VI Concorso letterario di Forumlibri ----------> I racconti

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Minerva6

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Ecco a voi i 7 racconti in gara per questo concorso.

I partecipanti sono (in ordine alfabetico):

Camilcar con La ricerca del treno perduto
Cyg X-1 con L'ottavo passeggero
Fantaghirò con Ti aspetto qui
Frecciarossa con Arrivi e partenze
Kaša con Ultima fermata: Vladivostok
Seconda classe con Un vecchio vagone
Tobi Cobini con Farewells
 
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La ricerca del treno perduto di Camilcar

Un te', per favore, avete anche dei biscotti, sì va bene quelli, ma sono gli inziddi, alla stazione di Ossiccio e' l' unico posto dove li vendevano, chissà da quale pasticceria venivano al confine di tre regioni, erano fatti solo di profumo di fluge, lentisco, macis e pimento, quello che mi sta compenetrando adesso, era il treno per Gimuna, l' ultimo anno della motrice a vapore, l' ultimo treno che palpitava come una bestia, un cavallo, una cosa viva, no no anche le canzoni adesso, la prima classe e la terza, le uniche frequentate, in seconda non ci andava nessuno.

In terza ci saliva Albertina, vestita bene, col vestito di crinole verde, guanti di pachelle, e il cappellino d' orley, si sedeva alla fine del vagone, accanto al vagone ristorante dove poi passava tutte le due ore e quarantacinque prima di arrivare a destinazione, facendo durare il suo te' senza biscotti, il più a lungo possibile, lei moglie del droghiere che non apprezzava questi viaggi del giovedì, in compagnia pure della moglie del farmacista, dello studente di architettura e dell' organista della parrocchia, che stavano là in carrozza non sapendo perchè erano lì , perchè andavano a Gimuna e perchè Albertina non stesse con loro.

Fabiana saliva in prima classe, con il sindaco e Lorena sua moglie , Mariella e Osvaldo, che possedevano terre messe a viti, mele, pere, ulivi e quant' altro avevano a disposizione dal 1632 quando Ottone II glie ne diede il diritto di proprietà per alcuni servizi resi, per lo più massacrare impalare e bruciare qualche strega eretico e miscredente che essenzialmente voleva solo sopravvivere all' avo di Mariella, Osvaldo aveva la funzione del fuco, gli riusciva bene ma nient' altro e in prima classe restavano poco, il luogo del discutere, oh sì, si discuteva di tutto, della moda, del buon vivere, di musica, di libri , soprattutto di libri che nessuno aveva letto ma di cui tutti avevano sentito parlare, non certo a Ossiccio, forse a Gimuna, forse, e della nuova arte, il cinema, di pellicole assurde , di storie di pezzenti, di poveri, di belli, mangiando la specialità del vagon restaurant, garasso e coregone, fritto il primo e in carpione il secondo, sautè di crostacei e pasticcio di topinambur, riesling e merlot, rosolio di basilico (verde), anice (bianco) e mirtillo ( rosso).

Giovedì diluviava e pure il giorno prima e pure martedì, il sindaco, Lorena, Osvaldo, Mariella rimasero bloccati dall' esondazione del Frabo, io ero sempre lì al bar della stazione e comparvero, miracolosamente Albertina, 20 minuti prima della partenza e Fabiana giusto all' arrivo del locomotore sbuffante, come se il cielo si fosse terso e le montagne si stagliassero contro il cremisi del mezzo mattino salì in carrozza gratificandomi dell' appoggiare la sua mano al braccio che le porgevo, non si curò, come sempre, di Albertina che non mancava però di notare e soffermò per la prima volta forse, lo sguardo sui fiori di cappero che non so come riusciva sempre a procurarmi, a me solo e solo il giovedì il buon Luca e ogni volta mi accompagnavano nel viaggio verso Gimuna, ma questa volta restammo nello scompartimento, Lorena prese i fiori del cappero, declinò l' invito del ferroviere che dopo l' obliterazione ci prospettava come al solito il ristorante, fece chiudere le tendine, annusò e poi passò i fiori sulle labbra, poi scorsero sul collo e per la prima volta notai che la blusa era leggermente aperta, e da quel giorno per Fabiana e Marcello, sì io mi chiamo Marcello, "oh capperi" non fu più un' esclamazione ma una invitante promessa reciproca.

La locomotiva è andata in pensione assieme alla terza classe, gli affari del droghiere andavano bene, ora aveva ampliato l' attività e aveva aperto il primo supermercato al paese , alla moglie del farmacista si era aggiunto pure il marito e forse era l' unico di cui si sapeva cosa andasse a fare a Gimuna là essendoci la Ballestro, la squadra del mitico Metti che aveva già vinto il giro e la cronoscalata del Voletto e il campionato del mondo ad inseguimento, e le visite del farmacista forse erano solo per l' attrazione reciproca anche se la borsa dell' andata tornava sempre vuota, l'architetto che ora era tale e non più studente aveva lo studio al capoluogo e l' organista non suonava più in chiesa ma al San Giorgio, ma anche Osvaldo e Mariella e con me e Fabiana rimanevano solo l'ex sindaco , ora solo assessore e la sempre più inutile Lorena.
" Marcello, ma quanto sono noiosi gli amici di Albertina, sempre a parlare di moda , di musica, di libri , soprattutto di libri che nessuno di loro legge ma di cui hanno solo sentito parlare e di cinema."

"Carissima Albertina, qua ora ci siamo tutti : il consigliere comunale, la sempre più inutile Lorena, tutta la vecchia guardia, manca solo il cornuto di tuo marito sempre occupato ad aprire supermercati e il farmacista in galera per doping, che dici, andiamo a chiamare Fabiana che e' sempre là in seconda classe che da anni ci guarda con occhi imploranti?"
"Vai Marcello vai, e' vestita da far schifo, non si compra qualcosa di decente dallo sbarco sulla luna, ma se ti fa piacere, non sono mica gelosa dei tuoi capperi, vai pure Marcello."

Buoni gli inziddi o come li chiamate qua, chissà da quale delle tre regioni è emigrato il pasticcere, sono fatti solo di profumo, quello che mi sta compenetrando adesso, la terza classe non c'è più e neppure la motrice a vapore.
Garçon, la cuenta, per favore.
 

Minerva6

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L'ottavo passeggero di Cyg X-1

