Pamuk, Orhan - La casa del silenzio

velmez

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Fatma, insieme al nano Recep, figlio illegittimo del suo defunto marito, vive ancora nella casa in cui si trasferì con il suo sposo - un medico fallito, attivista politico e alcolista - quando decisero di abbandonare Istanbul agli inizi della rivoluzione del 1908. Nella cadente villa in legno Fatma, altezzosa e bisbetica, trascorre i giorni e le notti assorta nei ricordi, a rodersi in un cupo sentimento. I suoi figli sono morti, ma i suoi tre nipoti ogni estate vanno a trovarla per un breve soggiorno. Faruk, il maggiore, è uno storico che, abbandonato dalla moglie, ha trovato nell'alcol un efficace palliativo alla noia; Nilgün è un'affascinante studentessa progressista che sogna una rivoluzione sociale che non arriva mai; il giovane Metin è un genio della matematica che vuole emigrare negli Stati Uniti per arricchirsi. Tutti e tre, per motivi diversi, desiderano che la nonna venda la casa.

Questo libro mi è piaciuto moltissimo.
Di Pamuk avevo letto la Nuova Vita (MOLTO bello ma un po' pesantuccio), Il Castello bianco (noiosissimo e inutile), Il mio nome è rosso (accettabile, ma non il mio genere) e ora mi trovo per le mani questo, regalato da un'amica... E' il primo romanzo corale con una numerica così alta di personaggi che mi capita di leggere... ben 5, alternati in maniera discontinua... ho trovato ben caratterizzata la vecchia, Faruk... mi sono sembrati un po' troppo simili Hasan e Metin (tra l'altro ho trovato discordante il fatto che un ragazzo che studia poco e uno che invece studia molto, abbiano gli stessi istinti violenti e pressoché le stesse idee politiche.... :boh: ). Mi ha lasciato un po' perplessa la figura di Recep.
Personalmente ho trovato il tutto molto poco credibile, o meglio, comprensibile dal mio punto di vista, ma al contempo esplicativo di una società bloccata dalla tradizione, ma con una grande voglia di crescita, espansione e novità. Davvero consigliato!
 

bouvard

Well-known member
Secondo alcuni La casa del silenzio non è tra i libri migliori di Pamuk, non avendo io ancora letto altri suoi libri non posso né concordare, né dissentire, posso però dire che a me è piaciuto molto. Perciò - nell’ottica di future letture ancora più soddisfacenti – io egoisticamente mi auguro che davvero non sia uno dei suoi libri migliori.

Non poteva esserci titolo più azzeccato per questo libro. La casa del silenzio – una casa fatiscente in cima alla collina di Forte Paradiso - è quella della vecchia Fatma, una donna che quasi non vive il presente, continuamente immersa com’è a ricordare il passato. Una casa in cui si parla poco – e quando si parla quasi non si dice niente, se non frasi vuote, dette e ripetute già tante volte, tanto che ognuno nella sua testa sa già cosa dirà l’altro - ma in cui si pensa e si ricorda molto. E’ un libro “corale” con cinque diverse voci narranti che si alternano per raccontarci ognuno il suo punto di vista sui pochi avvenimenti. Una critica a Pamuk comunque gliela devo fare perché non ho capito – e soprattutto non condivido – la sua scelta delle voci narranti. Come ha già scritto Velmez nel suo commento Metin e Hassan nella loro diversità sono due personaggi molto simili, perciò almeno io avrei preferito che al posto di Metin “parlasse” Nilgun.

E’ un libro sulle diverse facce della Turchia, quella attaccata al passato (Fatma) – per essere precisi ostinatamente e ciecamente attaccata al passato - quella rivolta all’Occidente (Metin, Selahattin, Nilgun) – con sfumature e risultati diversi – ed infine quella di chi sta in bilico tra le due posizioni e quasi si sente costantemente fuori posto (Faruk). Per tutto il libro si percepisce la necessità per la Turchia di un rinnovamento, di una sua apertura all’Occidente per superare la propria arretratezza, ma anche la difficoltà di trovare un equilibrio tra questa apertura e la tradizione. Il fatto che la Turchia debba aprirsi necessariamente all’Europa – sembra dirci Pamuk – non dev’essere però una resa, un rinunciare alle proprie tradizioni, alla propria cultura, ma semmai un prendere quanto di positivo l’Europa può offrire mantenendo le proprie radici e la propria identità.
Bello, consigliato.

