Aleksievic, Svetlana - Preghiera per Černobyl

Spilla

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Svetlana Aleksievic è il Premio Nobel per la Letteratura del 2015.
Giornalista, reporter e saggista, perseguitata dal regime sovietico perché considerata nemica della causa sovietica, la Aleksievic utilizza una scrittura di tipo corale, accostando le testimonianze, le voci dei protagonisti dei drammi che l'URSS ha vissuto nell'ultimo ventennio della sua esistenza.
Questo libro raccoglie le voce dei "černobyliani", i sopravvissuti, i testimoni, le vittime di una tragedia che ancora si fatica a a capire, ma che ha segnato un punto di non ritorno nella Storia.

La scrittura, che non ho amato subito (e forse mai fino in fondo), non ha nulla di letterario o di ricercato. Sembra quasi che l'autrice non ci sia, che si sostituisca ad un semplice registratore. Poi, piano piano, le righe entrano dentro, creano una risonanza interiore, un'identificazione. Chi c'era, chi ha subito, racconta e analizza pur continuando a non capire. Contadini ed esperti di fisica nucleare, medici e soldati semplici, madri distrutte e fotografi, tutti sono accomunati dalla stessa incredulità, dalla stessa ottusa, nebulosa consapevolezza che nulla dopo Černobyl sarà più lo stesso.
E' straziante.
Ed incredibile è lo stridente contrasto tra la oscura, incombente minaccia di morte con cui la popolazione deve convivere e la bellezza, la generosità e il rigoglio della natura in cui è immersa.

Da leggere.
 

elisa

Motherator
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E' un romanzo inchiesta corale che lascia parlare i protagonisti in tanti monologhi diretti dall'autrice ed è proprio questo stile che lascia angosciati perché tutto è testimonianza e nulla è lasciato alla fantasia. Da questo libro esce un popolo, un pensiero, una filosofia oltre che una tragedia, una guerra silenziosa fatta di atomi e di elementi chimici. Notevole per impatto e per coraggio di denunciare qualcosa che era stato messo a tacere e minimizzato sin dal primo momento.
 

ayuthaya

Moderator
Membro dello Staff
Questo libro è difficile, anzi impossibile da commentare. Non si può “commentare” un fatto, tanto meno un fatto come Cernobyl. E non si può commentare un’opera fatta esclusivamente di testimonianze, in cui a parlare sono personaggi diversissimi fra loro, ognuno con un proprio ruolo: parenti di uomini e donne che a Cernobyl hanno perso la vita, altri che sono sopravvissuti ma sono rimasti segnati per sempre dalla malattia fisica o psicologica, poveri contadini costretti ad evacuare dalle proprie case, molti dei quali sono poi tornati come “residenti non autorizzati”... e ancora medici scienziati, storici, giornalisti, fotografi.
Ognuno di loro ha la propria storia da raccontare, pensieri ed emozioni a cui dare faticosamente la voce, senza che l’autrice (giornalista e non “scrittrice”) li “guidi” o, in un secondo momento, “tiri le fila” di ciò che è stato raccontato per dare la propria versione dei fatti, la propria interpretazione. Il risultato è qualcosa di molto frammentario, ma è un effetto voluto. Anzi, non è un effetto: Svetlana Aleksievic sceglie di “spersonalizzare” la propria opera, a costo di renderla poco organica, poco conclusiva. Se un filo conduttore esiste, paradossalmente è questo: la presa di coscienza che Cernobyl non ha una spiegazione, non ha una conclusione.

Cernobyl è qualcosa di cui “non conosciamo la formula. Non ci sono idee. I curie, i rem e i sievert non possono sostituire la comprensione di ciò che è successo. Non sono una filosofia. Nè una concezione del mondo”. “Non sappiamo che senso trarre da tutto questo orrore. Non ne siamo capaci. Perchè non è commisurabile nè alla nostra esperienza di uomini nè al nostro tempo umano.
Queste parole sono tratte dalle testimonianze citate nel libro. Ma su questo concetto insiste la stessa Svetlana nell’unico capitolo scritto di suo pugno: “Ogni cosa viene denominata per la prima volta, e il suo nome pronunciato a voce alta. È accaduto qualcosa per cui non abbiamo ancora nè un sistema di rappresentazione, nè analogie, nè esperienza, al quale non è adeguata nè la nostra vista, nè il nostro orecchio ed è perfino inadatto il nostro vocabolario. (...) Cernobyl è un enigma che dobbiamo ancora decifrare.

Uno degli aspetti che mi ha più colpito è stato il paragone fra Cernobyl e la guerra: quest'ultima, per quanto mostruosa, è qualcosa di conosciuto. Alcuni dei testimoni narrano ricordi atroci legati alla guerra, ma questa esperienza, per quanto atroce, li aveva “preparati” ad altri eventuali conflitti: la guerra produce esplosioni, le esplosioni sangue, il sangue feriti e morti. La guerra è qualcosa che si può vedere, sentire, toccare con mano, e quindi “conoscere”. E se una cosa la conosco, la temo, ma anche mi preparo ad affrontarla.
Ma qual è il significato delle morti di Cernobyl? Come uccide Cernobyl? E perchè? Tanti uomini e donne, semplici contadini, ma anche gente più colta riflette che, a parte l’incendio, nulla sembra essere cambiato... la natura è rigogliosa, il latte è quello di sempre, la frutta e la verdura bella e buona come e più di prima... perchè sono costretti a buttarli? Perchè devono abbandonare tutto e scappare? Che senso ha scavare uno strato di terra per poi seppellirla sotto altra terra?
E poi c'è la questione delle responsabilità: di chi sono le colpe? e quante colpe ci sono? Vi sono state colpe prima, durante e tante, troppe, anche dopo l'accaduto. Probabilmente non si riuscirà mai nemmeno a elencarle, tutte queste colpe.

Vi è infine la questione, che ha mi ha fatto riflettere parecchio, del nome. Cosa vuol dire, esattamente, Cernobyl? Perchè, per riferirci a ciò che è accaduto in Unione Sovietica la mattina del 26 aprile 1986, non parliamo di “incidente alla centrale nucleare” ma semplicemente “Cernobyl”, come se questo solo nome potesse racchiudere tutto l’orrore? Io penso che la risposta sia proprio nell'impossibilità di comprendere questa tragedia, che non ha volto e non ha nome, se non quello della cittadina bielorussa, prima sconosciuta, in cui questa tragedia è avvenuta. Oltre non è possibile andare.

Un libro che vale la pena leggere, proprio per cercare di decifrare questo enigma, o almeno di farcene carico col peso della consapevolezza, che non sarà minimamente paragonabile al peso di chi questa tragedia l’ha vissuta, ma è un dovere morale per tutti.
 
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