Oe, Kenzaburo - Il figlio dell'Imperatore

ayuthaya

Moderator
Membro dello Staff
Il libro pubblicato nell'edizione italiana con il titolo Il figlio dell'Imperatore restituisce al racconto Seventeen il suo naturale seguito, Morte di un giovane militante: quest'ultimo scritto infatti, dopo una prima pubblicazione sulla rivista "Bungakukai", non ha mai più trovato un editore né in patria né all'estero. Il motivo della censura sta nelle pesanti minacce rivolte al tempo da gruppi di estrema destra all'editore della rivista e all'autore stesso.
Il romanzo, qui presentato per la prima volta nella sua forma completa, tocca infatti uno dei nodi della cultura del Giappone moderno: il culto dell'Imperatore.
È un libro fortemente politico e polemico, nel descrivere attraverso la voce narrante di un diciassettenne instabile e onanista un percorso umano destinato a sfociare in un omicidio politico. Sullo sfondo le vicende storiche che turbarono il Giappone dal 1957 al 1960: gli scontri culminati nell'assassinio del segretario del partito socialista per mano di un giovane militante di destra.
Oe conduce la narrazione sul filo di un sarcasmo tagliente verso la retorica reazionaria che fa della figura dell'Imperatore il proprio mito, la propria giustificazione ideologica. Il discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel getta luce sulla passione politico-letteraria dell'autore, sulla visione morale che segna tutta la sua opera e la sua vita.


Dopo aver lasciato ad altri il compito di inquadrare quest’opera nel suo contesto e di descriverne brevemente il contenuto, per le mie personali considerazioni partirò dalla fine e cioè dal discorso pronunciato da Oe a Stoccolma, in occasione appunto del conferimento del Nobel, e pubblicato in coda al romanzo stesso.
Una felice coincidenza ha fatto sì che per parlare di se stesso e della propria vocazione letteraria, Kenzaburo Oe sia partito dall’altro grande scrittore giapponese che ho avuto modo di conoscere e amare, e che è stato anche il primo giapponese a ricevere il celebre premio: Yasunari Kawabata. Il discorso di quest’ultimo si intitolava (benchè le possibili traduzioni siano molteplici) Io e il mio bel Giappone. Senza scendere in troppi dettagli, quello che posso dire è in effetti, per come l’ho conosciuto io, Kawabata è bellezza. É la bellezza, la purezza e – dice Oe – la “vaghezza” del proprio Paese. Chiunque l’ha letto non farà fatica a comprendere di cosa parlo.
A differenza del suo predecessore, Oe invece intitola il suo discorso Io e il mio ambiguo Giappone, e in questa semplice e potentissima formula racchiude tutta la propria eredità e diversità rispetto al connazionale. Effettivamente, fin dalle prime pagine de Il figlio dell’imperatore, ho percepito la distanza e allo stesso tempo la complementarietà di questi due scrittori nel raccontare il proprio Paese: da una parte la bellezza, dall’altro l’ambiguità. Da una parte la nostalgia per un mondo che sta scomparendo (per quanto Kawabata sia “classico”, ha pur sempre vissuto i grandi rivolgimenti del Giappone moderno), ma che è ancora capace di trasmettere armonia, levità; dall’altra la violenza della contraddizione, lo sforzo di ricostruire un'identità culturale di stampo umanista sulle ceneri degli orrori non solo della guerra, ma anche della schizofrenia post-moderna, freneticamente tesa all’imitazione del modello occidentale. Da una parte una scrittura potente, ma sussurrata, dall’altra uno stile esplicito, aggressivo, che nel sarcasmo e nell’eccesso cerca di mettere a nudo le debolezze del Giappone a lui contemporaneo.
In questo senso la vocazione etica di Oe, l’adesione totale al principio di non-belligeranza (su cui si fonda uno degli articoli della Costituzione moderna del Giappone) e soprattutto la convinzione che la letteratura abbia il dovere di educare le nuove generazioni, sono evidenti. Se Kawabata era soprattutto un “esteta”, Oe – da quello che ho potuto intuire – è un “militante”, ma, a differenza del protagonista del suo romanzo, un “militante” della pace, da costruire proprio ponendo il dito contro le guerre che ci hanno coinvolto. Kawabata e Oe, a mio avviso, rappresentano nella letteratura le due facce della stessa medaglia.

Questa sorta di premessa è in realtà un tutt’uno con le mie considerazioni sul romanzo appena letto, perchè è vero che fin dalle primissime pagine mi sono sentita sconcertata, quasi a disagio. Possibile che la letteratura giapponese possa essere così cruda, spietata, a tratti persino volgare? Il “figlio dell’Imperatore” è un seventeen frustrato, debole e complessato che si avvicina alle frange dell’estrema destra (il kodoha, partito della via imperiale) in modo da mascherare la propria frustrazione con l’odio, la violenza, il fanatismo. “Ora invece di vedermi dentro, vedono la divisa di destra e chissà perchè sono più rispettosi.
Il culto verso l’Imperatore, simbolo del Giappone antico, nazionalista e invasore, è l’occasione per dimenticare se stesso (“nella Lealtà non deve esserci egoismo”), per annullare la propria coscienza nell’odio puro. Persino nei momenti di crisi – e sono le pagine più belle, quelle in cui Oe, nonostante il suo intento di denuncia, mette a nudo l’umanità e la fragilità di questo giovane: “ho gettato via me stesso ma mi è tornato indietro” – in cui la paura torna ad attanagliarlo e “il tempio della destra che pregasse per lui” e “la fortezza della destra che lo proteggesse” iniziano a vacillare, persino in quei momenti, nella rivelazione dell’immagine dell’Imperatore che lo istiga al disprezzo, alla guerra, al delitto, egli riacquista la padronanza di sè e va avanti.

Benchè sia ancorato a un contesto storico-politico ben preciso, mentre leggevo queste pagine ho percepito una fortissima componente universale... Forse perchè i “fascismi”, nella loro sostanza di anti-umanesimo, sono tutti uguali a prescindere dalla bandiera alla quale si rifanno (non facevo molta fatica a sostituire all’Imperatore la figura di Hitler, o di chiunque altro, uomo o dio, nella coscienza di un individuo sia giustificazione al proprio odio per il genere umano); forse perchè, come ho scritto prima, è talmente alta la vocazione di Kenzaburo Oe a una morale che riscatti un passato di violenze con cui non si può non fare i conti, che davvero la sua voce si erge universale, a ricordare che la letteratura non deve, ma può aspirare anche a questo.

Voto il massimo non tanto per il romanzo in sè per sè (che comunque è un’opera eccellente e rivelatrice), quanto per la scoperta che ho fatto di questo autore, il cui valore è stato riconosciuto in tutto il mondo, ma che ho visto essere poco letto e tradotto, mentre ritengo sia tutto da scoprire.
 
Ultima modifica:
Alto