Yehoshua, Abraham - Il signor Mani

ayuthaya

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Dal giovane Efraim, soldato israeliano di stanza in Libano nei primi anni Ottanta, al patriarca Abraham vissuto nell'Atene di metà Ottocento, i diversi «signor Mani» sfilano nella storia e si trasmettono di padre in figlio una tragica eredità.
Può un uomo spezzare la catena che lo lega al passato e al futuro? Può annullare la propria identità? Yehoshua mette in scena cinque dialoghi in cui di volta in volta una voce diversa ci guida verso i molti misteri di un'intero popolo e di una famiglia animata dall'utopia della pace.


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Mi era bastato un solo suo romanzo, L’amante, per capire che Yehoshua ha un modo estremamente accattivante di scrivere: non è solo la storia in sé per sé, traboccante di personaggi, avvenimenti, cose dette e non dette (d’altra parte mi sembra che la densità sia una delle caratteristiche peculiari degli autori israeliani) a rapire il lettore e trascinarlo fino alla fine, con la presunta lusinga di un appagamento finale... no, è il modo in cui tutto questo viene raccontato a fare la differenza.
E ne Il signor Mani questo è ancora più vero, perché i cinque dialoghi che compongono questo romanzo sono talmente particolari nello stile (con stratagemmi, intonazioni, persino elementi apparentemente insignificanti che si ripetono identici) ma allo stesso tempo compiuti, indipendenti l’uno dall’altro, che abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a cinque straordinari racconti il cui filo conduttore è “il signor Mani”. Non i signor Mani, non la saga della famiglia Mani (benché alla fine di una saga si tratti, seppure raccontata “al rovescio”), ma proprio “il signor Mani”, quae si si trattasse di un unico, misterioso personaggio, capace di cavalcare secoli di Storia e di eventi, per comprendere la cui natura non basta conoscerne una sola forma – ad esempio quella di Gabriel Mani, il giudice che inscena il proprio suicidio senza suicidarsi mai – ma occorre viaggiare a ritroso nel tempo e incontrarne tutte le precedenti reincarnazioni, fino alla fine, fino al “primo” signor Mani (l’ultimo nel romanzo) che in un certo qual modo ci svelerà il mistero, ma su cui, a mio parere, non bisogna commettere l’errore di concentrare unicamente le proprie aspettative.

Dicevo che la scrittura di Yehoshua è accattivante. Lo è nella misura in cui sviluppa i cinque episodi utilizzando gli stessi espedienti calati ogni volta in un contesto diverso: i dialoghi sono in realtà monologhi, non perché il narratore parli da solo, ma perché la voce del suo interlocutore “non è riportata”. Questa semplice trovata mantiene desta l’ attenzione di noi lettori, a cui è dato il compito di “ricostruire” gli interventi della voce mancante, e manifesta tutta la bravura dell’autore, capace di delineare figure comunque riuscite, credibili (penso soprattutto alla nonna di Egon nel secondo dialogo, il mio preferito), senza far pronunciare loro una sola parola.
Un’altra costante di quasi tutti i dialoghi è che il narratore sia in qualche modo “scomparso” , sottratto alla propria quotidianità o comunque al corso prevedibile della sua esistenza, per un periodo di tempo più o meno lungo, e che questa “scomparsa” sia sempre connessa alla conoscenza che egli ha fatto con un “signor Mani”, il quale assume nella sua vita un’importanza tale da mettere in secondo piano le vicende personali del narratore stesso, per affermarsi quale vero e unico oggetto del racconto (spero di essere stata chiara anche per chi non ha letto il libro).
Ma non è tutto, perché sono molti altri gli elementi che si inseguono di episodio in episodio. A volte, come ho già accennato, questi sembrano del tutto insignificanti e con nessuna effettiva connessione fra loro, ma trattasi appunto di “artifici” letterari che rendono fascinosa la narrazione: la figura del cavallo, per esempio, il ricorrere degli stessi luoghi e perfino città (Creta, Salonicco, Beirut e - chiaramente - Gerusalemme, protagonista assoluta), la setta degli hassidim, e altri ancora...
E, infine, la cosa più importante: la figura del “signor Mani”, a cui sembra legato un mistero che non riusciamo a comprendere se non scavando a ritroso nel tempo, ritrovando lo stesso Mani (in questo caso intendo proprio la stessa “incarnazione”) prima adulto e poi, nel dialogo successivo, bambino; prima “padre di” e poi “figlio di”... e ricostruire così, in questo modo assurdo e incantevole, la sua intera vita. Arriviamo così al quinto dialogo, che vorrebbe rappresentare la soluzione dell’enigma, l’origine di una sorta di “maledizione” che da allora ricade di generazione in generazione... Non svelerò nulla, com'è ovvio, di quest’ultimo capitolo, se non che sbaglieremmo se ci montassimo sopra troppe attese (col rischio di restare, a mio avviso, un tantino delusi): il vero mistero da scoprire non è negli avvenimenti raccontati (unico caso) dalla voce stessa del signor Mani, in questo caso il capostipite dell'intera famiglia, ma si deposita come un manto nel corso di tutta la narrazione. La bellezza di questo romanzo è nella sua struttura, nella sua interezza, nelle figure ambigue, diverse fra loro eppure indissolubilmente unite, di tutti i Mani che ne fanno parte, e non può esaurirsi in unico fantomatico “segreto” da svelare nelle ultime pagine; è nel messaggio profondo di questo libro, nel suo anelito alla pace, alla tolleranza, proprio laddove ogni episodio ci presenta una guerra, un’intolleranza diversa.