Il controllore Deuterio Calpivio aveva sempre considerato il 27 novembre 1958 una macchia nel suo impeccabile stato di servizio, tanto da non essere mai riuscito a dimenticarlo. Quel giorno infatti, unica volta in tutta la storia di quella tratta ferroviaria, il treno locale che collegava S**** a M****, era arrivato in questa città con ben un’ora di ritardo, pur essendo partito puntualissimo - alle 15:18 - da S****. Per anni il Calpivio aveva raccontato, a chiunque avesse avuto voglia di ascoltarlo, il motivo di quel ritardo, perché sulla sua coscienza quell’ora pesava come un macigno, nonostante a lui non fosse imputabile alcuna colpa. Questo era il suo racconto, uguale ogni volta.
“A quell’ora la domenica a S**** salivano sempre pochi passeggeri, quel 27 novembre ne erano saliti sette. Due giovani che, dovendo scendere già alla prima fermata, neppure si erano seduti, un’anziana signora, malferma sulle gambe, che si era seduta nella seconda carrozza, e nell’ultima carrozza aveva preso posto una famigliola di tre persone. Ed infine arrivando di corsa, tutto affannato, era riuscito a salire anche il Dr. Bresio, unico passeggero di quel giorno che conoscessi, e come sua abitudine si era seduto nella seconda carrozza.
Il dottore era, se così posso dire, un nostro affezionato cliente del fine-settimana, infatti da almeno dieci anni tutti i sabati sera alle18:57 prendeva il treno da M**** per S****, per far ritorno poi la domenica pomeriggio appunto con il treno delle 15:18. Così abitudinario nei suoi orari da poterci regolare orologio e calendario. All’inizio, vista l’assiduità di quei viaggi, avevo sospettato che il farmacista - era questa la professione del Bresio - avesse una tresca con qualche donna di S****, ma ben presto scoprii che era inutile cercargli addosso qualche traccia romantica o qualche profumo traditore, perché la causa di quei viaggi era sì una donna, ma si trattava semplicemente della madre quasi novantenne.
Dopo alcune fermate, quando sia l’anziana signora che la famigliola erano scesi, ritenni mio dovere, come sempre quando il Bresio rimaneva solo sul treno, andare a fargli un po’ di compagnia. Non che fosse sempre stato così, ma da quando, sette mesi prima, il dottore si era sentito male proprio su quel treno, non mi riusciva più di stare tranquillo quando restava solo. Devo dire che il dottore apprezzava molto questo mio gesto, perché così poteva finalmente parlare, dopo una giornata passata a sentir Messe, sospiri e piagnucolii vari, di cose da uomini. E con chi altri, infatti, il poverino, avrebbe potuto parlare della nostra squadra locale di calcio che stava per salire di categoria? Di sicuro non con la madre, che ormai sentiva quasi il coro degli angeli.
La riconoscenza del dottore per il mio gesto, però mi rincresce dirlo, finiva non appena scendeva dal treno. Infatti per la mia premura nei suoi confronti non mi ha mai offerto neppure un caffè. Ma in fondo se anche una ciliegia, pur così piccola, e per quanto bella all’esterno, può nascondere al suo interno un verme, perché mai noi uomini, tanto più grandi di una misera ciliegia, dovremmo essere esenti da difetti? E il dottore non faceva certo eccezione, aveva ben i suoi anche lui, tanto educato e gentile, ma un po’ stretto di cuore.
Comunque quel giorno, mentre parlavamo, notai che la manica della sua giacca era un po’ rovinata, come se alcuni fili del tessuto fossero stati tirati. Il danno, di sicuro, non era stato causato dal bracciolo del sedile, perciò mi permisi di farglielo notare. Il dottore guardò meravigliato la manica, poi si ricordò di essere stato urtato, mentre era intento a leggere il giornale, con un cesto di vimini dalla vecchia signora seduta in quella stessa carrozza, sicuramente i fili dovevano essersi tirati allora, senza che lui se ne fosse accorto. Da lì a qualche minuto comunque, dimenticata ormai la giacca, la mia attenzione venne attratta dal viso accaldato e sudato del dottore, e per questa ragione non mi decidevo a lasciarlo solo. Ma il dottore mi rassicurò, stava semplicemente covando un’influenza, a causa del freddo patito a casa della madre, lo stesso battito cardiaco un po’ accelerato che avvertiva ne era un sintomo. Così tranquillizzato mi alzai, eravamo infatti in vista della stazione, ed io dovevo fare le mie consuete segnalazioni. Quando il treno ripartì, non avendo biglietti da timbrare, poiché non era salito nessuno, andai dal macchinista. Più tardi mi ricordai che nell’ultima carrozza c’era qualche carta a terra e decisi di andare a pulire. Con questa scusa avrei dato anche un’altra occhiata al Bresio.
Avvicinandomi vidi il farmacista accasciato sul sedile. Lo chiamai, lo scossi, ma non dava segni di vita. Volevo tirare il freno, ma la stazione era ormai in vista e lasciai perdere. Appena il treno si fermò mi precipitai giù e diedi l’allarme, ben sapendo quanto fosse inutile. Mentre aspettavamo i carabinieri tornai sul treno, non mi piaceva lasciare il Bresio da solo, abbandonato. Mi sedetti allo stesso posto di prima e mormorai fra me alcune preghiere, anche se ormai non lo avrebbero aiutato, male di certo non gli avrebbero fatto. Ero arrivato all’Eterno Riposo quando in un angolino vidi un ragno. Queste bestiole, alla stregua delle mosche, sono sempre pronte ad approfittare di ogni fessura, pertugio disponibile per trovarsi un posto caldo dove stare, e quello, così guardingo e spaesato, aveva tutta l’aria di aver approfittato delle porte del treno rimaste aperte per intrufolarsi dentro. Afferrai subito il giornale del Bresio, lo arrotolai e colpii, per fortuna già il primo colpo andò a segno, poi sempre usando il giornale lo buttai fuori dal treno, rimettendo poi il giornale a posto.
Il maresciallo, quando arrivò, iniziò svogliatamente ad esaminare la scena, ma appena seppe che sul treno non c’era nessun altro, a parte il farmacista, il macchinista ed io, e scoprì che già in passato il dottore era stato colpito da un malore, si limitò a dire “Di sicuro non è stato ucciso, tutto solo com’era chi avrebbe potuto farlo? Lo Spirito Santo?” e con queste parole era sceso dal treno. Appena il corpo venne portato via ripartimmo, ma era ormai impossibile recuperare tutto quel ritardo, a pensare che se solo il povero dottore avesse avuto la pazienza di aspettare altri dieci minuti per morire saremmo arrivati puntuali ad M****”, e ogni volta il Calpivio terminava il suo racconto con un sospiro, difficile dire se di compassione per la morte del dottore, o di rammarico per la sua impazienza.

L’anziana signora appena arrivata a casa si diresse alla teca di vetro e quasi a calmare il ragno che si muoveva nervoso all’interno disse: “Stai tranquilla Tecla, il nostro Fred è stato proprio bravo oggi, vedrai adesso non ci sfratterà più nessuno, speriamo solo sia riuscito a cavarsela anche lui”. Aveva urtato apposta il farmacista, ma quello l’aveva guardata senza riconoscerla, erano 10 anni che gli pagava l’affitto, ma per lui restava una perfetta estranea.
 
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Minerva6

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Ti aspetto qui di Fantaghirò

Oggi sono tre giorni che vengo qui in stazione, sperando di vederla scendere dallo stesso predellino sul quale l’ho vista salire domenica mattina. Non si è nemmeno girata a mandarmi un bacio con la mano.
“Stai qui buono buono, Martino, ok? Io vado a fare i biglietti e arrivo subito”.
Mi sono seduto lì sulla panchina e l’ho seguita con lo sguardo fin sotto la pensilina con il vetro enorme. Si è messa in fila, sbuffando per il numero di persone che aveva davanti e guardando l’orologio in continuazione. Si tormentava il labbro inferiore con i denti, non capisco perché fosse così… così diversa, ecco. La mia mamma non si comportava mai in quel modo. È vero che nell’ultimo mese era meno affettuosa, mi dava meno baci e meno carezze, ma quella mattina avvertivo chiaramente che un tumulto interiore le stava sconquassando il cuore. Sentivo una specie di interferenza, qualcosa che irrimediabilmente le incrinava lo spirito, qualcosa che aveva a che fare con la paura e la disperazione. Ma non era il senso di solitudine che la affliggeva, era qualcosa di più grave, a livello più profondo. Ero preoccupato. Non volevo che la mamma stesse male. Avrei voluto fare qualcosa, abbracciarla, darle tutto il mio cuore e starle vicino, ma temevo che mi avrebbe sgridato se mi fossi mosso dalla panchina. Mi aveva detto di stare fermo lì e di aspettarla. Sono ubbidiente, io.
L’ho vista parlare al vetro e annuire più volte, stropicciarsi il labbro con i denti ancora una volta, infine aprire la borsetta e mettere dei foglietti sotto il vetro. Poi ne ha tirato fuori qualcosa che non sono riuscito a vedere, ma sembravano dei foglietti diversi da quelli che aveva infilato, e si è avviata lungo la banchina anziché tornare verso di me. Non capivo. Ehi mamma, sono qui!, avrei voluto urlare. E adesso? Avrei dovuto alzarmi e seguirla? E se poi mi avesse sgridato? Ha detto di aspettare qui. Aspettiamo, allora.
Da lontano cercavo di capire cosa stesse facendo e perché non tornasse subito da me, però non riuscivo a vedere bene, la stazione era poco illuminata e fuori era ancora mezzo buio. La mamma non smetteva di guardare l’orologio e non stava un attimo ferma. Non capivo cosa avesse, fino a pochi minuti prima sembrava andare tutto bene. Stavamo dormendo nel lettone di casa, quando a un tratto l’ho sentita alzarsi e vestirsi in tutta fretta.
“No, Martino, tu continua a dormire. Torno presto, fa’ il bravo.”
Invece mi sono fiondato giù dal letto e l’ho seguita, non mi va di rimanere da solo in casa. Ho visto che fuori era ancora buio e ho pensato che dovesse uscire per fare una commissione urgente, o che si fosse dimenticata qualcosa. Ogni tanto la mamma era distratta, nell’ultimo periodo me ne ero accorto ma non ci avevo dato troppo peso. La vedevo fissare fuori dalla finestra, pensierosa, gli occhi lucidi e assenti, e la sentivo spesso piangere in silenzio. Quando mi avvicinavo per abbracciarla, mi diceva sempre: “Meno male che ci sei tu…”.
Appena usciti nel cortile di casa, siamo saliti in macchina e poco dopo la mamma si è fermata davanti alla stazione dei treni. Io so cos’è un treno perché ho imparato a odiarne il rumore: è troppo forte e mi fa male alle orecchie quando è troppo vicino. Siamo arrivati sul primo binario e mi ha detto di aspettarla lì alla panchina. Intanto i minuti passavano, però, e lei non tornava.
Che strano, pensai. Vabbè, aspettiamo, l’importante è che riesco a vedere dov’è la mamma.
Alla fine è arrivato il treno. Come mi dà fastidio il fischio che fa quando si avvicina! E quando frena, anche peggio! La mamma si è allontanata ancora di più, come volesse inseguirlo. Poi il treno ha frenato e lei ha afferrato la maniglia di una porta. Mamma, dove vai? Devo aspettarti qui, ok, ma quando torni?
No, non ce la faccio a stare buono buono qui, devo andare a vedere che succede.
Sono sceso dalla panchina e sono corso verso il punto dove la mamma è sparita. Non la vedevo più, c’erano altre persone che salivano e scendevano ma della mamma nemmeno l’ombra.
No, la porta si sta richiudendo! Mamma, mamma! No no no, il treno si sta muovendo, e ora come faccio? Fermo, fermo!
Ho cominciato a corrergli dietro ma poi la banchina è finita e mi sono dovuto fermare sennò cadevo di sotto. Mamma, dove sei finita? Torni a prendermi? Ti aspetto qui, eh?
Sono tornato alla panchina e mi ci sono seduto di nuovo sopra. La mamma mi aveva promesso che sarebbe tornata subito, quindi l’avrei aspettata lì. Le mamme non dicono bugie.
Magari non me ne sono accorto ed è scesa dall’altro lato del treno. Sì, la mamma tornerà presto.
Sono già passati due giorni e mezzo, però. Come mai la mamma non torna a prendermi?
Ogni mattina vengo qui in stazione e mi siedo sulla panchina. D’altronde mi ha detto di aspettarla qui. Prima o poi tornerà, no?
Bene, nel frattempo mi faccio un sonnellino, sono un po’ stanco. È dura venire in stazione tutte le mattine e starci fino a sera. E poi quel maledetto treno che fischia non mi fa dormire bene, mi sveglia di continuo.
Ci si mette anche la gente a non farmi riposare. Non potrebbero lasciarmi dormire in pace? Per ammazzare il tempo mentre aspetto la mamma, dormo, cos’altro dovrei fare?
“Oh, guarda questo tesorino! Vieni che ti prendo un dolcetto, vieni!”
Guardo la signora ancora intontito dal sonno, poi richiudo gli occhi. Tanto la mamma dovrebbe tornare per darmi da mangiare molto presto.
Intanto mi faccio una bella dormita, così quando la mamma sarà di ritorno sarò in gran forma e lei mi dirà: “Come sei bello, Martino mio!”.
Sì, basta aspettare. Tornerà.
Adesso però dormiamo, dai.
“Povero cagnolino…” sento sussurrare la signora prima di addormentarmi.
Buonanotte, mamma.
 

