Il mio "LIBRO" prologo e primi capitolo

TheLand

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Ciao a tutti, ho voluto mostrarvi la mia creazione:
Le quattro pietre del potere. Lo faccio perchè vorrei sapere cosa ne pensate. Sto provando a fare "un libro" spero di riuscire nel mio obiettivo.


Prologo

- Le quattro pietre del potere presenti nel mondo sono sorvegliate da quattro guardiani di diversi elementi: oscurità, luce, fuoco ed acqua. L’anima pura sarà colei che utilizzerà le pietre per creare il mondo edenico; l’anima sporca sarà colei che sfrutterà le pietre per portare distruzione nel mondo. Questa è una leggenda, ragazzi, incisa su una stele di diamante trovata negli ambienti polari.
Raccontava la supplente durante l’ora d’italiano alla nostra classe, era la prima volta che la vedevo, non l’avevo mai notata per i corridoi; non c’era nessun alunno che l’ascoltava.
Eravamo in trenta ragazzi. C’era caos: le gomme e gli aeroplanini di carta volavano accompagnati dalle sguaiate risa dei miei compagni.
Solo io seguivo l’insegnante come un teledipendente davanti al suo programma preferito. Pendevo dalle sue labbra: adoravo le storie fantastiche dove potevo perdermi e non pensare al difficile mondo che mi circondava, ai problemi che avevo. Potevo rifugiarmici, quando mi sentivo triste e solo.
Potevo trovare un momento di pace.
Appena la campanella suonò la fine dell’ora, come tutti i giorni, i miei compagni uscirono come un’orda di buoi dalla classe non degnandosi nemmeno di salutare la professoressa; io, invece, uscii lentamente.
Fermandomi sulla porta mi volsi per chiedere spiegazioni alla supplente, volevo scoprire di più sull’argomento con cui mi aveva allietato durante la lezione, ma non c’era traccia di lei. Pensavo di non averla vista subito, così mi misi a cercarla con lo sguardo, ma non c’era davvero. Eppure non mi sembrava che fosse uscita dall’aula prima di me; probabilmente si era unita a quei buoi in direzione dell’uscita. Deluso mi ci diressi anche io.
Arrivai a casa verso sera. Tutti i giorni impiegavo una cinquantina di minuti per andare e tornare da scuola. Durante il tragitto mi rinfrescavo la memoria pensando a quello che avrei dovuto fare tornato a casa; richiamavo alla mente ciò che avevo vissuto a scuola e meditavo sui comportamenti avuti con i miei compagni o amici, chiedendomi se avessi o avessero fatto qualcosa d’inopportuno.
Scesi dall’autobus che sostava, fortunatamente, davanti alla mia bella villetta decorata con drappeggi di vario genere.
Mia madre faceva l’avvocato e quindi non avevamo problemi economici, visto che anche in questo periodo era impegnata in una causa molto complessa.
Mio padre era un poliziotto, era morto da tempo in un incidente stradale mentre stava inseguendo una banda di ladri che avevano appena svaligiato una banca; un camion non l’aveva visto. Non lo ricordo molto bene: avevo quattro anni.
Scacciai questi brutti ricordi in prossimità della porta. La serata che avrei passato sarebbe dovuta essere allegra, piena di gente con doni da regalarmi, piena di amici e volti sorridenti, di tutte le chiacchiere che avremmo dovuto fare. Immaginavo già la faccia degli invitati che si abbuffavano di tutti i dolci: era il mio diciottesimo compleanno.
Ma sentivo un brutto presentimento, là davanti alla porta del posto, in teoria, più sicuro in cui avrei potuto essere.
Però sentivo quella porta che avevo visto così tante volte, con quel colore marrone scuro, tipico del tek, con il pomello dorato, in quel momento mi suscitava tristezza. Non riuscivo a spiegarmi il perché. Aspettai un momento per vedere se quella sensazione così sgradevole se ne sarebbe andata; e solo allora mi accorsi di tutte le luci della casa spente: mia mamma sarebbe dovuta già essere dentro.
Controllai l’orologio al polso che era di mio padre. Erano un quarto alle sei. Adesso mi sentivo ancora più preoccupato e a disagio di prima, la sensazione si era intensificata.
Non ci pensai più, inserii la chiave e aprii la porta.
C’erano, come si vedeva da fuori, le luci spente. Mi guardai attorno aspettandomi la comparsa di tutti urlanti di felicità. Ma non successe niente. Che mi giocassero uno scherzo? No, non poteva essere. Aspettai qualche altro secondo, mi affluiva alle narici un olezzo di carogna. Cercai l’interruttore, terrorizzato, tastando con la mano il muro, dopo pochi momenti riuscii a premerlo.
La luce si accese. Vidi per terra pozze di sangue provenienti da corpi a me noti. Non seppi mai come si mostrò il mio viso in quel momento, ma sapevo cosa stavo provando: stupore, tormento, terrore.
