Avevo voglia, dopo parecchio tempo, di un libro "ebreo": non solo scritto da un ebreo, ma permeato di "ebraicità". Ho seguito un consiglio e ho scelto La controvita di Philip Roth: se già l'autore è molto "ebreo", questo romanzo lo è in modo particolare e mi è piaciuto talmente tanto da diventare uno dei miei preferiti, pari forse al solo Teatro di Sabbath.
Il romanzo si apre descrivendo una situazione abbastanza particolare, ma che richiama uno dei temi cari all’autore: il sesso come (apparente) ragione di vita. Un uomo malato di cuore si sottopone a una cura farmacologica che dal punto di vista medico è perfettamente riuscita; l'unico problema è che porta con sè una controindicazione: l'impotenza.
Henry Zuckerman, dentista di grande professionalità, marito e padre quasi modello (se gli si perdona una relazione extraconiugale di poco conto), è talmente disperato di dover rinunciare ai rapporti con la sua amante, la giovane segretaria, da valutare seriamente l'ipotesi di sottoporsi a un'operazione abbastanza frequente, ma non esente da rischi. In preda alla crisi, l’uomo non sa se confidarsi con il fratello, con cui ha un rapporto difficile e che è niente meno che il famoso Nathan Zuckerman, alter ego dello stesso Roth e protagonista o personaggio di molti suoi romanzi.
Queste prime pagine sono riportate in corsivo, quasi a farci sospettare subito che ci sia qualcosa sotto... non si scrive mica un intero romanzo in corsivo! E infatti, a un certo punto, scopriamo che ciò che abbiamo letto fino a quel momento non è successo “davvero”, ma è la bozza buttata giù dallo stesso Nathan come elogio funebre per il fratello... morto sotto i ferri durante la famosa operazione.
Il romanzo si concentra quindi sul funerale del medico e sui sentimenti contraddittori di Nathan di fronte a questo evento, fino a quando, con l’inizio della seconda parte (il libro ne conta cinque) la situazione si ribalta nuovamente e abbiamo a che fare con altre vicende, un’altra “realtà”…
Inizia così un gioco di specchi, rimandi, supposizioni e pure invenzioni, fantasie e diffamazioni, "vita" e "controvita"; un gioco nel quale noi lettori siamo più coinvolti che mai, perchè di volta in volta ci viene chiesto di fidarci dell'ultima versione presentata o piuttosto di non fidarci di nessuna versione, di mettere in discussione tutto ciò che è scritto, finanche la legittimità di un autore di raccontare una qualche "verità".
Per chi, come me, è affascinato dalle metastorie, dall’osmosi fra vita e letteratura, realtà e finzione, vissuto e immaginato, c'è pane per i propri denti.
Ma, come accennavo all'inizio, c'è un altro tema dominante ed è l'interrogarsi sul significato profondo dell'essere ebrei: si può essere veri ebrei nella diaspora e magari nell’indifferenza nei confronti dei riti? L’ebreo israeliano che combatte per veder riconosciuto il proprio Paese è l’unico degno di questo nome? E soprattutto, l’"ebraicità" è un marchio indelebile, a scapito di qualsiasi tentativo, più o meno consapevole, di ignorarlo?
Il romanzo affronta tutto questo, attraverso una carrellata incredibile di personaggi, ebrei ognuno a suo modo: l’americano di origine ebraiche che di fatto non si è mai interessato alla fede dei suoi avi né alle vicende della Terra Santa; il leader di un insediamento israeliano, fanatico e deciso a mostrare al mondo il “lato duro” del suo popolo; l’ebreo che dopo una vita disinteressata si riscopre fervido sostenitore del sionismo e abbandona tutto e tutti per seguire la sua nuova vocazione; il terrorista mascherato dietro la figura di un personaggio ingenuo e non molto sveglio; l’ebreo intellettuale e cinico, che non riesce a prendere sul serio niente di tutto ciò… La creatività di Roth è inesauribile e credo che in questo romanzo raggiunga l’apoteosi.
C’è un ultimo aspetto (o per meglio dire, l’ultimo aspetto che voglio sottolineare qui) e che, anche in questo caso, non è nuovo a chi conosce l’autore: il conflitto fra il rispetto delle regole e il loro rifiuto, fra una sottomissione di comodo e la ferrea volontà di salvaguardare la propria libertà di scelta. Nathan ed Henry: il primo è un uomo indipendente, risoluto, un libertino (sebbene abbia alle spalle diversi matrimoni falliti) e soprattutto un uomo che sembra anteporre la propria libertà di espressione a tutto il resto, compreso il rispetto della sua famiglia, il suo diritto alla privacy. Henry, al contrario, è sempre stato ligio alle regole e, quando le ha infrante (ad esempio intraprendendo una relazione adulterina), lo ha fatto comunque in modo “convenzionale”, quasi si trattasse di una ricompensa meritata e necessaria per mantenere il proprio equilibrio. Lo scontro fra i due è inevitabile, soprattutto nel momento in cui Henry si sente “giudicato”, psicanalizzato, etichettato dal fratello maggiore.
Come se non bastasse, nel moltiplicarsi di vite parallele che caratterizza questo libro e che lo rende unico, Roth non può fare a meno di immaginare un’inversione dei ruoli: l’uomo ligio alle regole (più o meno) decide di mettere tutto in discussione e di cambiare rotta, e l’uomo eternamente ribelle anela finalmente a una vita tranquilla, abitudinaria, "cristiana": il massimo della convenzionalità (per un ebreo).
Come andrà a finire? In un certo senso non ha importanza. Poiché, come ho detto all’inizio, non c’è dato sapere qual è la realtà e qual è l’immaginazione (all’interno comunque di quella finzione che è la letteratura), qualsiasi opzione resta tale: una possibilità, una “controvita”.
Bellissimo.