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Arrivi e partenze di Frecciarossa

Eccomi in stazione.
Sono uscito che era buio. Troppo in anticipo; a piedi.

Che bella giornata sarà oggi. Non ho dormito tutta notte per l’eccitazione, e sono uscita prestissimo, nonostante il treno partisse dopo un’ora.

In altri tempi nessuno mi avrebbe buttato giù dal letto così presto. Ma da qualche mese resto spesso in casa, seduto sul pavimento nella penombra, schiena poggiata alla parete.
Barba lunga. Sguardo fisso. Solo. Sopraffatto da quella voglia di nulla che mi accompagna.
Da quando se n’è andata. Solo un post-it sulla porta, al mattino. “Sono già in treno. Addio”.
E il sonno da allora è uno straniero. Ma oggi ci metterò una pietra sopra. Deciso.
Stessa casa città luoghi situazioni persone. Stesso tutto ma senza più lei… No! Chiuso!
Oggi si cambia. L’alba di un nuovo giorno.
Se n’è andata col treno? Farò altrettanto. Fanculo!

Ho pensato di distrarmi prendendola larga per il Centro, e presto mi son persa naso all’aria, come quei buffi turisti zigzaganti senza meta precisa. Sono pure stata urtata da alcune persone stressate, di fretta e imbronciate: fortunatamente una piccola minoranza.
Ma non importa, splende un bel sole, e l’aria è tersa e leggera nonostante i pendolari che arrivano con l’auto. Volti sorridenti per l’attività che li attende anche oggi, sguardi sereni e pieni di buoni propositi, grati per il benessere che si guadagnano.


A quest’ora l’aria è già poco respirabile: ma sarà anche peggio tra poche decine di minuti, coll’aumentare del traffico. Mille pendolari in quotidiana migrazione, regolata da un sole smorto, come girasoli coatti: alba in - sera out. Insofferentemente incolonnati, irritati, sonnacchiosi: gregge di solitudini rinchiuse nelle rispettive auto. Tutte diverse tutte uguali. Ciascuno isolato, coi rimanenti posti egoisticamente vuoti, status symbol di una illusoria indipendenza economica. Schiavi -plagiati- della propria fasulla libertà.
Accomunati in un destino che li separa. Gocce d’acqua di uno stesso fiume, che devieranno ognuna verso una condotta una roggia un canale una tubazione. Diversi. Distinti.

La prendo larga, per il centro. Tipo quei lenti e zigzaganti turisti dall’aria indisponente, narici al cielo come marmotte sospettose, che -ostacoli vaganti- vengono continuamente urtati e spintonati: fastidiose presenze eccedenti il paesaggio, sul frettoloso percorso delle orde indispettite che corrono per alimentarsi del proprio stress.
Cavallette. Maggiolini. Topi verso il precipizio…

Profumo di caffè espresso, aromatico e stimolante; colleghi che si ritrovano al bar per pianificare sorridendosi una proficua giornata, calorose strette di mano e pacche sulle spalle. Studenti trottano allegramente verso scuola, nei loro look pittoreschi. Tanta gente sui bus, felice di evitare le code in auto e risparmiare. Vigili urbani che da lontano comunicano a gesti coi trasportatori delle consegne ai negozi, concedendo loro sorridendo qualche minuto in più di sosta.

Lascio che la mia mente spazi in questo meraviglioso clima, assorbendo energia rigenerante.

Bar già pieni dei mugugni di impiegati svogliati, desiderosi solo di chiudere al più presto quest’ennesima giornata di frustrazioni. Odore acre di caffè scadente. Frotte di studenti lentamente frettolosi, cellulare e sigaretta. Autobus come scatole di sardine. Furgoni delle consegne nelle zone a traffico limitato, sotto l’occhio di vigili urbani in guardia come mastini, pronti ad azzannare al minimo sforamento del divieto.

Ma come l’acqua che nel lavello gira e gira intorno al tappo aperto, abbassandosi sempre più di livello man mano che ne viene risucchiata, inesorabilmente e quasi con sorpresa mi ritrovo infine qui. La mente, errabonda viandante, suo malgrado torna a focalizzarsi sui miei programmi: oramai latita sempre più spesso, librandosi nell’etere, senza catene.

Innumerevoli esseri dalla parvenza umana, riproducono lo stesso movimento gli stessi gesti, percorrono lo stesso cammino. Ma non sono persone. Sono solo i cloni da esse demandati a vivere per loro questa alienata quotidianità.
Come in corridoi innevati, sembra assurdamente che vi siano un’unica traccia per l’andata e una per il ritorno, ove tutti pongono i piedi nelle orme di chi li precede.
Sempre più marcate. Sempre più fonde.
Pupazzi posati a terra dopo aver ricevuto la carica girando la chiavetta sul dorso.

Mi rendo conto però che questa città, qualunque luogo ambiente situazione persona frequenti, mi sembra irreale e trasparente; un programma in tivù cui non partecipo. Sì, lui mi manca!
Lasciarlo è stato un errore madornale, e non mi do pace per come l’ho fatto: alzarmi all’alba e andarmene in silenzio lasciando solo un laconico post-it sulla porta! Ma non avevo il coraggio di dirglielo guardandolo negli occhi. Ero irrequieta, insicura di me. Ancora non riuscivo a focalizzare cosa volessi dalla vita, e l’illusione di poter avere tutto il mondo ai miei piedi mi ha fatto, immaturamente -ora so-, vedere in lui un freno per la mia realizzazione.
Son bastati pochi mesi per capire che è lui il mio mondo.
Per questo ho deciso di riprendere il treno, stavolta nella giusta direzione: quella contraria all’altro che mi portò via.
Mi presenterò alla porta chiedendo perdono; mi prenderà tra le braccia asciugandomi le lacrime, e mentre faremo l’amore gli dirò che voglio vivere per sempre con lui.

Ecco, nemmeno mi sono accorta del viaggio. Il sole irride i finestrini, il paesaggio mi riempie gli occhi dei suoi colori; le persone mi guardano sorridendo, come se sapessero e mi volessero incoraggiare con complice approvazione.

Tabellone luminoso. Dieci minuti di ritardo.
Raggiungo il binario. Densa nube di dozzine di “ultime sigarette” prima del viaggio.
Zombie discutono coi personali fantasmi, gesticolando, il cellulare all’orecchio.
E volti, inespressivi, ipnotizzati dalla musica sparata alta in cuffia.

Devo pazientare ancora un pochino: dieci minuti di ritardo.
Che sarà mai, mi attende un’intera vita di amore e felicità!
Lo sferragliare rassicurante sugli ultimi scambi dei binari di ingresso in stazione, un ultimo festoso suono dalla cabina del macchinista.
Sono già sulla porta della vettura, pronta a scendere.

