Mann, Thomas - Le storie di Giacobbe

ayuthaya

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Devo essere sincera: ho deciso di leggere questo romanzo, o per meglio dire la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di cui Le storie di Giacobbe costituisce il primo libro, perché ho un debole per i riferimenti biblici. Banalmente potrei dire che è la mia fede che mi spinge verso una scelta di questo tipo, e in parte è vero; c’è da aggiungere che, conoscendo piuttosto bene gran parte dell’Antico Testamento, mi piace scoprire in che modo e con quali risultati uno scrittore (e non uno qualsiasi, parliamo pur sempre di Thomas Mann) si sia confrontato con una materia tanto ardita.
Ardita innanzitutto perché narrativamente non c’è nulla da inventare: tutto è già scritto e noto, se non a tutti, a molti. Ma non solo: ridare vita, spessore e magari sfumature e significati nuovi a qualcosa che almeno tradizionalmente (quindi al di là del fatto che uno creda o meno) è “Sacra Scrittura”, quindi “parola di Dio”, è un atto coraggioso che merita attenzione.
Be’... per quanto fossero alte, la realtà ha superato le mie aspettative: il solo prologo (corposo e complesso: quaranta pagine dense di riferimenti storici, filosofici e religiosi) vale la lettura dell’intero libro.

La vicenda è risaputa da chiunque abbia fatto un po’ di catechismo. In questo primo capitolo della saga, la storia di Giacobbe: l’inganno ordito con l’iniziativa e la complicità di sua madre Rebecca ai danni del fratello primogenito Esaù, per ricevere al suo posto la benedizione del padre Isacco; la fuga e poi la lunga permanenza nella casa di Labano, fratello di sua madre, a cui presterà i suoi servizi e i “frutti” della sua benedizione per ben sette anni, in cambio della mano di sua figlia Rachele; l’inganno di Labano stesso nei confronti di Giacobbe, quando nel talamo nuziale gli presenterà la sua primogenita Lia, e solo in cambio di altri sette anni la tanto amata Rachele; infine, la nascita, uno dopo l’altro, dei numerosi figli che diventeranno i capostipiti delle famose “dodici tribù di Israele”, fra cui appunto il beniamino Giuseppe, protagonista della tetralogia.

Cos’altro aggiungere a un racconto così dettagliato, se non la ricchezza delle descrizioni e dei particolari, la complessità dei contesti storici e geografici, la vividezza di una storia millenaria ridivenuta materia viva sotto i nostri occhi? Grandezza della penna di Mann, molto ma molto di più. Soprattutto a livello di profondità e complessità di significati, di instancabile ricerca dell’insondabile – il “pozzo del passato”, da cui tutti deriviamo e a cui tutti dovremmo rivolgere lo sguardo per capire meglio noi stessi –. Frasi fatte quest’ultime, troppe volte ripetute, ma i nostri padri nella fede e nella Storia questo lo sapevano meglio di noi e lo mettevano in atto giorno dopo giorno.
Sì, è indubbiamente questo ciò che mi ha colpito di più, l’aspetto che ho trovato più interessante e degno di nota: la prospettiva storica offerta da Mann.

Facciamo un piccolo ripasso biblico-genealogico: Abramo, padre della fede per tutti gli ebrei e i cristiani, genera Isacco, Isacco genera Giacobbe, Giacobbe genera Giuseppe. Tre generazioni in tutto. Nel romanzo, invece, Giuseppe è sì un discendente di Abramo, ma numerose generazioni lo separano da quel mitico personaggio, punto di riferimento lontano nel tempo ma talmente vicino nella spiritualità da far sì che Giuseppe (ma questa libertà di atteggiamento era comune a tutti) possa prenderlo per il proprio bisnonno senza che questo comporti alcun problema di identità.

Forse l’io umano è solidamente in sè chiuso, ermeticamente isolato nei suoi limiti temporali e corporei? Molti elementi che lo costituiscono non appartengono al mondo prima e fuori di lui e l’affermazione che ciascuno è solo se stesso non è forse un’ipotesi fatta per comodità e per ordine ma deliberatamente ignara di tutti i punti intermedi che congiungono la coscienza del singolo con la coscienza universale? Il concetto di individualità rientra infine nella stessa sfera di concetti di unità, totalità e generalità.