Sul pavimento erano stese persone che amavo. Ad una prima occhiata sembravano tutti morti. M’inginocchiai e voltai la salma dalla chioma riccia e rossa che assomigliava a mia madre; la capigliatura si confondeva col profondo rosso del suo sangue.
La misi con la schiena rivolta verso il pavimento, con un braccio le sostenni il busto, appoggiai la mia fronte sulla sua e piansi. Piansi silenziosamente.
Ridestatomi la posai delicatamente, mi alzai. Mi sentivo svuotato, ora il mio unico obiettivo era vendicarmi dell’uomo avente compiuto quest’abominio; l’avrei torturato fino all’ultimo respiro.
Risentimento. Odio. Astio. Rancore.
Questo sentimento albergava nel mio cuore in quel momento, ed è la cosa di cui mi pento ancora adesso. Non avrei mai chiamato la polizia: non si doveva intromettere. Allora riguardava solo me.
Sentii un rumore provenire dal piano di sopra: probabilmente l’omicida aveva intenzione di sgraffignare qualcosa prima di svanire, ma aveva fatto male i calcoli: non l’avrei mai fatto scappare, lo volevo morto.
Al piano superiore c’erano il bagno e la stanza di mia madre avente un muro in comune con la mia camera.
Attraversai la cucina e mi diressi verso le scale che si trovavano nel soggiorno. Salii pian piano cercando di fare il minimo rumore per cogliere di sorpresa l’infame; arrivai in cima alle scale e raccolsi la scopa che si trovava all’entrata della porta della mia cameretta, l’avrei utilizzata come arma; imboccai il corridoio per arrivare alla camera da letto di mia…
Non avevo la forza di pensare qualunque parola che mi ricordasse lei.
La porta era semiaperta, mi accostai e lo vidi. Rovistava tra i preziosi di lei, sembrava tranquillo come se non aspettasse nessuno; sicuro, aveva già ucciso tutti. Pensando a ciò mi lacrimarono gli occhi, me li asciugai, non dovevo piangere in un momento così delicato, presto lo avrei avuto tra le mani. Robusto e abbastanza alto, indossava una tuta nera abisso e sotto cui si potevano scorgere muscoli ben gonfiati.
Mi concentrai, non dovevo fare alcun errore, mi apprestai a spiccare un salto. Saltai; la porta sbatté violentemente contro la parete facendo cadere un quadro raffigurante la Fortuna. Me ne sarebbe servita parecchia in quel momento, ma, come si sa, la fortuna è cieca.
Gli picchiai il manico della scopa sulla schiena facendolo rompere, logico sarebbe stato che provasse un po’ di dolore; purtroppo, in quei minuti passanti, niente sarebbe stato logico. Non sembrava che gli avessi fatto neanche un graffio.
Rapidamente si voltò prendendomi per il colletto e sbattendomi addosso alla parete; la sua presa era energica come la morsa di un lupo; cercai di divincolarmi, però con scarsi risultati. La presa cominciò a farsi più pressante; tutta la mia baldanza stava lasciando il posto alla paura.
Ormai mi avrebbe ucciso.
Mi avrebbe fatto un piacere che non avrei potuto ricambiare, mi avrebbe liberato dal dolore che provavo e che mi avrebbe sempre perseguitato. Se non che mi sentii riempire di una forza incontrollabile che utilizzai per afferrare il braccio del mio aggressore riuscendo a sganciarlo dalla mia gola. Sentivo palpitare tutti i muscoli. Chiusi l’altra mano a pugno e gli sferrai un gancio allo stomaco, scaraventandolo contro la porta balcone che si trovava a pochi metri innanzi a noi. Il vetro si frantumò provocando un rumore squillante. Non realizzai come fossi riuscito a fare una cosa del genere, in quel momento non ebbi il tempo di pensarci. Lui aveva la schiena contro il balcone di ferro color nero, si inginocchiò fissandomi negli occhi, guardandoli vidi nella sua espressione un attimo di esitazione e stupore.
Presi la sedia, che si trovava sotto alla scrivania su cui eran appoggiati i gioielli, e gliela lanciai; mostrò un anello con effigiato un camaleonte e lo infilò al dito scomparendo, la sedia si ridusse a pezzi contro la balconata.
Rimasi di sasso soffermandomi su quel curioso avvenimento. Feci passare qualche minuto, non sapevo il perché, probabilmente pensavo che potesse ricomparire da un momento all’altro, così come si era volatilizzato.
Mi specchiai nello specchio che si trovava al di sopra della scrivania, rimasi impaurito nel vedere il mio nuovo color rosso sangue degli occhi. Non ebbi il tempo di pensare ad altro che tutti i gioielli si misero a levitarmi di fronte.
Emanavano un forte brillio dorato, si attorcigliavano
l’un l’altro come viscidi serpenti nella stagione dell’accoppiamento, formando una scritta ispirante malessere; qualcosa più forte di me mi costrinse a leggerla:

