", non c'è occasione neanche di piangere su se stessi, di compatirsi. Non un filo di compassione mitiga il dolore che suscita questo libro... non ne sono sicura perchè non posso provarlo, ma credo che oltre una certa soglia di orrore non ci sia più spazio per nulla, nemmeno per la voglia di sopravvivere.

Inutile concludere dicendo che non consiglio assolutamente questo libro a chiunque. Troppo crudo, troppo vero... io non sono impressionabile, eppure ci sono stati momenti in cui ho dovuto interrompere la lettura per non stare male. A chi lo consiglio allora? A chi come me si sente legato a questo Paese meraviglioso, magico. O a chi, semplicemente, vuole sapere. Capire non si può. Ma si può cercare di sapere, anche se è "passato", anche se noi non possiamo farci nulla. Sapere e basta.
 
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