A questo punto quello che mi manca da commentare è proprio la bellezza dei singoli episodi e di ciò che in essi viene raccontato... lascerò a voi, se ho destato la vostra curiosità, il piacere di scoprirlo. Sottolineo solo che il mio preferito è di gran lunga il secondo: a Creta, nell’utero azzurro del Mediterraneo, un soldato nazista condivide con sua nonna il suo interrogarsi sulla possibilità di un Ebreo (e, alla fine, di chiunque) di “annullare se stesso”, senza quindi bisogno che lo facciano gli altri fisicamente per lui, così come la rivelazione, che lo ha raggiunto a Cnosso, culla dell’Occidente, che il vero scopo (e unica possibile “scappatoia” nel giorno del giudizio) delle follie naziste sia quello di tornare alla purezza di quest’antica civiltà primigenia e felice, che non conosceva colpa né paura... La vocazione pacifista mescolata all’ideologia nazista, di cui questo giovane appassionato di lettere classiche non riesce a liberarsi, è insieme aberrante e seducente, ed è forse l’unico caso in cui la personalità del narratore, plasmata dall’incontro con il signor Mani di turno, “prevale” su quest’ultimo, raggiungendo livelli molto alti.

Decisamente consigliato.
 
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bouvard

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Libro particolare nello stile e nella storia raccontata. L’espediente di un dialogo in cui però il lettore “sente” solo una delle due voci e le risposte, interruzioni e quant’altro dell’altra voce deve ricostruirsele da solo, mi era già noto in quanto presente in un altro dei libri di Yehoshua che ho letto.

Ma se nell’altro libro questo espediente mi aveva affascinato per la sua originalità, e per la parsimonia con cui era stato usato (per un solo capitolo) in questo libro a lungo andare mi ha stancato, non nel senso di annoiato, ma nel senso che ha rallentato molto la mia lettura, appesantendomela. Non è facile infatti leggere un libro in cui non c’è la “distrazione” della descrizione di un luogo o del carattere di una persona, ma solo i pensieri e le contorsioni mentali della voce narrante di turno. Non è facile non lasciarsi sopraffare dal fiume di parole di tutti questi monologhi. Difficile non restarne schiacciati. Io a volte non ci sono riuscita.

Bellezza del libro quindi questo espediente, ma anche il suo limite, almeno per me che in questo momento non cercavo una lettura da assaporare lentamente come un buon vino invecchiato.

Non è una scelta facile neppure l’altro espediente di raccontare questa saga familiare a ritroso perché a volte in tutti quei nomi e date un po’ mi sono persa, sarebbe stato molto più facile andare in ordine cronologico, anche se mi rendo conto che in questo modo il libro avrebbe perso molto.

Che dire bel libro, ma da leggere però quando non si ha fretta...​
 
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