Catherine Pozzi - Amo colui che non sa

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giovaneholden

Guest
Amo colui che non sa
dove condurre i suoi passi;
destino, non fare
che un vento lo porti ov'io non sono,
ti supplico -
Attribuisci fortuna e sfortuna
a questo dormiente in egual misura,
così che finisca sul cuore
della sua amica.
 

Ondine

Logopedista nei sogni
Di Catherine Pozzi, poetessa francese d’inizio Novecento, restano alcune poesie, ora raccolte in un piccolo libro Nyx e altre poesie, per la collana Acquamarina di Via del Vento Edizioni , con traduzione e cura di Maria Ciardi. Il piccolo libro include un estratto del saggio Pelle d'anima, pubblicato postumo e alcuni cenni critici e biografici. Postumo uscirà anche il Journal, diario che comincia a scrivere dal 1913 fino alla sua morte, nel 1934. In vita, Catherine aveva pubblicato una sola poesia e un solo racconto Agnés. Niente altro. Chi è Catherine Pozzi? Nata sul finire dell’Ottocento, Catherine discende da un’antica famiglia italiana e fa parte dell’alta borghesia parigina.
A questa condizione di privilegio reagisce da subito in maniera riluttante. Giovane donna, si immerge con passione nelle lettere antiche e nei volumi di scienza che trova nella biblioteca del padre. Paul Valéry parlerà di lei come di «qualcosa che è capitato» nella vita. Qualcosa però di molto intimo, che durerà otto anni e da cui Valery uscirà, a suo dire, provato e sconvolto. Questo «qualcosa» di nome Catherine Pozzi è una poetessa altera e magra. Eterea e un po’ dentona ci sorride da vezzose foto d’epoca. Seduta al pianoforte, a lungo aveva intrattenuto gli amici che i suoi genitori adunavano nel salotto letterario di casa. Non amici comuni, s’intende, ma poeti parnassiani, artisti, letterati, personaggi come Proust, Lorrain, Colette. Catherine partecipa al salotto, osserva e giudica.
Nel Sonetto per il diplomatico perché smetta di struggersi nella camera gialla , tratteggia un diplomatico «biondiccio quel tanto» che basta a disgustarla: il diplomatico parla forbito, tira in ballo Descartes e Spinoza, ma «è poca cosa il suo cuore su un cuscino arancione…» per Catherine cuore e conoscenza devono andare insieme. Oltre c’è il disgusto. Alla frattura tra cuore e conoscenza Catherine risponde con un tormento senza nome, un tratto visionario e misterico così forte da far paura. E ben presto una diagnosi impietosa completerà l’opera: tubercolosi. Catherine impara giovanissima ad avere a che fare con oppio, morfina ed etere. Malattia e morfina da un lato, chimica e antiche lettere dall’altro. Qualcosa di dotto e di arcaico governa la sua esistenza. Attrazione e isolamento. Amori e ritirate. Oppressa dai suoi fantasmi Catherine prenderà presto distanza da ogni mondanità. E nonostante gli amici influenti, alla fine, 56enne, morirà completamente sola nella sua stanza da bagno, logorata dalla tisi. Sarà tirata fuori da quella stanza dieci giorni dopo la morte, solo grazie all’insistenza d’un vicino sospettoso. Eppure aveva avuto un marito, un figlio, amorose frequentazioni. Aveva incontrato D’Annunzio, Rilke. Poteva contare sull’appoggio di Jean Paulhan, allora direttore della Nouvelle Revue Française . Perché allora quella solitudine? Perché quel negarsi alla scrittura? Perché pubblicare una sola poesia in vita e conservarne sei, soltanto sei, chiamate «le maggiori»?
La poesia del 21 ottobre 1926 comincia così: «Non avendo assolutamente più alcuna speranza / Non più affidandomi alla comprensione / seduta senza respiro / lei freme / una rosa nel cuore». Ma come? Tutto quell’essere altolocata, tutto quel giovanile luccichìo…dov’era finito? Alle soglie degli anni Trenta Catherine è ritratta scavata, offuscata: ha il respiro debole, fatica a parlare. Nel cassetto conserva solo quelle sei poesie, altamente in bilico tra il formalismo dotto dei poeti parnassiani e la brutalità arcaica dei riti misterici. Dal titolo della sua ultima poesia, Nyx, traspare tutto il suo amore per la Grecia antica e per certe misteriose laminette orfiche , da lei amorosamente tradotte. Le laminette orfiche, risalenti al IV-III sec, sono sottili foglie d’oro che venivano sepolte addosso al defunto. Sulle laminette si trovano iscritte brevi formule oscure, utili al morto per trovare nell’Ade la felicità negata in terra. Foglie, fogli, attraverso i secoli… I pochi fogli che Catherine Pozzi voleva portare con sé si chiudono struggentemente con un «non so: non so di chi sono la preda / non so di chi sono l’amore».

Articolo di Ida Travi (Il manifesto)
 
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