Erouc oim len ihgrebla elam li ehc

Non capivo cosa potesse esserci scritto, magari voi lo capite.
Sentii un vento che mi spingeva verso l’armadio che sapevo avere alle spalle. Innanzitutto volli provare ad andargli contro, tuttavia era talmente forte da smuovermi; volsi lo sguardo verso quello che doveva essere il mio arrivo: l’armadio era aperto con all’interno l’oscurità più buia che potesse esserci nell’antro di un ragno. Buffamente mi ritrovai a pensare ad una mosca in una trappola di tela.
Mi rigirai verso lo specchio e rimasi di stucco: l’uomo prima svanito ora era ricomparso dinanzi, mi diede una spinta, facendomi cadere nel vuoto. Tutto divenne buio.

La vita nella quotidianità

Mi svegliai; ero nel mio bel lettino morbido e confortevole fatto di paglia.
Alzai lo sguardo verso la finestra che si trovava nella parte opposta alla mia. Il sole stava per sorgere, era estate. Mi guardai intorno con i gomiti appoggiati al lettuccio e con la schiena rialzata. Ero nel mio solito dormitorio con i miei soliti compagni di stanza: Reumork, elfo un po’ vivace e con poca voglia di studiare; Bisfot, altro elfo che faceva compagnia al primo; Farenhein studioso avente una particolare capacità nelle arti magiche; infine c’ero io, Hell guerrigliero e con la passione per le armi.
Non mi interessava molto la magia tranne che per comodità.
A sproposito, dovevo sbrigarmi se volevo arrivare un po’ prima che tutti si affollassero nelle varie classi: odio il caos.
Mi tolsi il pigiama e mi vestii con i miei abiti quotidiani: un paio di calzoni lunghi, una maglia e scarpe comode.
Presi una borsa a tracolla in cui posai i libri necessari e dei fogli su cui avrei dovuto prendere appunti, non li prendevo spesso perché a volte non avevo voglia di scriverli, ritornati in camera li avrei copiati da Farenhein.
Uscii cercando di fare il minimo rumore possibile per non svegliare i miei compagni.
Mi ritrovai nel corridoio che portava all’aula di Teoria.
La scuola aveva una forma a raggiera: il punto centrale da cui si dislocavano i vari corridoi che portavano alle molteplici stanze. Era suddivisa in quattro piani tutti molto simili tra di loro, l’unica differenza era l’aula centrale: al pian terreno c’era l’Arena, al primo piano l’aula in cui mi stavo dirigendo, al secondo piano l’ Arte Magica ed infine all’ultimo piano abitava lo Scheimen, l’uomo più importante di tutta la scuola. Ma quella che frequentavo non era l’unico edificio scolastico, ne esistevano altri tre, per i vari generi di studio; ognuna di essi si trovava in un punto cardinale, collegati tra loro da mura che formavano un quadrato perfetto al cui interno sorgeva la Città, dove abitavano tutte le famiglie. Avevano tutte le stesse strutture ed edifici simili. Capitava a volte che gli studenti delle varie scuole si spostassero nelle altre per bisogni vari.
Tutta la cittadella era composta da alberi a cui gli Scheimen, dei diversi istituti, avevano plasmato a loro piacere trasformandoli in case per i cittadini, in scuole e tutti gli arredamenti interni.
Che stupido! Dimenticavo i libri, rientrai nella stanza, li presi ed uscii.
Mi diressi verso l’aula.
Odiavo le materie di studio: erano noiose e non mi piaceva un granché leggere, preferivo l’addestramento corpo a corpo dove potevi muoverti e non avevi nient’altro che da studiare l’avversario sul momento.
Su dieci frequentavo l’ottavo anno, sapevo utilizzare al meglio quasi tutte le armi che si conoscevano: arco, balestra, spada, giavellotto, ascia, ecc…
La mia preferita è la spada; ne utilizzavo una lunga e sottile con effigiate fiamme nere, molto spettrali, e presente al centro dell’attaccatura tra la lama e l’elsa un rubino. Mi piaceva molto, era un regalo fattomi da mio padre.
Per diventare stregoni bisognava studiare ed esercitarsi per dieci anni, almeno; e poi esistevano tante altre categorie, ma queste due erano le più diffuse.
Arrivai alla fine del corridoio, mi apprestai ad entrare nell’aula, quando la vidi: era la più graziosa elfa che avessi mai visto, sguardo affabile con occhi azzurri, lunghi capelli corvini appena appena mossi, longilinea con andatura campagnola.
Arrossii non capendo il perché, certo, era una bella ragazza, ma non che mi piacesse particolarmente, però sentivo questa strana e bella sensazione.
