Granchi, Massimo - Come una pianta di cappero

Lollina

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Edda non è come le altre: non lo è per destino familiare, figlia e nipote di giostrai, sangue rom e sardo nelle vene. Edda è sola nella grande e sconquassata famiglia che divide l’appartamento cagliaritano nei primi anni Sessanta, tra tanti fratelli ognuno con la sua peculiare solitudine, un padre amato e sempre in fuga, una madre vinta e evanescente.
Edda è di molti luoghi e di nessun luogo: a Cagliari ha le sue radici, e Cagliari è soprattutto quel mare che sembra promettere un altrove possibile, inutilmente cercato nell’altra isola, la Sicilia, e poi nel continente, dove la porta una carriera di giostraia e di artista circense che altro non è se non un tentativo di fuga da un destino che la vorrebbe donna, adulta e determinata. Ma la vita ti raggiunge ovunque, anche in quella terra di nessuno che è il circo, e con essa le difficoltà, i fallimenti, le delusioni.
Proprio quando Edda sembra aver finalmente raggiunto la pace (il matrimonio con un uomo che la adora ma che non può non essere un Marito, con tutto quello che questo titolo comporta negli anni Settanta; due figli amatissimi) l’inquietudine che da sempre la bracca esplode, diventa malattia. E’ una caduta senza lieto fine né tragedia, quella che vede Edda lentamente scivolare nell’oblio, come in un lungo commiato alla vita.
Un romanzo di grande intensità, a tratti spiazzante, perché il lettore viene messo nelle stesse condizioni dei comprimari della vicenda: all’oscuro all’inizio, poi poco a poco consapevole del male che cresce dentro la protagonista. La scrittura è asciutta, come si addice al proposito di oggettività quasi clinica con cui viene costruito il personaggio principale. A tratti però si fa un po’ forbita, quasi accademica.
Comunque interessante.
 
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