Roth, Joseph - La tela del ragno

ayuthaya

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Questo libro conferma l’idea che mi sono fatta di Joseph Roth come di uno scrittore magistrale e raffinato, e allo stesso tempo presenta uno stile un po’ diverso da quello delle sue opere successive: secco, spezzato, martellante. É una scrittura che ha il ritmo di una marcia, e ben si accorda all’argomento trattato.

La mia quarta di copertina parla di “un ufficialetto della grande guerra disadattato alla pace, che mal si contenta di fare il precettore in una famiglia ebrea, che per fame e per invidia, per insensibilità morale e per tetra sete di potere, fa una carriera emblematica nell'ambito della "strategia della tensione" nella repubblica di Weimar. Colta una torbida occasione di entrare in un’ “associazione segreta”, Theodor Lhose si fa spia di sovversivi (e se non ne trova ne inventa), picchiatore, agente provocatore, giornalista di fogli razzisti, capo di squadracce che reprimono nel sangue manifestazioni democratiche e lotte contadine.” (mi interrompo qui per evitare spoiler).

Theodor Lhose è la summa di quanto di più mediocre e cinico vi possa essere nell’animo umano: interessato solo a far carriera, a essere “qualcuno” − anzi, “il solo” − egli persegue ciecamente, senza alcuno scrupolo morale o intellettuale, la sua ambizione. In questo romanzo, che costituisce il suo esordio narrativo, Roth tratteggia un personaggio che non corrisponde ad alcuna ideologia (neppure quella che lui stesso si sforzerà di diffondere, guadagnandosi un discreto numero di seguaci), ragion per cui non sono del tutto d’accordo che si tratti del “tipico nazista”: a muoverlo, persino nel proprio eccessivo e spesso controproducente "zelo", è sempre e solo il proprio tornaconto personale.
Quello che mi ha davvero colpito di questo personaggio sono stati due aspetti, probabilmente complementari. Da una parte vi è il senso di inferiorità che accompagna il suo smisurato e infondato orgoglio, nonché la sua ossessione di elevarsi al di sopra della massa, alla quale evidentemente appartiene per piccolezza morale. In questo senso, il continuo riferimento a Efrussi e a sua moglie, presso cui ha fatto da precettore fino a poco tempo prima e la cui incolmabile “distanza” lo ha profondamente segnato, ben simboleggia il rapporto di sudditanza sociale, economica, intellettuale che egli sente di avere nei loro confronti e che non riuscirà mai a superare, neppure quando il suo indubbio successo sembra convincerlo di avercela fatta (proprio l'insistenza con cui Lhose si ripete la propria ottenuta superiorità, dimostra quanto inconsciamente lui stesso ne sia poco convinto...). E mentre Efrussi − colto, ricco ed ebreo − si trasforma nel naturale bersaglio dell'odio del giovane Theodor, sua moglie − che su di lui ha sempre esercitato il fascino della donna raffinata e irraggiungibile − resterà per Lhose il simbolo di ciò che aspira a possedere (per sancire il proprio trionfo) senza mai riuscirvi. D'altra parte, non è la prima volta che a spingere un uomo al disprezzo verso i suoi simili, all'indifferenza morale, allo spietato cinismo, sia la consapevolezza della propria inferiorità e il disperato tentativo di rivalersi su di essa.
Il secondo aspetto che mi ha colpito è la carica profetica che tutta la critica riconosce a questo romanzo, scritto nel 1923. Non posso chiaramente non essere d'accordo con questo riconoscimento, e allo stesso tempo mentre leggevo mi veniva da pensare che più che aver intuito gli “orrori del nazismo, delle stragi controrivoluzionarie, delle “trame nere” di sempre”, Roth è stato capace di tratteggiare la figura dell'arrivista moderno quali ne vediamo continuamente oggi sotto i nostri occhi. La componente davvero premonitrice consiste nel fatto che Lhose si inventa ciò che non esiste, si crea dei nemici per poterli eliminare, dichiara come vero e garantito ciò che sospetta o che anche solo gli fa comodo pur di far carriera, e soprattutto che i suoi sforzi raggiungno i risultati sperati. Roth ha delineato l'uomo di successo tale per aver saputo coltivare le amicizie giuste, per essersi messo in luce al posto giusto e al momento giusto, per aver avuto le “ mani in pasta” lì dove contava averle. Non importa a quale prezzo.

Eppure la sua non è una vittoria definitiva: i fantasmi dei crimini commessi non smetteranno di visitare la coscienza di Lhose, ma soprattutto arriverà il momento in cui il nostro protagonista incontrerà un uomo ancora più scaltro, infido e spregiudicato di lui: l'ebreo russo Benjamin Lenz.
Il momento in cui è entrato in gioco questo personaggio è decisamente quello che ho preferito dell'intero romanzo, non solo per i passaggi che lo riguardano direttamente, e che ci mostrano un personaggio altrettanto amorale, ma molto più determinato e acuto del protagonista, ma anche perchè attraverso di lui Lhose entra in contatto con il “popolo tedesco”, quello per il quale lui ha sempre detto e creduto di combattere (mentre in realtà, è ovvio, agiva solo per se stesso) e che invece, si rende finalmente conto, non conosce e non capisce, anzi, il cui contatto gli fa ribrezzo.
Quella gente gli era estranea, sconosciuto era il loro volto, non appartenevano al suo mondo, non appartenevano a questo mondo. Non li compativa, vedeva che soffrivano, ma non riusciva a immaginarsi la loro sofferenza. A uno a uno forse li avrebbe capiti, ma nella massa veniva meno ogni contorno, ogni punto fisso. Tutto vacillava e si dissolveva. Non sapeva come fosse il loro amore quando amavano, nè il loro pianto quando piangevano”. Attraverso l’indifferenza di Lhose, Roth dipinge dei ritratti molto forti di questo popolo impoverito e disperato... sono passaggi vibranti, che spezzano una certa “monotonia” della narrazione fino a quel momento incentrata sulle sole vicende del protagonista.

Insieme a questi brevi ma intensi passaggi, ho trovato altrettanto splendidi, dal punto di vista narrativo, quelli in cui osserviamo la realtà con gli occhi di Lenz.
Come Theodor, anche Lenz agisce solo per se stesso, ma a spingerlo non è la cieca ambizione, bensì un autentico disprezzo per gli altri (in particolare per gli “europei”), con cui condivide il cinismo ma non la mediocrità e che egli “usa” a proprio vantaggio con grande freddezza. Ecco, proprio la lucidità di questo personaggio, alter ego del protagonista, il solo capace di capire ciò che sta accadendo e di trarne profitto, mi ha conquistato.
Come amava quei tempi, Benjamin Lenz, e quegli uomini. Lui ne traeva alimento e prosperava e raccoglieva forza, raggoglieva segreti, raccoglieva denaro, raccoglieva gioia, raccoglieva odio. (...) Oh, come li amava Benjamin Lenz! Come poteva odiarli, e alimentare il loro odio e ingigantirlo! Benjamin aspetta, saranno la sua preda. Si dilianeranno l’un l’altro e lui sarà il loro spettatore. E come amava Theodor, l’odiato europeo, Theodor; l’essere vile e crudele, ottuso e perverso, ambizioso e incapace, avido e superficiale, l’uomo medio empio arrogante e servile, il calpestato, l’ambizioso Theodor Lhose! Era il giovane europeo: nazionalista e egoista, senza fede, senza fedeltà, assetato di sangue e limitato d’ingegno. Era la giovane Europa.
 
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