Teneva in mano i libri di teoria.
La conoscevo, eravamo amici di vecchia data. Voleva diventare un’alchimista, coloro che miscelavano vari ingredienti per ottenere pozioni; avrebbe dovuto studiare per altri tre anni: frequentava il quinto.
- Ciao Eleanor!
- Ciao Hell! -, una ragazza gentile, - Come va? Sono spossanti gli allenamenti?
- Si, ma si tira avanti. Io sto bene, come te la passi tra tutte quelle pozioni, ingredienti schifosi e parti di animali?
- Certo che se tu fossi stato davanti ad un altro alchimista descrivendogli in questo modo la sua professione, di tutto rispetto, penso che il suo pugno si sarebbe già scontrato con il tuo naso. Comunque la mia carriera mi soddisfa molto e non vedo l’ora di arrivare all’esame ed essere ufficialmente promossa alchimista-, una ragazza molto diretta.
- Oh! Scusami. Io devo andare. Ci rivediamo.
- Ok. - si allontanò, la guardai arrivare fino all’angolo del corridoio e voltandosi mi gridò – Stai tranquillo Hell non me la sono presa!-, e poi si sottrasse alla mia vista.
Ero soddisfatto dell’incontro. Mi aveva riempito di una immensa gioia. Non avevamo il tempo di vederci se non nella scuola mentre correvamo da un aula all’altra, però le poche volte che la vedevo mi soddisfavano, certo se ci fossimo visti di più, sarebbe stato meglio, ma non chiediamo troppo dalla vita.
In quel momento, non ne seppi il motivo, mi vennero in mente i miei genitori: mio padre era guardiano della scuola, mia madre era nella città insieme alla mia cara sorellina: Emily, aveva dieci anni e non era ancora pronta per frequentare la scuola. Durante le vacanze, che tutti tornavano alle proprie gradevoli case, nella notte mi raccontava il suo desiderio di diventare una strega provetta, fantasticando un po’ sul suo futuro che si mostrava pieno di epiche battaglie, con i libri che narravano le sue leggende; si, era proprio una bambina fantasiosa.
Notai la presenza di più studenti nei corridoi, mi affrettai ad arrivare nell’aula.
La stanza aveva una forma semicircolare: nel semicerchio erano poste le sedie con le scrivanie, mentre una piccola area rettangolare era adibita alla cattedra da dove il professore spiegava le sue “interessanti� lezioni. Tutto era fatto di legno: pavimento, soffitto, pareti, ecc…
Non ero il primo ad essere arrivato, c’erano già un paio di altri scolari; il professore non era presente, ancora.
Mi sistemai al mio solito posto, appoggiai la borsa ed estrassi i libri poggiandoli sul banco.
Non avevo fatto amicizia con tante persone a causa della mia timidezza, tuttavia non era solo il mio carattere la ragione della mia poca apertura con gli altri. La maggior parte avevano un comportamento da veri maleducati e straviziati che mi facevano saltare i nervi appena aprivano bocca. Gli riusciva inserire imprecazioni in ogni frase che pronunciavano, si vantavano di avere i libri con i bordini dorati o con mignature interne, i loro genitori gli permettevano di fare ciò che volevano e altre simili stupidaggini da bambini carenti di facoltà intellettive da impaurire persino le creature più stupide che esistano in tutta Isliuden, il Regno degli Elfi.
Così stavo in solitudine e mi facevo compagnia tra me e me, pensando agli allenamenti compiuti nei vari giorni o a rimuginare su eventi accaduti di recente.
In pochi minuti l’aula si riempì di studenti, ancora un po’ assonnati, lo si capiva dai loro visi e dagli sguardi modicamente assenti.
Il professore entrò con un irrilevante ritardo, avvenimento quotidiano, non c’era da preoccuparsi. Era un adulto con capelli lunghi, ma legati con un laccio all’indietro, portava occhiali piccoli e dalle aste nere e, solitamente, aveva un aspetto tranquillo, maniere severe e riusciva a farsi rispettare con facilità dagli studenti disobbedienti.
Però quel giorno aveva un aspetto più pallido del solito. Portava un lungo abito blu zaffiro, con ricami argentei che si allungavano su tutta la tunica, allargandosi verso il basso faceva trasparire gli azzurri calzoni che sovrastavano le scarpe bianche di cuoio. Trasportava la sua solita sacca nera che posò sulla cattedra.
Estrasse i libri con una lentezza innaturale, come se stesse pensando ad altro, probabilmente a qualcosa di negativo.
Molto negativo.