“…non si può ricominciare la propria vita; quel viaggio a senso unico, una volta concluso, non lo si può rifare; se però si ha un libro in mano, e anche se quel libro è confuso e misterioso, dopo che lo si è terminato, lo si può riprendere dall’inizio, se si vuole, lo si può rileggere per tentare di capire l’incomprensibile, per capire la vita; non è vero, Fatma?”
 

ayuthaya

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Pamuk per me, ormai, è una garanzia: scrittore di grande valore, meritatissimo premio Nobel, i suoi romanzi sono sempre finemente articolati sia dal punto di vista narrativo, sia da quello dei contenuti. Eppure il tema è sempre lo stesso — vocazione e insieme ossessione di questo autore — ed è il confronto fra l'Oriente (tradizione) e l'Occidente (modernità), confronto che di volta in volta, romanzo dopo romanzo, assume connotati diversi: l'invidia, la minaccia, il sogno, la provocazione, la liberazione.
Tale molteplicità di prospettive è accentuata in questo che è un romanzo corale, in cui ogni personaggio rivela un modo differente di porsi di fronte a un conflitto che mette in crisi non solo la Turchia in quanto Paese, ma l'uomo turco come singolo individuo. La massima espressione di questa crisi è rappresentata da Selahattin, quello che secondo me è il vero protagonista di questo libro, l'unico (a parte Nilgun) a non parlare direttamente con la propria voce, ma attraverso i ricordi — intrisi di rancore — della moglie (ora vedova) Fatma. I vari riassunti che pubblicizzano il romanzo lo identificano come un medico “fallito e alcolista”, il che è assolutamente vero da un certo punto di vista, ma non rende giustizia a questo personaggio che è l'idealista per eccellenza, colui che brama, per se stesso e per il suo Paese, la liberazione dalla “schiavitù” dell'oscurantismo della tradizione, colui che guarda all'Occidente come a una promessa di salvezza, colui che si identificherà a tal punto col proprio sogno di riscatto, da non poter accettare il frantumarsi di questo sogno... e si frantumerà con esso. Non sono mai stata una “positivista” e in quanto credente non posso accettare l'equivalenza “fede=superstizione”, eppure non ho potuto fare a meno di provare un brivido ogni volta che leggevo, per bocca dell'astiosa Fatma, gli appassionati richiami di Selahattin ad aprire gli occhi, illuminare la mente, spalancare le porte alla modernità del pensiero.
D'altra parte Fatma stessa è un personaggio affascinante, prigioniera com'è della propria ottusità, vittima allo stesso tempo della sua epoca e delle idee “folli” di suo marito, incapace di comunicare con chiunque altro se non se stessa, il proprio passato, i propri ricordi. Ma, paradossalmente, questo richiudersi su se stessa si rivela l'unico modo per sopravvivere (e infatti, nonostante le continue lamentele, Fatma dà l'impressione di essere la più “sana” di tutti... ).
Metin e Hasan sono altri due personaggi interessanti, per certi versi speculari. Entrambi soffrono il "gap" sociale ed economico che li separa dai loro coetanei e dalla ragazza dei quali si credono innamorati, solo che in Hasan questo senso di inferiorità è più accentuato, in quanto la sua posizione sociale è inferiore a quella dello stesso Metin e dei suoi fratelli (con cui fra l'altro è imparentato) e porterà a conseguenze piuttosto estreme. L'ideologia politica di Hasan, militante nell'estrema destra, rappresenta il suo tentativo di rivalsa in un contesto sociale dal quale si sente respinto, umiliato; non importa se il prezzo di questo riscatto sia la forza, la violenza: peggio per chi non ha capito in tempo con chi aveva a che fare. Non è la prima volta che, in letteratura, mi trovo davanti a personaggi del genere, giovani frustrati che, mentre incassano delusioni, tessono sogni di gloria e di violenza, “protetti” dalle loro ideologie fasciste (penso in modo particolare al protagonista del bellissimo romanzo di Oe, Il figlio dell'imperatore).
Metin, al contrario, è un giovane serio, con la testa sulle spalle, ma ugualmente stanco di ciò che lo circonda; il suo sogno è trasferirsi in America e lì realizzarsi come uomo di successo. Ma, in attesa che il suo sogno si realizzi, si trascina ozioso assecondando i capricci dei suoi amici più altolocati e viziati: i racconti di queste serate in comitiva, condite da un continuo “cosa facciamo?”, “dove andiamo?”, “che noia!”, sono sintomatici di un malessere tutto moderno che colpisce soprattutto i giovani.
A Faruk, fratello di Metin, è affidato il tema del significato della Storia e delle storie. Lui, professore di storia appunto, giunge a una sorta di “illuminazione” quando si rende conto che in realtà la “Storia” non esiste, ma allo stesso tempo la forma mentis dell'uomo è incapace per sua natura di recepire il trascorrere degli eventi quale esso realmente è: un susseguirsi di singoli episodi senza alcun nesso fra di loro. Devo dire che i alcuni brani dei suoi monologhi li ho trovati molto affascinanti, benché non sempre di facile comprensione.
Ci sono altri protagonisti in questo romanzo, che come dicevo è corale. Eppure, nonostante la continua alternanza di voci, ciò che si percepisce è un profondo senso di incomunicabilità (da qui il titolo). Il contrasto è netto e voluto, come dire che non basta essere in tanti perché ci sia un vero contatto umano.
In questo momento, a commento finito, mi rendo conto che se è vero che il tema Oriente/Occidente, onnipresente nella produzione di Pamuk, sia radicato anche qui, è anche vero che forse – rispetto ad altri libri che ho letto – qui è affiancato da tematiche più squisitamente familiari e sociali, in modo particolare quello dell'insoddisfazione e della conseguente voglia di “riscatto”, costi quel che costi.
Dal punto di vista narrativo, nonostante la pluralità di voci non c'è un forte dinamismo (sempre a confronto con altre opere dello stesso autore), ma questo non toglie nulla alla qualità di un romanzo che comunque merita di essere letto (come tutti gli altri).
 