Linea gialla. Metri di guardiani schierati fianco a fianco, pronti a difendere col sangue la propria posizione se il treno si fermerà con le porte davanti a loro (ma altrettanto a spintonare gli altri in caso di sfortuna).
Mi posiziono all’estremità di provenienza del treno, fuori dalla pensilina e dalla calca, ove potrò godere della vista del locomotore che entra in stazione. Ancora veloce, col seguito di vagoni pronti a vomitare il loro contenuto, maleodorante di dopobarba da quattro soldi, profumi da supermercato, sudore, malumore, cicaleccio.
Da qui, sfilatemi davanti tutte le vetture, una volta fermo avrò da camminare per raggiungerlo. Un bel problema per trovare posto…Ma questa volta sorprenderò tutti.
Sì. Sarò il primo a prendere questo treno.

Eccolo, lo scorgo in lontananza. Il rombo cupo che lo precede si ode sempre più distintamente. Il monotono ipnotico sferragliare, lo stridere delle ruote metalliche sugli scambi, il lacerante lamento delle trombe.

Una frenata piuttosto brusca mi fa perdere l’equilibrio, spingendomi contro la parete anteriore del vestibolo. Rido scioccamente mentre cerco di reggermi in piedi: sembra Gardaland…
Il macchinista sarà magari uno nuovo, alle prime armi (chissà che gioia aver trovato questo lavoro): diamogli tempo.

Ultimo annuncio. Voce (coerentemente) non-umana: “Allontanarsi dalla riga gialla”.
Rido isterico, pensando che dovrebbero specificare in quale direzione!
Tutti un passo indietro.
Ma io…, beh: io mi sono sempre distinto dalla massa…

Scendo sul marciapiede della pensilina e mi avvio al sottopassaggio.
Un assembramento di persone, quasi tutte con una divisa -per quanto di vari tipi- copre alla vista il locomotore e la prima vettura, e un agente della Polizia Ferroviaria invita i passeggeri a camminare lungo il lato opposto. Con tono che però suona più come un ordine.
“Un inconveniente tecnico”, butta lì ai più curiosi il Capotreno, con poca convinzione, guardandosi intorno nervosamente.

Cosa importa, oggi inizia per me una nuova vita:
“Taxiiiiiii”
 
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Ultima fermata: Vladivostok di Kaša

Mosca, crocevia di storia e modernità, con la tua Piazza Rossa sulla quale prospettano le multicolori torri della caleidoscopica San Basilio, il possente Cremlino dalle purpuree mura che serbano un tesoro di bianche torri e auree cupole, splendenti ed ammalianti testimoni del tuo glorioso passato; la monumentale metropolitana brulicante di vita, sfavillante diamante ottenebrato dalla frenesia urbana; la rinata cattedrale del Cristo Salvatore, emblema di un doloroso risveglio da un epoca buia. A te, grande madre bianca della Russia, io dico addio, lasciandoti in pegno un frammento del mio cuore.
Stazione di Jarovslavskij di Mosca, il biglietto riporta in caratteri cirillici la mia destinazione: Vladivostok; ho da percorrere un intero continente, sette fusi orari per un totale di quasi novemilatrecento kilometri, il tutto per raggiungere un obiettivo, vedere l’oceano Pacifico.
Un enorme zaino in spalla ed il mio vestiario minimale e raffazzonato, sottintende già prima di salire in carrozza, che il mio sarà un viaggio in “platskartny”, la terza classe russa.
Le carrozze di platskartny sono particolari, molto diverse dai vagoni letto in uso in Europa, assomigliano molto più a degli allevamenti di polli in batteria: un lungo corridoio pavimentato mediante un orrido linoleum si affaccia su una serie di cuccette prive di alcun tipo di divisorio, diciotto posti letto disposti su due livelli risultano essere affiancati parallelamente al corridoio; ortogonalmente si possono scorgere nove “scomparti” contenenti quattro brande disposte anch’esse su due livelli; avrò cinquantaquattro compagni di viaggio, la compagnia non mancherà di certo. In fondo alla carrozza un minuscolo scomparto richiude un rozzo bagno: lavello e vaso in metallo, la parola “pulizia” da prendere con le pinze. Prendo posto nella parte centrale del vagone, la mia branda è posta nella zona superiore; lo spazio a mia disposizione risulta essere particolarmente limitato, in alto infatti risulta essere presente un ulteriore ripiano ove riporre i bagagli, ciò mi consente a mala pena di mettermi seduto .
Il treno, dopo circa un'ora di attesa si mette in moto, lentamente la schiera di palazzi in stile sovietico della periferia di Mosca lasciano spazio a piccoli paesi inframmezzati da distese di boschi; cerco di far conoscenza con i miei compagni di “scomparto”, una coppia di armeni sulla cinquantina ed un russo di circa quarant’anni, la comunicazione è difficile per ovvie ragioni linguistiche, ma il problema viene superato quando dallo zaino faccio uscire il miglior interprete del mondo: una bottiglia di vodka.
Mi sveglio il giorno seguente abbastanza confuso a seguito della gran bevuta della sera prima, la prima cosa che scorgo è l’occupante della branda posta in alto lungo il corridoio, un tizio basso, grasso e peloso come una scimmia, se ne sta allegramente disteso sul letto mezzo nudo come un cetaceo spiaggiato; l’occupante del posto sotto di lui, anch’esso sveglio da poco e mezzo nudo, mediante l’utilizzo di un fornelletto portatile sta preparando Kaša, la terribile poltiglia di cereali che i russi amano tanto, ma che io giudico a dir poco vomitevole. Mi alzo e vado al bagno, rientrando nel vagone vengo investito da un terribile tanfo di aglio… che bella atmosfera! I giorni seguenti sono in sostanza la copia del primo, privacy pari a zero, gente a spasso per il vagone mezza nuda, qualcuno fuma fregandosene della convivenza con le altre persone, altri che si ubriacano e la gran parte che se ne sta a letto tutto il giorno a leggere ed oziare.
Al quarto giorno di viaggio decido di fermarmi a Irkutsk, la compagnia sul treno è bella, ma le mie condizioni igieniche sono a dir poco preoccupanti, ho tentato in qualche modo di lavarmi nel bagno del treno, ma ciò nonostante non emano un buon odore, ho un estremo bisogno di una doccia. In città dopo aver dato una rapida occhiata al centro, ho preso alloggio in uno squallido albergo e, dopo aver dormito una notte in un “vero letto”, biglietto alla mano, ricomincia il viaggio, ovviamente sempre in platskartny.
Ripartito mi trovo in un altro vagone-pollaio, praticamente identico a quello del primo treno, sono nello scompartimento assieme a tre arzilli vecchietti dai lineamenti mongoli, tutti e tre entusiasti della mia presenza… a Irkutsk sono stato previdente, ed ora il mio zaino è colmo di bottiglie di vodka! Mentre il treno costeggiava il lago Baikal, un paesaggio di rara bellezza, a bordo si brinda alla Russia ed all’Italia. Quando il tasso alcolico incomincia a salire, vengo praticamente obbligato a cantare a più riprese “Solo noi” di Toto Cutugno, scoprendo che questa canzone in Russia è famosissima ed è praticamente conosciuta da tutti, inframmezzata da varie canzoni russe per me quasi completamente incomprensibili.
Cambiai due volte i compagni di viaggio nei cinque giorni che seguirono, ma la sostanza non cambiò molto: canti, baldoria e sbronze assurde.
Quando giunsi a Vladivostok, puzzavo nuovamente come un animale, vi soggiornai per due giorni, provai a fare il bagno nell'oceano Pacifico rischiando l’assideramento, ma ormai il mio viaggio volgeva al termine, per il viaggio di rientro non c’era nessun treno ad attendermi, niente più vodka, canzonacce e discussioni assurde, ma solo un freddo ed impersonale aereo.
Né piuma né penna, grande Madre Russia, spero che il mio possa essere un arrivederci.
 
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Un vecchio vagone di Seconda classe

Buongiorno.
Innanzi tutto desidero ringraziare Forum Libri per la possibilità che mi ha concesso di scrivere due righe, e in particolar modo coloro che hanno votato per I Treni, non solo perché sono il mio forte, ma soprattutto perché questo – per me – è un momento delicato della mia vita… ma andiamo per parti, vi spiegherò dopo, alla fine.