Quel giorno non era come tutti gli altri

- Buongiorno ragazzi – aveva la voce che gli tremava
- Buongiorno professore – gli rispondemmo noi alzandoci educatamente e risedendoci subito dopo.
Appena il professore iniziò a spiegare il nuovo argomento della mattina, mi accorsi di avere di fianco Farenhein attento alla spiegazione. Notai due profonde occhiaie che gli comparivano sotto ai suoi verdi occhi, segno di uno studio diurno. Stava troppo sui libri quel ragazzo, uno di queste giornate l’avrei dovuto prendere e portare fuori all’aria fresca per farlo distrarre. Per fortuna che c’era lui, uno dei miei amici, che quel ciarlatano di Kalser, la personificazione dell’irritazione.
Quella mattina stregoni e guerrieri erano insieme perché avevano la stessa materia, capitava spesso.
Passate le tre ore di completa distrazione, mi recai assieme a Farenhein alla mensa che si trovava in uno dei corridoi al pian terreno. Stavo ancora pensando al professore, al perché avesse un aspetto così malandato quel giorno. Per i pochi minuti che avevo seguito la sua spiegazione mi sembrava distaccato e freddo.
Mentre mi angustiavo in quello strano fatto, Farenhein, sempre troppo gentile, mi aveva preso il pasto del giorno: carote sminuzzate assieme a zucchine tritate ed a patate bollite: non potevamo mangiare carne, non uccidevamo animali per il nostro benessere e chi venisse sorpreso a compiere questo sacrilegio sarebbe stato bandito per tempi lunghissimi.
Lo ringraziai e ci sedemmo ad un tavolo.
Parlottammo di gite future, dei compagni di classe e del professore.
-Strano oggi il prof., nevvero?- gli domandai con noncuranza.
-Già, aveva l’aspetto di chi pensasse ad altro- non ero l’unico ad averlo notato allora. -Ed era davvero pallido. Sembrava che avesse visto un Demone-. Al solo sentire il suono di quella parola mi si accapponò la pelle.
I Demoni erano rinnegati per atti che solo elfi malati si macchierebbero: distruzione di interi boschi, pratica di magie oscure e proibite, caccia di animali rari, e molto altro. Esiliati nell’ Uläedion, il Mondo Infernale, una prigione che si trovava in un altro spazio accessibile attraverso dei varchi altamente sorvegliati. I Demoni si nutrivano di sentimenti negativi come l’odio e l’invidia. Avevano un aspetto che variava da demone a demone, poteva essere mostruoso oppure mortalmente grazioso. Erano la vera essenza del Male, dell’Oscurità.
Gli orchi a loro confronto non sono che eleganti animali da giardino.
Possedevano un potere misurato alle loro emozioni, come noi Elfi, del resto. Sventura era per colui che li incontrava.
-Ehi ci sei, sei tra noi?- la voce del mio compagno di tavola mi raggiunse come un sussurro. Mi stava salutando con la mano.
-Si. Ci sono, scusami, ero sovrappensiero-
-L’avevo notato. Comunque è ora di andare, la cuoca ci ha avvertito di sparecchiare e dirigerci verso le aule in cui abbiamo lezione- Farenhein si alzò sinuosamente col suo corpo leggero e agile, appoggiando la sedia sotto al tavolo e prendendo il suo vassoio –Allora ti svegli? -
-Si, arrivo- gli risposi, mi alzai, presi il mio vassoio ed insieme ci dirigemmo a buttare via l’avanzo.
Poi dovemmo dividerci: lui aveva alchimia e io le solite tre ore di addestramento corpo a corpo.
Dirigendomi alla stanza incontrai Reumork e Bisfot, sempre insieme quei due pigroni; li chiamai:
-Ehi! Ragazzi dobbiamo andare non venite?-
-Tra un momento, dobbiamo andare a svuotarci dell’orribile e pesante pasto- mi rispose Reumork, mentre Bisfot mi disse che doveva accompagnare l’amico per assicurarsi che non svenisse.
-Perché dovrebbe svenire?- gli chiesi non capendolo.
-Oh! Non lo capisci che è una scusa? Uffa, mi toccherà lasciarti solo amico- rivolgendosi a Reumork –è meglio che vada a spiegare la delicata organica situazione-
E l’amico elfo lo rassicurò teatralmente, con un tono di voce sicuro e profondo –Stai tranquillo amico mio, mi insinuerò negli angoli più remoti del bagno- mosse il braccio verso il suo cuore -Sfiderò l’odoraccio a cui mi sottoporrò. Forse è effettivamente meglio che segui Hell, non ti vorrei perdere nella mia battaglia contro le forze nauseabonde-
Ghignando Bisfot rispose -Hai ragione, ho ancora una lunga vita davanti-
Ci salutammo. Io ed il mio compagno camminando camminando per i corridoi, scherzando e ridendo, arrivammo alla meta.
L’allenatore era già arrivato, ma non ci degnò nè di uno sguardo pieno di irritazione nè di un saluto ordinario. Ci ordinò semplicemente di sederci.
Era solitamente un insegnante irrequieto e bizzarro. Aveva capelli corti bianchi, piuttosto vecchio; quel giorno indossava una tunica nera e viola che creava un forte contrasto con la chioma, era un abile guerriero, muscoloso, tuttavia non troppo grosso. Occhi di un verde chiaro.
Insieme agli altri studenti facemmo esercizi di riscaldamento che non perdurarono per lungo tempo.