Persino le inclinazioni, i gesti di ogni personaggio “rispettano” qualcosa di già dato: non il comando di un Dio, come si potrebbe pensare, o la legge temporale per la quale noi sappiamo a priori come andrà a finire, bensì una “formazione mitica e obbedienza allo schema”, che è molto diversa dalla cieca sottomissione. Giacobbe stesso, predestinato a una benedizione che pure ha ottenuto con l’inganno, si impegnerà a fondo per meritarla, per rispetto nei confronti di Dio che gliel’ha concessa.

Lo stesso rapporto fra “singolo” e “modello” vale per i grandi eventi che noi oggi consideriamo mitici e che, nella prospettiva di Mann, erano tali – se non proprio puramente simbolici, almeno “eterni”, questo sì –anche nell’antichità, in una sorta di fusione fra presente e passato, storia e mito, realtà e possibilità. Un esempio fra tutti: innumerevoli furono le alluvioni verificatesi nell’area mesopotamica e in ognuna di esse era plausibile e “corretto” leggervi il diluvio universale.

L’esperienza non consistette tanto nel veder ripetersi qualcosa nel passato, quanto nel fatto che quel passato diveniva vivo e presente. Ma poteva divenir presente perché le circostanze che l’avevano generato erano ogni momento presenti. (...) Il mistero non conosce tempo, ma la forma di ciò che non ha tempo è l’eterno, il presente nello spazio e nel tempo. (...) L’interessante per noi non è il calcolo ma il suo annullarsi , il misterioso scambio di tradizione e profezia quando all’espressione “una volta” si dà il suo doppio significato di passato e di futuro e, con ciò, anche la sua carica di presente potenziale. (...) I tempi in cui si potè discutere se l’ostia fosse “realmente” o solo “simbolicamente” il corpo della vittima, dovevano venire solo tremila anni più tardi. Ma simili oziosissime discussioni non hanno potuto mutar nulla al fatto che l’essenza del mistero è resta il presente senza tempo.

Ma se non è la collocabilità storica di un evento a conferirgli il suo valore di riferimento spirituale, lo stesso vale per l’originalità dei riferimenti religiosi, dai quali a volte pretendiamo di far dipendere la “qualità” della nostra fede. Dico questo perché proprio mentre leggevo questo libro, ho avuto occasione di confrontarmi con una persona a me molto vicina, la quale mi ha detto di non credere più (anche) per aver scoperto che tanti riferimenti cristiano-cattolici derivano da tradizioni e credenze legate all’epoca storica e spesso di origine “pagana”.
Be’, anche in questo caso Mann lavora come un fine cesellatore, mostrandoci il Dio dell’Antico Testamento, “il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, il cui “concetto” viene “elaborato” – sono questi i termini esatti – a partire da un substrato storico-geografico molto complesso, nel quale ogni tribù aveva i propri idoli e i propri culti, e fra le quali potevano instaurarsi simpatie o affinità. In questo contesto tutt’altro che limpido, complice l’inquietudine spirituale di Abramo, nasce il Dio che i fedeli oggi riconoscono come l’unico e l’univoco.
E insieme si formano i “bei colloqui”, canti parlati a due voci in cui ognuno espone e conferma cose già note perché siano edificanti per entrambi, depurati di ogni contraddizione; quelli che, tramandati in questo modo di generazione in generazione, diventeranno le “storie della Bibbia” così come le conosciamo noi oggi.
Prova, se mai ce ne fossi bisogno, che la realtà è sempre più complessa di come ci viene raccontata e che riconoscerla come tale, magari per merito di un grande scrittore qual è stato Mann, non inficia il suo valore e la sua bellezza, ma anzi la esalta.

Inutile aggiungere che questi sono solo alcuni degli aspetti che mi hanno colpito e che il romanzo è pieno di simili spunti filosofici e religiosi – eccezionale il capitoletto del prologo dedicato al rapporto fra le tre distinte entità de corpo, dell’anima e dello spirito, così come più avanti il passaggio sulla “gelosia” di Dio –, per cui non resta che superare il possibile tentennamento iniziale e tuffarsi in questa avventura di origine millenaria.
 
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