Il crollo (Things Fall Apart, 1958) è un romanzo dello scrittore nigeriano Chinua Achebe. Viene generalmente considerato il più importante romanzo della letteratura africana. Tradotto in oltre 50 lingue, con più di 10 milioni di copie vendute in tutto il mondo, Il crollo rappresenta un fenomeno unico di successo internazionale di un'opera letteraria africana. È adottato come libro di testo in moltissime scuole africane.
L'azione si svolge nell'est della Nigeria attuale, nel periodo in cui arrivarono i primi uomini bianchi, soldati e missionari. Il protagonista è un influente guerriero, incarnazione dei valori tradizionali, roccioso e inflessibile, che sarà trascinato da un'incalzante ondata di fatalità a una fine ignominiosa. Achebe racconta in questo romanzo l'annientamento dell'uomo e della società africana sotto i colpi della forza militare e dell'assalto culturale occidentale.
Non mi meraviglia che questo romanzo sia diventato così famoso in tutto il mondo. In meno di duecento pagine il nigeriano Chinua Achebe compie un’impresa non da poco: avvicinarci a un mondo e a una cultura a noi completamente estranei attraverso un personaggio forte, che incarna non tutti, ma molti dei valori tradizionali di questa cultura, per poi mostrarci il crollo dell’una e dell’altro, in concomitanza con l’arrivo dell’"uomo bianco".
Il romanzo è suddiviso in tre parti ben distinte: la premessa, l’esilio (di cui non dirò le ragioni) – in cui le certezze e i fondamenti, personali e comunitari, cominciano a vacillare – e infine il ritorno, che corrisponde alla resa dei conti. La prima parte è di grandissimo interesse, perchè ci presenta usi, tradizioni e credenze degli ibo in modo non didascalico, ma attraverso stralci di vita qutidiana, raccontati di volta in volta in modo obiettivo, senza alcuna mediazione personale, o attraverso lo sguardo del protagonista Okonkwo, deformati dalle sue paure e ambizioni. Il risultato è un susseguirsi di scene di grande impatto e immediatezza: abbiamo l’impressione di essere davvero lì e di condividere, magari senza comprenderle fino in fondo, le dure leggi della comunità. Ogni membro del clan conosce il suo ruolo, i suoi diritti e i suoi doveri, e se deve essere punito lo accetta senza esitazione perchè la colpa di cui si è macchiato lo ha messo in relazione diretta con la divinità (anzi, con una delle tante divinità alle quali rendere conto) e, se non la estinguesse, ricadrebbe su tutti come una profanazione. Nessuno osa ribellarsi a questo sistema perchè la dimensione comunitaria è molto forte e prevale sugli egoismi personali.
Benchè, come dicevo, l’approccio non sia affatto didascalico, si intuisce che l’autore ha scritto questo libro soprattutto per noi: il suo intento di rivolgersi, oggi, agli stessi “uomini bianchi” che all’epoca si sono comportati da “invasori” è evidente, come altrettanto evidente è l’intento di denuncia nei confronti di ciò che è accaduto in Nigeria quasi un secolo fa. È anche vero, però, che nessun giudizio morale traspare dal suo modo di scrivere, né nei confronti dei nativi, né dei missionari/conquistatori che dir si voglia. Se un giudizio c’è – a volte duro, pesante, anche nei confronti della sua gente –, questo è espresso dallo stesso Okonkwo, talmente orgoglioso e ambizioso da risultare spesso incomprensibilmente testardo e crudele. É come se egli agisse non tanto per difendere la sua terra e il suo clan, ma solo se stesso, il proprio prestigio. Per questo motivo la “condanna” definitiva, ammesso che ci sia, non è così scontata.
La cultura degli ibo e quella dell’uomo bianco sembrano essere destinate inevitabilmente allo scontro, anche aldilà delle reali intenzioni dei singoli individui: troppo profondo è il baratro che le separa per potersi anche solo comprendere. È quello che è successo anche a me, nonostante tutto, leggendo questo libro: la prima reazione, all’arrivo dei missionari, è stata di profonda indignazione; allo stesso tempo, però, il mio essere figlia della mia cultura, nella quale comunque credo (così come Okonkwo credeva nella sua), mi ha impedito di assumere una vera posizione super partes: è difficile, leggendo di pratiche ai nostri occhi crudeli e insensate (come quella di gettare i gemelli nella Foresta Malvagia solo perchè nati tali, o di mutilare i bimbi morti perchè ritenuti essere degli ogbanye, bambini malvagi che si reincarnano nel ventre della madre per poi morire di nuovo), accettarle nell’ottica di un rispetto assoluto verso una cultura diversa dalla nostra. Eppure il rispetto, quello vero, è proprio questo: rendersi conto che la diversità può essere accettata solo se ci si immerge in essa, e non limitandosi a giudicarla dall’esterno, ovvero dal proprio (superiore?) punto di vista.
“L’uomo bianco è molto astuto. É venuto adagio e in pace con la sua religione. Noi eravamo divertiti della sua follia e gli abbiamo permesso di restare. Adesso ha conquistato i nostri fratelli e il nostro clan non può più essere quello di prima. Ha messo un coltello fra le cose che ci tenevano uniti e noi siamo crollati giù.”