Era dal mattino presto che pattugliavo il portale est della città. Adesso il sole ci guardava tutti dal suo punto più alto.
Alcune minacciose nubi si stavano spostando verso la regione. Mi sentivo trepidante, non mi sentivo più così da molto tempo, forse mi stavo solo preoccupando per alcuni strani lupi che avevo scorto a mezza mattinata; era insolito che si avvicinassero alla città di giorno.
Continuavo a pattugliare.
Venni chiamato all’ordine da un mio superiore. Era un valoroso comandante dall’aspetto deciso e minaccioso, alto, moro, con capelli corti, robusto. Aveva una moglie con un figlio e una figlia. Aveva duecento anni, un elfo nel fior fiore della sua vita
-Notato qualcosa di insolito ragazzo?-i suoi lineamenti così marmorei si affievolirono un po’.
-No signore- mi lanciai nel solito saluto da rivolgere a personaggi di più alto rango: un inchino,-Notato niente di insolito tranne un gruppo di lupi alquanto grossi, ma niente di cui preoccuparsi-
-Non perderli di vista, potrebbero indicare problemi-
-No, signore, non li perderò di vista, sarò attentissimo-
-Brava sentinella- si incamminò verso la prossima sentinella con cui parlare. Faceva spesso il giro per controllare che fossimo attenti. Fissai a lungo la sua armatura così incantevole, chiunque avrebbe voluto indossarla: color azzurro chiaro, ricopriva ogni sua parte del corpo tranne due fessure sulla schiena per far fuoriuscire le ali nel momento di bisogno. Più un armatura era chiara e più alto era il rango, all’interno di questa città.
Guardavo perso tutto intorno a me: il bosco di Zäuil a nord dove viveva una Regina solo lo sheriman poteva incontrarla, si sapeva poco della sua esistenza, circolavano molte leggende, si pensava che fosse un’ anima rifugiatasi nella foresta per sfuggire a demoni che volevano nutrirsene; a ovest sorgevano i Monti Eremiti, dove vivevano in solitudine molte persone in cerca di chiarezza; a sud vi erano vie per città e villaggi conosciuti e sconosciuti, e a ovest altre strade. Riposai il mio sguardo all’interno della città, tutto era così tranquillo che sembrava irreale. Donne e bambini che giocavano e facevano i lavori domestici, anziani che vagavano in cerca di compagnia, uomini che sorvegliavano. Un equilibrio delicato: pace e guerra.
Perdendomi in questa realtà così vera, non mi accorsi che dietro di me un angelo dalle ali nere era comparso dal nulla.
Lo guardai esterrefatto, non avevo mai visto niente del genere, era la prima volta, un angelo dalle ali nere come la pece.
Era distante tre braccia circa.
Aveva lo sguardo rivolto verso il basso da nascondere il viso, una armatura nera dall’aspetto resistente solcata da nastri dipinti dal colore rosso, i capelli erano corvini rivolti all’indietro. Il senso di inquietudine crebbe.
Rivolsi lo sguardo al mio superiore lì a fianco. Aveva smesso di parlare con la sentinella, tutti avevano smesso di chiacchierare e si erano voltati verso l’angelo punitore, di cosa? Perché avrebbe dovuto punirci? Risposte sconclusionate a domande confuse, sì, perché era quello che stavo provando fissandolo: confusione.
Puntò lo sguardo su di me. Aveva lineamenti delicati, non adatti alla sua razza, gli occhi erano di un color celeste.
Ciò che mi stupì più di tutto è ciò che accadde dopo, tutto così in fretta.
L’angelo punitore estrasse da un fodero, che portava alla vita, una spada dalla lama con intarsi rosso sangue. Un momento dopo sentì una lacerazione allo stomaco: me lo ritrovai di fronte. Vedevo solamente il suo largo petto, sentivo la lama della sua spada dentro di me. Estrasse la spada e si scansò lasciandomi cadere dalle mura. Cadendo, per quel poco che potevo vedere in quel momento, osservai una moltitudine di orchi e gobelin che attendevano con impazienza di sferzare la gente della città.


