Innanzi tutto presentiamoci, ma voi non dovete farlo… scusate, è che è la prima volta che parlo… cioè no, volevo dire che scrivo in pubblico… anzi no, è la prima volta che scrivo qualcosa in assoluto perciò sono emozionato e mi perdonerete… ma presentiamoci.
Dicevo che voi non dovete presentarvi perché avendo leggiucchiato saltuariamente il vostro forum, vi conosco abbastanza e so già che siete per lo più una combriccola di intellettualoidi relativisti (non vi offendete vero se dico quello che penso...), mentre di me non sapete nulla perciò inizio dall’incomincio.
Cioè no, incomincio dall’inizio.
Allora, ci sono tanti tipi di vagoni. Innanzi tutto quelli merci, che si dividono in: scoperti, dove potete caricarci containers, bobine d’acciaio, lingotti di ferro, o quello che vi pare che non si muova troppo; coperti, ovvero quelli classici che portavano muli e alpini, o vagabondi su e giù per l’America come nelle avventure di Huckelberry Finn; cisterna, dove metterci prodotti chimici, gas , derivati del petrolio o anche granaglie; bisarche, dove metterci le automobili che un tempo esportavamo e che oggi - grazie ai nostri grandi manager, ai nostri condottieri - importiamo e basta. Poi ci sono quelli per passeggeri, e allora ci sono quelli vecchi di una volta con una porta per scomparto, quelli senza scomparti per treni locali e alta velocità, e quelli con scompartimenti vecchio stile. Ecco, io sono uno di loro, un vagone per trasporto passeggeri a scomparti vecchio stile, di seconda classe, color amaranto scuro. Piacere.

Sono stato prodotto una cinquantina d’anni fa col ferro ricavato dalla fusione di una vecchia corazzata di inizio secolo in disarmo. All’inizio della mia carriera, quando ero ancora bello lucido e facevo la mia figura, stavo in lunghi convogli e ho fatto migliaia di volte la Reggio Calabria-Milano, la Bari-Venezia o la Roma-Torino, e per coloro che volessero darmi del provinciale, sappiano che sono andato spesso in Francia, sia in Costa Azzurra, che in pellegrinaggio a Lourdes, che a Parigi; a Chiasso in Svizzera, e ho passato il Brennero per andare in Austria e poi in Germania per così di volte. Insomma, che c’ho addosso parecchi milioni di chilometri, roba da andare e tornare dalla luna decine di volte. Modestia a parte.
Durante queste tratte ne ho viste di tutti i colori, anche perché erano gli anni sessanta e il mondo stava cambiando davvero: la gente, anche se a costo di sacrifici, iniziava ad avere qualche soldo in tasca, non dico a stare bene, ma almeno a stare meglio, e quando ascoltavo i discorsi degli operai, sentivo le loro rivendicazioni per le 40 ore settimanali, gli impiegati che parlavano di comprarsi la FIAT Millecento, le massaie che discutevano se fare le rate o meno per la lavatrice o se era meglio il divano o l’abat-jour, ma il massimo erano le ragazze, che quando erano da sole parlavano della pillola e le loro cose… cioè, capiamoci, non sono un maniaco, ma tra il sesso e le lavatrici o le FIAT, sarete d’accordo con me…
Che poi ero giovane anch’io e pieno di energia, energia nel senso che avevo due respingenti grossi così… cioè, non fraintendetemi, quello che voglio dire è che c’erano delle locomotive slanciate, carine, con colori pastello, un po’ sfumati, e a me, ogni volta che frenavano, mi veniva una voglia di andargli addosso coi miei respingenti, cioè… insomma, non pensate male, che poi non ho mai combinato mai nulla perché era un privilegio riservato ai vagoni della prima classe che poi sono identici a noi solo che invece dei sedili in scai ce l’hanno in panno e in più sporco, pieno di polvere e acari che guarda, non ti dico che schifo se niente niente c’hai l’allergia… ma lasciamo perdere, dove eravamo? Ah sì! Ai viaggi su e giù, giù e su. Quando facevo la Torino-Trieste c’era parecchia gente sostenuta, soprattutto tra Torino, Milano e Venezia, poi i friulani erano più sgnappa-sgnappa e ci si sentiva a casa. Quando invece portavo giù gli emigranti e relative famiglie per trascorrere le ferie coi parenti, era tutta una festa, una gioia, un casino, coi bambini che correvano avanti e indietro per il corridoio, i militari di leva ancora coi brufoli, e gli adulti, uomini e donne, che per la stanchezza sentivano ogni loro osso, ma dalla gioia, non sentivano nemmeno più i il pavimento sotto i piedi. E al ritorno? A tornare? La gente era felice lo stesso, se ne facevano una ragione e poi si sentivano dei profumi che non ti dico: i siciliani che si trascinavano dietro l’afrore dei cannoli di ricotta di pecora, i campani col caciocavallo, i calabresi con la salama sotto sugna, cioè dei salamini affumicati al finocchio e peperoncino conservati sotto strutto, che poi nello strutto ci mettono il chiodo di garofano e il pepe in grani, roba che dicevo <<sì, dai, colami addosso, fammene andare un po’ nei cuscinetti delle ruote, che non resisterà ai carichi dinamici come il Molykote al litio, ma vuoi mettere il gusto? >>

Insomma che coi milioni di chilometri passavano anche gli anni e piano piano mi sono ritrovato a fare un po’ di tutto: scolaresche, pendolari, manifestanti, vacanzieri, pellegrini… una varietà, una fauna umana, che mi ha insegnato tante cose su di voi, ma anche su di noi perché alla fine tutti siamo felici, tristi, frustrati, pieni di speranze.
Se devo dire i momenti peggiori della mia esistenza, allora cito le stragi dell’Italicus, del Rapido 904, della Stazione di Bologna e recentemente a Viareggio, dove per fortuna non sono stato coinvolto, ma mi fanno male e preferisco non parlarne nemmeno. I momenti belli invece sono stati tanti, indimenticabili: risalire il Brennero con due metri di neve fresca ai bordi, le traversate in traghetto dello stretto di Messina, le soste all’ingresso di Roma Termini che vedi qualche vecchio muro romano o di Santa Maria Novella a Firenze che respiri i marmi e i bronzi delle statue, la nebbia di Venezia d’inverno, i paesaggi da far west delle tratte pugliesi, la campagna tosco-laziale o quella lazio-campana… eh, che ricordi!
Ricordo anche qualche treno speciale, come il Torino-Roma del 1999 con dentro quei matti che partecipavano al primo gay-pride italiano. All’inizio non vi dico gli sfottò dei miei amici vagoni quando seppero che ero destinato lì, che si davano di gomito e mi dicevano << se a qualcuno cade la saponetta per terra, tu gliela raccogli? >> e giù a ridere come scemi. Io facevo il sostenuto ma ci pativo di brutto. Che poi non è successo nulla, facevano solo un gran baccano e basta, anzi, adesso sono fiero di aver contribuito alla lotta per i diritti civili. Invece mi sono sempre andate per traverso le trasferte dei tifosi e ultràs: certi ceffi, certa gentaglia, uno schifo che non vi dico! Lasciamo pure stare gli sfottò e i cori e le scemenze e la gente che fuma anche se è vietato e pure le canne, va bene tutto, ma a certi miei amici gli hanno tagliato tutti i sedili, sfondato i vetri, divelto le paratie, staccate le ritirate e sono finiti anzi tempo in smantellamento. Non è bello!
Un ricordo che serberò per sempre sono i libri che mi hanno letto addosso in tutti questi anni. Il mio autore preferito è Camilleri, non perché sia quello che più mi piaccia, che poi io il siciliano neanche lo capisco bene, ma perché mediamente hanno ottanta pagine e chi ne inizia uno, quasi sempre lo finisce prima di scendere e mi da la soddisfazione di capire come va a finire e chi era l’assassino. Che sì, lo so, a voi piace più di tutti Dostoevskij, e Fedor di qui, e Fedor di là, ma intanto nessuno si è mai iniziato e finito un suo libro tutto in un viaggio, perciò io mi sono sempre dovuto sorbire i Fratelli Karamazov, Delitto e castigo e il Sosia senza mai sentire l’inizio, mai il finale e leggendo solo dalla pagina 156 alla 184, per poi riprendere due mesì dopo dalla 74 alla 92; ora, fosse stato Fabio Volo, chissenefrega, no? Tanto è sempre lì che non si decide se alzarsi a pisciare o scaccolarsi il naso, perciò ovunque lo prendi va sempre bene, ma Dostoevskij preso male, così… è un mal di testa spaventoso, e se no provate un po’ voi.

Forse il periodo più bello sono stati gli anni 90, ma non a causa di Jovanotti e Ramazzotti (per carità!), bensì perché erano gli anni d’oro dell’Inter-rail. All’epoca milioni di giovani di tutti i paesi europei si facevano dei biglietti con dentro 3.000 o 5.000 chilometri da spendersi liberamente, o addirittura Open, che per 15 giorni potevano nemmeno scendere dal treno, e vedevo pieno di polacche semi albine andare a Siviglia, calabresi corvini andare a Copenaghen, scozzesi pel di carota andare a Salonicco, spagnoli far casino tutta la notte per tutte le notti della loro vacanza, boemi con bidoni di birra amara e ricca di luppolo, esquimesi che ripetevano << Paraflù! Paraflù!! >>… be’ no, qui esagero, gli esquimesi no, ma tutti gli altri c’erano eccome. Poi è arrivata Ryanair ed è finita lì, per sempre: adesso fai Londra-Casalpusterlengo per 99 centesimi + 200 euro di spese aeroportuali e diritti Mastercard + 150 euro perché la valigia supera di un centimetro la larghezza massima, e in due ore sei a destinazione: veloce, comodo e inumano, inumano come tutti i non-luoghi, e io, se permettete, con tutti i miei limiti e difetti, ma coi miei scomparti come si deve, non sono un non-luogo, che pure io ho letto un po’ di antropologia e so cosa dico.

