Plath, Sylvia - Diari

Jessamine

Well-known member
[IIl giornale di bordo di una sensibilità acutissima, lacerata e drammatica: quella di una scrittrice che, per i suoi versi e il suo tragico destino, è presto diventata, nei nostri anni, un magnete e un emblema – ovvero anche, come si dice con inconsapevole esattezza, un «culto».][/I]

COMMENTO
Sylvia Plath è una di quelle autrici - l'unica, dovrei forse dire, o per lo meno è stata la prima - che annientano la mia razionalità.
Quando ho letto per la prima volta “La campana di vetro” mi sono totalmente arresa alla sua scrittura, ho lasciato che tutto quel groviglio di dolore e paure e accuse e decine di altre emozioni che non ho voluto razionalizzare mi travolgesse, ed è stata un'esperienza radicalmente diversa dalla semplice fruizione di un romanzo. E' stata un'esperienza del tutto intima, un viaggio del tutto personale all'interno dei miei confini, una strumentalizzazione dell'opera di qualcun altro per arrivare a parlare solo di me stessa. Un gesto egoistico, forse, ma l'intera produzione di Sylvia Plath è qualcosa di estremamente egoistico, in un certo senso: in ogni sua parola c'è Sylvia, solo Sylvia. Ed è forse banale, perché nella produzione di qualsiasi scrittore c'è lo scrittore stesso, ma Sylvia Plath è la sua scrittura, lo è sempre stata, lo è in una maniera così totalizzante e ampia che c'è quasi da sentirsi degli intrusi indugiando sulle sue righe. Mi viene da pensare che Sylvia sia stata così tanto la sua scrittura, la sua tensione, il suo struggente bisogno di scrivere ed essere accettata come scrittrice da aver perso di vista i contorni della donna Sylvia, di averli persi molto prima di quell'11 febbraio 1963.
Ho impiegato quasi due mesi per terminare questi diari. Due mesi per entrare nella testa di una donna e vivere 12 anni della sua vita sono forse pochi, ma sono sicuramente molti se paragonati al mio normale ritmo di lettura. Ma, come ho detto, Sylvia Plath annienta la mia razionalità, l'ha fatto con “La campana di vetro”, lo ha fatto con le sue poesie, e ancora di più lo fa con i suoi diari, che certo non possono e non devono essere considerati come una qualsiasi opera letteraria. Più volte sono stata sul punto di arrendermi, come durante la lettura de “La campana di vetro”, per lasciare che la scrittura mi travolgesse e trascinandomi con la sua forza seducente e magnetica, ma mi sono trattenuta. Con un enorme sforzo, ma mi sono trattenuta. Perché qui, diversamente dal romanzo o dalle poesie, c'è Sylvia al naturale, Sylvia senza maschere, Sylvia che soffre un dolore così grande e insondabile da risultare spaventoso. Sylvia è la sua scrittura, ma i suoi diari sono una finestra cui forse non ci si dovrebbe affacciare. Più volte, durante la lettura, mi sono chiesta se davvero è corretto permettere a chiunque di abbattere anche l'unico velo di riservatezza e rispetto che resta ad una persona.Sylvia s'è consegnata al mondo con le sue poesie, i suoi racconti e il suo romanzo, si è consegnata in una maniera così aperta e totale. La cronaca ci ha consegnato una donna di trent'anni che dopo aver preparato la merenda ai figli, una mattina di febbraio, ha infilato la testa nel forno della cucina. Davvero era necessario mettere sotto gli occhi di tutti - accanto alle bellissime riflessioni sulla sua scrittura, che certo sono utili e forse necessarie per comprendere al meglio l'opera di questa grandissima poetessa - anche i momenti smaccatamente privati, quelli che, ed è facile riconoscerli, leggendo, chiaramente Sylvia non avrebbe mai avuto l'intenzione di svelare? Non lo so. Ted Hughes nella prefazione, scrive: “C'erano altri due taccuini, due registri foderati di carta marrone come il volume relativo al 1957-1959, con annotazioni dalla fine del 1959 a non oltre tre giorni prima della morte. Il secondo dei due conteneva gli appunti di molti mesi e io l'ho distrutto perché non volevo che i suoi figli lo leggessero (in quei giorni l'oblio mi sembrava essenziale per la sopravvivenza). L'altro è scomparso”. Ecco, forse anche noi non dovremmo mai aver letto quello che per Sylvia era solo uno sfogo, un tentativo di sopravvivere al suo immenso dolore. Ad un certo punto, lei annota che si ritrova a scrivere sul suo diario solo quando è di cattivo umore (e il cattivo umore di una persona clinicamente depressa non è certo il cattivo umore di una persona che ha avuto una giornata storta), quando è felice vive, scrive, ama suo marito e non pensa al diario. Davvero è giusto prendere tutto il dolore di una persona e gettarlo sotto gli occhi di tutti? Poco importa che questi occhi possano essere occhi compassionevoli, occhi che in qualche modo, anche a distanza di anni dalla sua morte, hanno amato Sylvia, e si trovano ad annegare nel suo stesso dolore solo per provare a comprenderla meglio, ad esserle un po' più vicine, ad essere un passo più vicino a quell'immenso “io” che ha scritto poesie così belle.
Non lo so. Non sono sicura della risposta a domande del genere, o forse sì, ma il punto è che mi sono trattenuta, ho costruito argini al dolore immenso e così reale e tangibile di Sylvia, ho impiegato circa due mesi per leggere poco più di 400 pagine, ma sono arrivata in fondo a questo “giornale di bordo”.
E il dolore, il dolore di Sylvia, è impossibile razionalizzarlo.
Chiedo scusa, so che non è questa la recensione che uno si aspetterebbe di leggere, so che ho parlato forse troppo di me, e che forse certe cose avrei dovuto semplicemente tacerle, ma se provo a pensare a qualcosa da dire su queste pagine, questo è il meglio che trovo.
 

Ondine

Logopedista nei sogni
Magnetico, l'ho finito in pochissimo tempo.
Mi sono ritrovata in tanti pensieri e sensazioni.
Claustrofobico ma liberatorio.
 
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