Perdite

Urla di allarme. Di disperazione. Di guerra.
Il professore ci gridò di correre subito alle camere, di raccogliere le nostre armi; mostrava terrore, era la prima volta. Non ce lo facemmo ridire la seconda volta. Non potevo aspettare Farenhein, sfrecciai nel corridoio dirigendomi verso la camera, la raggiunsi e mi affrettai a prendere la mia alabarda, regalatami da mio padre per il mio cinquantesimo compleanno. La afferrai, aveva l’impugnatura che si adattava alla mia mano, l’elsa azzurra, la lama bianca.
Senza pensare mi diressi all’uscita della stanza, dovevo correre dalla mia famiglia anche se non sapevo che cosa stesse accadendo, una mezza idea ce l’avevo, ma non ne ero sicuro.
Davanti alla porta mi volsi verso sinistra, ma mi costrinsi a fermarmi: orchetti.
Tutti ghignanti e sbavanti, non vedevano l’ora di azzannarmi probabilmente, beh avrebbero dovuto guadagnarselo.
Colpì orizzontalmente i tre mostriciattoli con la mia arma, ne uccisi uno tagliandolo a meta, gli altri due dietro si lanciarono su di me con occhi pieni di rabbia. Balzai dietro di loro e li colpi, caddero per terra senza vita.
Le mie supposizioni erano esatte, dovevo sbrigarmi.
Corsi giù per le scale fino a raggiungere il pianoterra. Un orco mi bloccava la strada, ucciderlo sarebbe stato più difficile: era decisamente più grande, impugnava una clava.

Continua...
:D
 

Fabio

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Membro dello Staff
Ciao Claudia.
Il tuo intervento non mi è piaciuto. Se venuta in questo sito invitando questi utenti a partecipare al tuo sito. Ed allora che ci sta a fare forumlibri.com?

Non mi piace chi pubblicizza il proprio sito in modo maleducato.
 

bludemon

New member
ah ecco... :) uhmm ma nn cè modo di tenere un pò sottocontrollo i post ke vengono messi... o cmq autoeliminare gli spam?
 
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