Ho tanti ricordi, ma tanti.
Anche troppi.
E quando si hanno troppi ricordi è perché si hanno tanti rimpianti.
Il mio rimpianto più grande è stata una locomotiva celeste, di quelle che portavano l’adesivo di un coccodrillo o di una tartaruga che correvano sotto il finestrino del macchinista. Era bellissima, ogni volta che la vedevo il freno di emergenza mi si smollava tutto, mi impappinavo e non riuscivo più a parlare, e la desideravo, la volevo, mi venivano dei respingenti che levati… ma tra lei e me, come al solito, almeno quattro vagoni di prima classe uno più stronzo dell’altro, che per un po’ di velluto sui sedili si davano un’importanza che non ti dico. Poi, quando sono stato declassato a fare le tratte brevi come locale, eliminarono la prima classe e allora mi ritrovai anch’io spesso a ridosso delle locomotive, e una volta mi capitò lei, cioè non una locomotiva simile, ma proprio lei, quella di cui ero stato innamorato pazzo per un sacco d’anni a farmi venire il magone in gola. Insomma che alla prima stazione lei frena, io che finalmente potevo finirle addosso e invece nulla, niente. E la stazione dopo, idem. E così fino al capolinea. E lei non si voltò indietro a guardarmi nemmeno una volta. Come ho detto all’inizio, voi siete per lo più giovani e non potete capire. Non potete capire che quando passano gli anni, non solo si cambia noi, ma cambia e passa il nostro desiderio d’amare. Quando hai 15 anni e inizi ad affrontare il mondo hai una paura fottuta e ami alla follia perché non te la senti di affrontare da solo tutto quello che verrà, con le tue paure e debolezze; a 22 anni il confronto con tuo padre inizia a fare crepe dappertutto perciò hai bisogno di una che non ti ricordi tua madre; a 30 ti senti di spaccare il mondo e vuoi una che ti faccia sentire gagliardo; a 40 inizi a guardarti indietro, a sentirti soddisfatto e a desiderare una che ti valori per quel gran pirla che sei e che sarai… ma quando hai varcato la soglia della vecchiaia e nessuna ti ha mai detto che ti vuole bene e ti ritrovi a tu per tu con il tuo primo amore, ti giuro che non riesci a fare nulla, che non ci provi nemmeno, perché non sai più con quale passione amare, e finisce che lasci perdere e non ci provi neppure. Non è bello, lo so, ma cosa dovrei raccontarvi? Un sacco di balle? Di quella volta che ero che ero a Nizza e mi sono fatto una locomotiva con la erre moscia? O di quando passata la cortina di ferro ho tirato fuori una valvola di regolazione della mandata principale e tre locomotive rumene si sono buttate ai miei piedi? O di quella volta all’Octoberfest con due locomotive bavaresi fatte di pilsen… no, scusate ma non sono il tipo: ve l’ho già detto, ho i miei difetti, i miei limiti, ma ci convivo serenamente.

Insomma, per dirla tutta: sono un vecchio vagone passeggeri che sta per andare allo sfascio, che ha visto un po’ di mondo, un po’ di umanità e perciò sa benissimo cosa si è perso.
Tra qualche giorno mi faranno a pezzi: quelli buoni li ricicleranno su qualche merci scassato e tutto il resto verrà fuso e riciclato, e man mano che mi smantelleranno, che mi smonteranno, che mi fonderanno e mi porteranno a tremila e passa gradi, di me non resterà nulla, nemmeno i ricordi, se non i vostri, grazie a queste due righe buttate lì come binari, e me lo auguro tanto. Pace: la vita è così.
Buona lettura e per favore, anche se non l’avete nemmeno mai sfogliato, mettete quattro stelle al Cane di terracotta di Camilleri da parte mia. Grazie.
 

