Rilke, Rainer Maria - I quaderni di Malte Laurids Brigge

ayuthaya

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Non è per nulla facile commentare questo libro, così come non lo è stato leggerlo, e ammetto che probabilmente rinuncerei all'impresa se non fosse che questo romanzo di Rilke, più noto al pubblico come poeta, non è ancora stato recensito qui nel Forum, ed è un peccato...
Non esiste trama: il libro appartiene al genere del diario, fortemente autobiografico, il quale per giunta non “racconta” nulla, ma consiste in un susseguirsi di riflessioni, ricordi, evocazioni di personaggi storici, apparentemente slegati l'uno dall'altra. Non è certamente materia facile, tanto più che sarà stata una mia suggestione, ma si avverte molto il “poeta” che è in lui e questo per certi versi rende la sua prosa ancora più ostica ed enigmatica. Pertanto il mio apprezzamento nei confronti di quest'opera è stato oscillante: bellissimi alcuni passaggi sulla morte (tema ricorrente e centrale, direi), sulla poesia, sull'amore, mentre altri mi sono risultati più oscuri e di conseguenza non sono riuscita a gustarli pienamente, nonostante ne percepissi il valore.

I quaderni di M.L.B. si pone fra quei libri che segnano il passaggio - critico, faticoso - dall'uomo "del passato" all'uomo moderno. In questo senso mi è sorto spontaneo paragonarlo a romanzi come La cripta dei cappuccini di Joseph Roth, jL'uomo senza qualità di Musil, o persino Viaggio al termine della notte di Celine... Sono tutti libri che nascono in risposta alla crisi dell'uomo così come era stato concepito fino a quel momento e che dolorosamente, sebbene con esiti al quanto diversi fra loro, si interrogano sull'identità dell'uomo nuovo, privo com'è di delle certezze e dell'eredità, storica e culturale, che si portava dietro.
Quello dell'eredità, inteso come tutto ciò che viene tramandato e che cosituisce un legame, anche fisico, col proprio passato, mi è parso essere un tema caro all'autore. Ho letto, nella breve cronologia della sua vita che fa da prefazione alla mia edizione, che Rilke amava farsi credere di origini nobili, non tanto, credo, per il desiderio di innalzarsi a un livello più sociale più elevato (la sua famiglia era borghese), quanto piuttosto per il bisogno di costruire un ponte, magari del tutto immaginario, verso un mondo al quale egli idealmente sentiva di appartenere e senza il cui provato legame si sentiva perso, isolato, straniero. In alcuni passaggi de I quaderni si percepisce molto bene che questo bagaglio, che è fatto di esperienze, di oggetti, di relazioni familiari, e che è la matreia di cui si compongono i ricordi, è ritenuto fondamentale per riconoscere la propria identità. Ma l'uomo moderno ha perso il senso stesso della continuità e, sembra chiedersi Rilke, come può trovare se stesso avendo smarrito le proprie radici?
“E non si ha più nulla e nessuno e si viaggia per il mondo con un baule e una cassa di libri e di fatto senza curiosità. Di fatto, senza casa, senza cose ereditate, senza cani, che vita è mai questa?”

Per questa ragione vi è un indugiare così insistente sui ricordi legati alla propria famiglia... frammenti sparsi e apparentemente indipendenti l'uno dall'altro, i quali però vanno a formare un mosaico che sembra costituire l'unico punto di riferimento del Malte Brigge ormai adulto e solo. Laddove il protagonista rievoca la morte di suo padre, le sue parole rendono evidente il fatto che, con la sua perdita, l'ultimo legame è stato reciso per sempre. E' un'esperienza naturale, ma per l' "uomo moderno" questo senso di perdita assume un significato ancora più profondo e tragico.

Uno dei passaggi che ho trovato sublimi si riferisce proprio alla morte, che mai come in questo caso è appropriato chiamare "sorella morte": anch'essa fa parte delle cose "perdute" dall'uomo moderno. "Tutti avevano una propria morte. Gli uomini che la portavano nell’armatura, dentro, come un prigioniero, le donne che divenivano vecchissime e piccole, e poi in un letto enorme morivano come su un palcoscenico, dinanzi all’intera famiglia [...]. E quale bellezza malinconica nelle donne, quand’erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d’istinto le mani esili, c’erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme?"

Brigge/Rilke, in conclusione, non sembra avere "propositi" nei confronti di questo libro, e probabilmente in questo vi è la sua intrinseca difficoltà.... è come se l'autore cercasse di costruire se stesso attraverso i frammenti della propria vita. D'altra parte lui stesso scrive - e credo che queste parole siano le più adatte a commentare questo romanzo - “bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere animali, si deve sentire come gli uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. [...] E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi, di per sé stessi, ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.”
 
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