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Minerva6

Monkey *MOD*
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All'inizio ho avuto difficoltà a capire chi fosse il protagonista dei vari capitoli visto che non è così immediato. Poi ho raggiunto un compromesso di gioco con me stessa: mi sarei divertita ad indovinare dalle prime righe. E man mano che proseguivo ne indovinavo sempre di più.
È il secondo romanzo che leggo di questo autore e sicuramente proseguirò, mi piace il suo stile denso e coinvolgente che ci fa conoscere la Turchia con le sue tradizioni ma anche con il suo desiderio di emancipazione attraverso i diversi personaggi presenti nella storia.

Cosa vedete, dunque, nei vostri pensieri? Il dolore, la tristezza, la curiosità, l'attesa, ecco tutto ciò che resta alla fine, e se non c'è più posto per nient'altro, la vostra ragione si logora come una macina di mulino che macini se stessa... E allora vi considerano pazzi.
 
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estersable88

dreamer member
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Orhan Pamuk è un autore complesso, sfaccettato, che ama dire le cose a modo suo, con i suoi tempi, con i suoi non detti, senza preoccuparsi troppo di ciò che potrebbe piacere o non piacere al lettore. I suoi libri, perciò, sono tutti diversi fra loro e non tutti incontrano il mio personale gusto… ma c'è una cosa che li accomuna tutti: la Turchia, patria amata e dannata dell'autore che non perde occasione per raccontarla, analizzare come l'evoluzione storica riverbera sulla società, interpretarne i mutamenti culturali, sociali, finanche spirituali. In La casa del silenzio, romanzo del 2007, un Pamuk fresco di Nobel racconta le tante facce del suo Paese attraverso un romanzo corale, una saga familiare che in sé racchiude le anime di Fatma, una novantenne altezzosa che vive di ricordi e rancori mai sopiti, e dei suoi tre nipoti, Faruk, Metin e Nilgun, a loro modo tutti diversi ma fra loro isolati e slegati. A congiungere questa famiglia con il resto del mondo circostante c'è Recep, il cameriere di Fatma, il nano figliastro di suo marito Selahattin. Ciascuno, con la propria voce e il proprio sentire, racconta ciò che non va nella sua vita e – di riflesso – nella Turchia, dimenticando di considerare i problemi o i bisogni degli altri, come se ciascuno sprofondasse nella propria insoddisfazione. È naturale che, alla lunga, mondi così distanti eppure così prossimi finiscano per cozzare l'uno contro l'altro creando un cortocircuito.
La casa del silenzio non è un libro facile – nessuno dei libri di Pamuk lo è – e l'estrema introspezione e malinconia dei personaggi potrebbe scoraggiare; tuttavia a me non è dispiaciuto leggerlo perché a suo modo è uno spaccato di vita e di storia di un Paese affascinante, controverso ed ingannevole come la Turchia. Lo consiglio, anche se tra quelli che ho letto non è il miglior libro di Pamuk.
 
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