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Farewells di Tobi Cobini

Lo trovai inginocchiato sul tappeto nel salotto un venerdì al ritorno da scuola. Ci stava facendo scorrere sopra quello che sembrava essere un trenino arancione fatto con i lego, che si lasciava dietro dei solchi profondi tra i folti peli del tappeto.
Poggiai lo zaino a terra e mi tolsi il cappotto. Feci per avvicinarmi, chiedendomi chi fosse, quando lui si voltò bloccandomi con uno sguardo cattivo. All' improvviso cominciò a smontare furiosamente il trenino lanciandomi contro i pezzi di lego e urlando.
- Ma che caz..
Un ragazzo piombò in salotto sollevando di peso il bimbo e stringendoselo al petto, seguito dalla faccia sconvolta di mia madre.
- Ma che diavolo Tess, non mi piace che usi certe parole!
- Ma mamma, quello mi ha lanciato contro i lego!
Mentre mi massaggiavo la fronte nel punto in cui uno dei pezzi mi aveva colpito, mandai un misto di occhiate interrogative e incendiarie verso mia madre, che nel frattempo stava indicando il corridoio al ragazzo. Lo vidi scomparire dietro la porta di camera di mio fratello e mi tremarono le ginocchia così tanto che dovetti appoggiarmi al bracciolo del divano.
- Tess, mi dispiace. Avrei dovuto dirtelo prima, prepararti, ma non ce n'è stato il tempo.
Cinque anni prima mio padre e mio fratello Matt erano morti in un incidente stradale. Io e mia madre eravamo rimaste a prenderci cura l'una dell'altra finché mia madre non aveva conosciuto David. Uscivano insieme da circa un anno, era un tizio simpatico. Lo odiavo. Era un cardiologo, separato con due figli. Le sue cene a casa nostra da sporadiche erano diventate sempre più frequenti, finché non si erano attestate su due giorni fissi a settimana, quando non aveva il turno in ospedale; si fermava anche a dormire. Si dia il caso che molto spesso uno di questi giorni era il venerdì, perciò il sabato mattina me lo ritrovavo tra i piedi a colazione e dovevo rinunciare al nostro abituale muffin e cappuccino al bar, seguito da una passeggiata alla Starbooks. Mia madre mi aveva proposto di coinvolgere anche lui, ma io ero stata categorica, assolutamente no. Era una cosa nostra, lo facevo per Matt, perché era quello che facevamo tutti i sabato mattina, prima. Lui aveva cinque anni più di me, come tutti i ragazzi, era fissato con i videogiochi. La Starbooks, la grande libreria a tre piani in centro, aveva un reparto dedicato in cui si potevano provare, accanto al quale c'era quello di libri per bambini, il mio mondo. Mentre lui si metteva davanti ad una delle postazioni di prova, in una posizione strategica da cui mi poteva controllare, io vagavo tra le meraviglie negli scaffali di fronte.
Lo shock di vedere un altro ragazzo mettere piede nella camera di mio fratello era stato devastante. Quella porta da cinque anni si apriva solo per me. Mia madre non ce la faceva, avrebbe voluto chiuderla così com'era e gettare via la chiave, ma io ne avevo fatto il mio rifugio. Da cinque anni me ne occupavo io, la tenevo in ordine, la pulivo, ci facevo i compiti, ci strimpellavo la chitarra, ogni tanto ci restavo a dormire. La chitarra era di Matt. Aveva iniziato da poco a prendere lezioni prima che succedesse. Lo guardavo torcere le dita sul manico provando gli accordi, tirava fuori strani stridii e suoni stonati mentre io ridevo a crepapelle; si indispettiva e finivamo per prenderci a cuscinate.
No, non avrei permesso a nessun'altro di entrare in camera di Matt.
Mi raddrizzai e mi diressi decisa verso la stanza, quei due dovevano sloggiare. Guardai il ragazzo dritto negli occhi:
- Esci immediatamente di qui.
- Tess, per favore torna in salotto, fammi spiegare.
Mia madre mi tirò per un braccio cercando di trascinarmi indietro. Il bimbo era disteso sul letto e sembrava che stesse dormendo, mentre il ragazzo era seduto di fianco a lui e gli teneva una mano sulla spalla. Mi guardai intorno e quello che vidi mi fece infuriare ancora di più. A terra vicino alla scrivania c'era un valigia e uno zaino, e la seconda rete con materasso incassata sotto il letto di mio fratello era stata tirata fuori e preparata con lenzuola e coperte. Una seconda ondata di panico, rabbia, dolore mi invase. Non riuscivo a respirare e mi lasciai trascinare indietro da mia madre che mi riportò in salotto sul divano.
- Sono i figli di David. Ha avuto un'emergenza in ospedale. Lo terrà impegnato per tutto il fine settimana. I suoi figli sono da lui da qualche giorno perché la sua ex-moglie è all’estero per lavoro e torna Domenica. Non c'era nessun' altro che potesse occuparsene, così mi sono offerta di farli stare qui. Il piccolo si chiama Ben, ha sei anni e ha una forma di autismo, e l'altro è Jason, ha un anno più di te.
Forse ero solo un'egoista, ma anche se mi dispiaceva per quel bambino, non potevano stare nella camera di Matt.
- Tess per favore parla, dì qualcosa.
Alzai lo sguardo su mia madre.
- Possiamo mettere il secondo letto in salotto e l'altro ragazzo può dormire sul divano. O così o niente.
- Per me va bene.
Una voce alle mie spalle mi fece trasalire. Il ragazzo era in piedi con le mani in tasca e mi guardava dritto negli occhi con un' espressione strana, un misto tra serio e beffardo.
- No, non preoccuparti Jason. Starete in camera di Matt. Tess, per favore, cerca di capire... Tess.
Non potevo farcela a restare lì, mi alzai e andai in camera mia chiudendo la porta a chiave. Rimasi sdraiata sul letto per tutto il pomeriggio e non uscii nemmeno per cena, nonostante mia madre fosse venuta più volte a bussare e ad implorarmi di uscire o di permetterle almeno di passarmi un toast. Mi feci tartassare le orecchie dagli AC/DC fino a quando, a notte inoltrata, spensi il lettore mp3 e chiusi gli occhi.
La mattina dopo fui svegliata dalla musica e pensai di aver dimenticato l'mp3 acceso. Era un bellissimo assolo di chitarra, e mi chiesi se stessi ancora sognando perché non lo riconoscevo, come poteva arrivare dal mio lettore? Mentre riprendevo coscienza un nuovo orrore mi serrò lo stomaco. La musica proveniva da fuori la mia porta. La chitarra di Matt. Uscii dalla stanza come una furia e mi avventai nell'altra strappandogliela di mano.
- Non permetterti mai più di toccare la roba di mio fratello.
Gli avevo ringhiato contro a denti stretti, incenerendolo con lo sguardo perché, pur fuori di me dalla rabbia, mi ero accorta che il bimbo dormiva ancora. Stringeva tra le mani i lego che, evidentemente, erano stati rimontati a formare di nuovo quella specie di trenino.
- Buongiorno principessa. Vedo che siamo gentili anche la mattina presto.
Quella faccia di c.. bronzo mi stava pure prendendo in giro. Mi voltai dirigendomi di nuovo verso camera mia portandomi dietro la chitarra. L'adagiai delicatamente a terra contro la parete e andai in bagno.
L'immagine della mia faccia allo specchio era un disastro: cerchi neri intorno agli occhi, capelli arruffati, guance rosse. Oddio, mi aveva vista in pigiama! Fu tutto quello che riuscii a pensare. Mi feci una doccia, mi lavai i denti e mi asciugai i capelli. Accidenti, non avevo portato con me i vestiti e non potevo certo uscire in accappatoio, perciò non mi restava altra scelta che rimettermi il pigiama. Mentre uscivo dal bagno mi chiesi dove fosse mia madre, in camera sua il letto era fatto e non sentivo rumori in cucina. Passai a tutta velocità davanti alla porta aperta di camera di Matt e uscii fuori il balcone del salone. Era una bella giornata, l'aria frizzante, il cielo striato da qualche cirro qua e là. Anche lui era in pigiama, con i capelli spettinati e le braccia intorno alla chitarra di Matt e... due occhi di un azzurro intenso. Mi resi conto in quell'istante che quell'immagine non avrebbe lasciato i miei pensieri per un po'. Il guaio era che non ero del tutto sicura che fosse proprio una brutta immagine. La porta nell'ingresso che sbatteva mi riscosse e tornai dentro, mia madre stava entrando con le mani piene di buste della spesa.
- Non stare li imbambolata, aiutami.
- Dia a me.
- Oh, grazie Jason.
Mia madre era entrata con diverse buste della spesa e Jason (ancora in pigiama. Ahia!) era accorso a liberarla da alcuni sacchetti. Che ci faceva lui lì in piedi nel salone? Dalla porta lasciata aperta vidi che c'erano altre cose fuori dall'ingresso, così mi affrettai ad uscire per prenderle. Non appena mi voltai mi trovai di fronte il bambino. Era dritto in piedi in mezzo al portone e mi guardava fisso.
- Ehm, ciao. M-mi fai entrare per favore?
Continuava a guardarmi fisso senza accennare a muoversi. Ricordai quello che era successo il giorno prima e quello che aveva detto mia madre così ebbi paura di farmi avanti. Valutai che non poteva lanciarmi contro niente, ma poteva sempre mettersi ad urlare.
- Mi lasceresti entrare, per favore.
Provai di nuovo. Poi lo sguardo mi cadde sulle arance che erano in un sacchetto, dell'esatto colore dei suoi lego. Senza sapere bene perché, ne presi una e gliela porsi. Ecco, che mossa idiota, gli avevo appena dato qualcosa da lanciarmi contro. Inaspettatamente invece indietreggiò e corse via portandosi dietro l'arancia.
Dalla porta fece capolino suo fratello.
- Servono un paio di braccia muscolose?
Senza attendere risposta, raccolse alcune buste e una cassa d'acqua. Aveva arrotolato le maniche del pigiama fino a sopra il gomito e sui suoi avambracci si evidenziarono delle vene quando i muscoli si tesero. Mi aveva lasciato solo il sacchetto con le arance, così lo raccolsi ed lo seguii dentro chiudendomi il portone alle spalle.
- Ragazzi siete ancora in pigiama. Che ne dite di andare a fare colazione al bar?
- Io non posso mamma, mi dispiace, devo vedermi con Melanie tra... Oddio, tra mezz'ora!
Filai in camera mia a cambiarmi. Mi brontolava lo stomaco dalla fame e non avevo nessun appuntamento con Melanie. Le mandai un messaggio: 'tra mezz'ora da Starbooks'.
Non aspettai la risposta, mi vestii più velocemente di quanto avessi mai fatto in vita mia, promisi a mia madre di tornare per pranzo e uscii. Un'ora dopo ricevetti un messaggio da Melanie che diceva che si era appena svegliata e che mi avrebbe raggiunto il prima possibile. Merda!
Avevo preso un muffin e un succo ed ero entrata da Starbooks in esattamente ventotto minuti e qualche secondo. Dopo dieci minuti passati fuori ad aspettare Melanie o un suo messaggio, avevo provato a chiamarla e mi aveva risposto la segreteria, così ero entrata. Il resto del tempo l'avevo passato a provare diversi videogiochi nella postazione di Matt.
Non me la stavo cavando troppo bene. Il mio personaggio cadeva spesso nei burroni, schiacciato da incudini, preso a calci da omoni pieni di muscoli, trafitto da scimitarre o avvelenato da bava di zombie, mentre immagini di capelli scompigliati, maniche di pigiama arrotolate e la parola 'muscolose' mi vorticavano nella testa.
- Che hai fatto alla testa?
Oddio, mi legge nel pensiero? Melanie mi fissava con aria preoccupata e io le restituii uno sguardo sbigottito.
- Prooonto, Tess, ci sei?
Mi sventolò una mano davanti alla faccia. Poi indicò un punto sulla sua fronte. Ah, quello! Mi toccai la fronte a mia volta; si era fermato un piccolo bozzo violaceo dove il lego mi aveva colpito. Quel bambino aveva un certa forza nel lancio.
Le raccontai velocemente quello che era successo dal mio ritorno da scuola il giorno prima.
- Cavoli, Tess, quando me lo fai conoscere?
- Che? Vuoi conoscere il bambino?
- Ma no, scema, il fratello. Sembra.. interessante.
- E' solo un presuntuoso arrogante che non si fa gli affari suoi.
- Ah, sì. Da quello che mi hai detto sembra uno strafigo da paura. E poi è dolce.
- Dooolce? Mi spieghi come fai a dire questo dopo quello che ti ho detto? Ha invaso la stanza di Matt senza nessun riguardo, ha toccato la sua chitarra!
- Sì, però suona bene. E si prende cura del fratellino. E' dolce.
- Oh mamma, Melanie, hai un vero talento per stravolgere il senso di un discorso. Ma come fai?
- Se proprio vogliamo parlare di qualcosa di stravolto credo che dovresti...
Ma non seppi mai quello che avrei dovuto fare perché mi squillò il cellulare. Era mia madre: risposi, ascoltai e dopo dieci secondi riattaccai.
- Melanie, scusami tanto ma devo tornare a casa, subito. Ti chiamo più tardi.
Mi avviai di corsa verso casa. Ben era scomparso. L'avevano lasciato a giocare con il trenino sul tappeto mentre mamma era in cucina a preparare il pranzo e Jason faceva una doccia. Quando era uscito dal bagno aveva trovato il portone aperto e lui non c'era più. Jason si era precipitato fuori a cercarlo, ma qualcuno doveva restare a casa nel caso tornasse, così mi madre era rimasta lì. Quando arrivai era sconvolta e in preda al panico; non sapeva se chiamare il padre o la polizia. Cercai di calmarla dicendole che lo avremmo sicuramente trovato presto e uscii anch'io. Controllai prima all'interno del palazzo, ai piani superiori, sul terrazzo e giù nel parcheggio sotterraneo. Poi mi incamminai lungo il marciapiede guardando dentro a tutti i negozi e chiedendo alla gente per strada, ma nessuno sembrava averlo visto. Dopo poco più di mezz'ora passai davanti al parco e sentii gridare il suo nome. Seguii la voce e vidi Jason, il volto trasfigurato dalla paura.
- Ho guardato dappertutto nel parco. Non c'è.
- Siete mai stati in questa zona? C'è qualche posto che può conoscere?
Scosse la testa.
- Non l'aveva mai fatto prima, mai. Non era mai scappato. Era tranquillo stamattina, aveva mangiato l'arancia che gli hai dato. Non voleva..
- Un momento, arancia? Vieni con me.
Lo presi per un braccio e lo strattonai di corsa dietro di me. Ci addentrammo nel parco fino ad un muro di cespugli che separavano il prato dalla villa che ospitava un museo e alcuni uffici del comune. Mi infilai in uno stretto varco tra le siepi e girai intorno all'edificio. Sul retro c'erano due cilindri di cemento cavi, grandi e lunghi, posti uno di fianco all'altro come due alberi caduti. Io e Matt ci giocavamo quando eravamo piccoli e la mamma ci portava a trovare papà in ufficio, era uno dei curatori del museo.
I due cilindri erano arancioni.