Un libro-testimonianza autentico e coraggioso, che vale assolutamente la pena leggere.
L'azione si svolge nell'est della Nigeria attuale, nel periodo in cui arrivarono i primi uomini bianchi, soldati e missionari. Il protagonista è un influente guerriero, incarnazione dei valori tradizionali, roccioso e inflessibile, che sarà trascinato da un'incalzante ondata di fatalità a una fine ignominiosa. Achebe racconta in questo romanzo l'annientamento dell'uomo e della società africana sotto i colpi della forza militare e dell'assalto culturale occidentale.
Non mi meraviglia che questo romanzo sia diventato così famoso in tutto il mondo. In meno di duecento pagine il nigeriano Chinua Achebe compie un’impresa non da poco: avvicinarci a un mondo e a una cultura a noi completamente estranei attraverso un personaggio forte, che incarna non tutti, ma molti dei valori tradizionali di questa cultura, per poi mostrarci il crollo dell’una e dell’altro, in concomitanza con l’arrivo dell’"uomo bianco".
Il romanzo è suddiviso in tre parti ben distinte: la premessa, l’esilio (di cui non dirò le ragioni) – in cui le certezze e i fondamenti, personali e comunitari, cominciano a vacillare – e infine il ritorno, che corrisponde alla resa dei conti. La prima parte è di grandissimo interesse, perchè ci presenta usi, tradizioni e credenze degli ibo in modo non didascalico, ma attraverso stralci di vita qutidiana, raccontati di volta in volta in modo obiettivo, senza alcuna mediazione personale, o attraverso lo sguardo del protagonista Okonkwo, deformati dalle sue paure e ambizioni. Il risultato è un susseguirsi di scene di grande impatto e immediatezza: abbiamo l’impressione di essere davvero lì e di condividere, magari senza comprenderle fino in fondo, le dure leggi della comunità. Ogni membro del clan conosce il suo ruolo, i suoi diritti e i suoi doveri, e se deve essere punito lo accetta senza esitazione perchè la colpa di cui si è macchiato lo ha messo in relazione diretta con la divinità (anzi, con una delle tante divinità alle quali rendere conto) e, se non la estinguesse, ricadrebbe su tutti come una profanazione. Nessuno osa ribellarsi a questo sistema perchè la dimensione comunitaria è molto forte e prevale sugli egoismi personali.
Benchè, come dicevo, l’approccio non sia affatto didascalico, si intuisce che l’autore ha scritto questo libro soprattutto per noi: il suo intento di rivolgersi, oggi, agli stessi “uomini bianchi” che all’epoca si sono comportati da “invasori” è evidente, come altrettanto evidente è l’intento di denuncia nei confronti di ciò che è accaduto in Nigeria quasi un secolo fa. È anche vero, però, che nessun giudizio morale traspare dal suo modo di scrivere, né nei confronti dei nativi, né dei missionari/conquistatori che dir si voglia. Se un giudizio c’è – a volte duro, pesante, anche nei confronti della sua gente –, questo è espresso dallo stesso Okonkwo, talmente orgoglioso e ambizioso da risultare spesso incomprensibilmente testardo e crudele. É come se egli agisse non tanto per difendere la sua terra e il suo clan, ma solo se stesso, il proprio prestigio. Per questo motivo la “condanna” definitiva, ammesso che ci sia, non è così scontata.
La cultura degli ibo e quella dell’uomo bianco sembrano essere destinate inevitabilmente allo scontro, anche aldilà delle reali intenzioni dei singoli individui: troppo profondo è il baratro che le separa per potersi anche solo comprendere. È quello che è successo anche a me, nonostante tutto, leggendo questo libro: la prima reazione, all’arrivo dei missionari, è stata di profonda indignazione; allo stesso tempo, però, il mio essere figlia della mia cultura, nella quale comunque credo (così come Okonkwo credeva nella sua), mi ha impedito di assumere una vera posizione super partes: è difficile, leggendo di pratiche ai nostri occhi crudeli e insensate (come quella di gettare i gemelli nella Foresta Malvagia solo perchè nati tali, o di mutilare i bimbi morti perchè ritenuti essere degli ogbanye, bambini malvagi che si reincarnano nel ventre della madre per poi morire di nuovo), accettarle nell’ottica di un rispetto assoluto verso una cultura diversa dalla nostra. Eppure il rispetto, quello vero, è proprio questo: rendersi conto che la diversità può essere accettata solo se ci si immerge in essa, e non limitandosi a giudicarla dall’esterno, ovvero dal proprio (superiore?) punto di vista.
“L’uomo bianco è molto astuto. É venuto adagio e in pace con la sua religione. Noi eravamo divertiti della sua follia e gli abbiamo permesso di restare. Adesso ha conquistato i nostri fratelli e il nostro clan non può più essere quello di prima. Ha messo un coltello fra le cose che ci tenevano uniti e noi siamo crollati giù.”
Un libro-testimonianza autentico e coraggioso, che vale assolutamente la pena leggere.
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