(continua sotto)​
 
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(continua da sopra)

Trovammo Ben arrotolato su se stesso dentro uno dei cilindri, con le braccia attorno alle ginocchia piegate che si dondolava. Jason lo chiamò e gli allungò una mano cercando di farlo uscire ma lui non lo guardò neppure, continuando a dondolarsi.
- Ben, guarda chi c'è qui, è Tess. Ti ricordi di Tess.
- Ciao Ben, che fai? Ti piace qui? E' carino. Ci venivo a giocare con mio fratello sai? Ci salivamo sopra, ci strisciavamo dentro, e poi ci mettevamo ognuno in un cilindro a giocare al gioco degli indovinelli. Così.
Mi infilai nell'altro cilindro e procedendo carponi mi posizionai nel centro. Poi bussai con le nocche sulla parete.
- Toc toc. Sono il bruco Brunello e ti lancio un indovinello. Ha i capelli sparati, ma non sono dorati, un naso buffo e gli occhi color puffo. Chi è?
- Jason!
Udii la sua voce per la prima volta. Jason guardava allibito una volta me e l'altra Ben. Sentii un mormorio e ricambiai lo sguardo di Jason con uno interrogativo.
- Dice se gliene fai un altro.
Annuii.
- Toc toc. Sono il bruco Brunello e ti lancio un indovinello. Sono ruvida e succosa, non profumo di rosa, tonda come un pallone e sono arancione. Cos'è?
- Arancia!
Andai avanti così per un po'. Poi riuscimmo a farlo uscire e chiamai la mamma per assicurarle che l'avevamo trovato e stava bene. Riuscii anche a convincerla a farci restare un altro po' nel parco prima di tornare a casa.
Io e Jason affiancammo Ben sui due lati e lui ci porse le piccole mani. Camminammo per alcuni minuti lungo i sentieri nel parco in silenzio, tra il frusciare delle foglie e il cinguettio insistente di stormi di uccelli invisibili, finché fu Jason a rompere il silenzio.
- Ti va di fare un giretto nel museo?
Cercai di sciogliere il groppo istantaneo che mi si era formato nella gola mentre annuivo. Non ci avevo più messo piede da cinque anni.
Mi resi immediatamente conto delle contraddizioni che vivevano nella mia testa e nei miei comportamenti. Riuscivo a stare nella camera di Matt, usare le sue cose, strimpellare la chitarra o farmi consolare dai suoi maglioni, ma avevo rifiutato ogni contatto con tutto quello che mi ricordava mio padre. Adoravo tutti e due allo stesso modo, eppure la mia reazione al dolore per la loro mancanza era diversa.
- Non metto piede qui dentro da cinque anni.
Non so perché lo avevo detto ad alta voce.
- Tuo padre lavorava qui, vero?
- Sì. Come lo sai?
- Me lo ha detto mio padre. Quando ci ha lasciato a casa tua mi ha detto che in questi giorni ospitavano un mostra sul Futurismo e di venire a vederla.
- Ti interessi d'arte?
- Un po'. Mia nonna era una pittrice. Io mi diverto di più con i fumetti.
- Ah, quindi sei bravo anche a disegnare?
- Che vuol dire 'anche'?
- La chitarra.
- Ah. Senti, scusami per averla presa senza permesso. Mi dispiace.
- Ok. Ma non farlo più.
- Anzi, sai cosa ti dico. No, non mi dispiace per niente, non era accordata, faceva schifo. E’ una buona chitarra, dovresti tenerla meglio e dovrebbe essere suonata. Se vuoi posso insegnarti, credo che a tuo fratello farebbe piacere.
- Ma non te li fai mai gli affari tuoi?
Il silenzio si insinuò di nuovo tra noi, anche se ora era teso e non più sereno come prima. Vagammo per il museo osservando i quadri. Alcuni erano stupendi, devo ammetterlo. Non ero mai stata troppo interessata alla pittura. A scuola studiavamo storia dell'arte, ma per ora eravamo a colonne e capitelli, che noia.
Pensavo che entrare in quel posto mi avrebbe fatto stare male, ma non fu così. Sentii echeggiare la risata di mio padre e un certo calore mi scaldò il cuore quando sentii la piccola mano di Ben che stringeva poco più forte la mia. Chinai la testa verso Ben e vidi che stava fissando qualcosa, un dipinto in cui risaltavano forme ondulate e intrecciate sui colori del verde oliva, del rosso e dell'arancio. Da lontano riuscivo a distinguere nitidamente un numero al centro, 6943, di colore arancio. Sorrisi e mi avvicinai per guardare meglio, e la sorpresa fu grande nel distinguere tra quelle forme la sagoma di una locomotiva. Il pannello informativo diceva che era una riproduzione, così come i due altri dipinti a fianco, facenti parte di un ciclo intitolato Stati d'animo, che raffiguravano ognuno un diverso stato d'animo della gente al momento della partenza del treno: Gli adii, Quelli che vanno e Quelli che restano. Sebbene fossero tutti e tre magnetici, il primo era quello in cui più mi perdevo, attirata nelle spirali e nelle forme ondulate che avvolgevano tutto. Ebbi come l'impressione che quelle linee potessero rappresentare un legame tra chi parte e chi resta che non avrebbe mai potuto essere spezzato. Questo pensiero mi infuse una serenità diversa, un senso di pace che non avevo più provato in tutti quegli anni.
Dopo pranzo Ben si addormentò e io e Jason passammo il pomeriggio impegnati nella mia prima lezione di chitarra. Tutto sommato fu divertente, nonostante il mio insegnante fosse dispotico e un po' troppo pieno di sé. Passammo la serata davanti alla Tv con pizza e popcorn guardando Garfield, il cartone animato preferito di Ben.
Verso le quattro del mattino dei rumori mi svegliarono. Sentii dei passi, il portone che si apriva e si chiudeva e poi dei mormorii in corridoio. Tesi l'orecchio per ascoltare, era David che aveva finito il suo turno prolungato in ospedale e stava chiedendo a Jason di Ben. Dopo altri rumori di passi e di porte che si chiudevano ci fu qualche minuto di silenzio, ma prima che potessi riaddormentarmi sentii aprirsi la porta della mia camera. Decisi di tenere gli occhi chiusi e far finta di dormire pensando che fosse la mamma che controllava se mi avessero svegliato.
La Domenica ci alzammo sul tardi. Dopo una ricca colazione, dove Ben mostrò particolare interesse per il mio metodo per preparare una tazza di cereali misti che doveva contenere esatte porzioni di cinque tipi diversi, io e la mamma li accompagnammo alla stazione. La madre viveva in una cittadina a poco più di 100 km; per riportarli a casa David aveva deciso di prendere il treno, anziché andare con la macchina, per far felice Ben che aveva proprio una grande passione per i treni.
Appena prima di salire, Jason mi guardò dritta negli occhi con le sopracciglia aggrottate e un mezzo sorriso.
- Così ho il naso buffo e gli occhi color puffo, eh?
Scoppiai a ridere. Poi Ben mi abbracciò, staccò un lego dal suo trenino e me lo porse; lo presi ringraziandolo e gli scoccai un bacio sulla guancia. Li guardai prendere posto nella carrozza e poi io e la mamma continuammo a salutarli con la mano mentre il treno si allontanava.
Non mi piaceva l'idea di dirgli addio. Chissà, forse, se le cose fossero andate bene tra mamma e David, sarebbe stato solo un arrivederci.
 
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