Nessuno scrittore tanto quanto Proust è stato capace di trasformare se stesso e la sua vita nella materia della propria opera, facendone non solo qualcosa di fortemente autobiografico, ma anche di introspettivo e “individualista”.
Il terzo volume della Recherche, La parte dei Guermantes, in tal senso si distingue e declina l’aspetto autobiografico in modo singolarissimo, dispiegando davanti ai nostri occhi una fitta rete di riferimenti reali che senza l’aiuto delle note (e nella mia edizione occupano più di 200 pagine!) sarebbe impossibile decifrare e apprezzare nella loro complessità.
“(...) Ma qui ci troviamo di fronte a uno scrittore che esplicitamente gioca con le sue fonti e i suoi modelli come il gatto col topo, che inserisce nei suoi lunghi periodi scherzosi rovesciamenti di situazioni reali, contemporanee o del passato, che si diverte a manipolare l’esistenza o l’accaduto per farne una specie di romanzo-collage, di romanzo-satura, di romanzo-conglomerato, in una visione del mondo e della letteratura che tende a fare dell’una il grandioso pastiche o il contrappunto dell’altro. (...) Nei Guermantes l’azione tende a zero e la conversazione a infinito. Ma questo atteggiamento “conversante” non ha un suo spessore narrativo che possa prescindere dai riferimenti: i discorsi di Oriane, di Basin, di Charlus (...) sono tutti sostanziati di riferimenti. Questi costituiscono l’oggetto primario del parlare; non si aggiungono al testo per commentarlo, svelarlo o contraddirlo; sono il testo, la sua struttura portante, lo scheletro architettonico che collega e coordina tutto il resto.”
(dall’introduzione all’edizione Mondadori)
Insomma, nei Guermantes qualsiasi personaggio, relazione, episodio, aneddoto, finanche il singolo gesto o la singola battuta, trae la sua origine o dalla Storia, così come è stata appresa da Proust, attingendo senza riserve a genealogie e parentele di tutte le più importanti (ma spesso anche secondarie, dimenticate, estinte) famiglie nobili nello spazio dell’intera Europa e nell’arco di oltre due secoli, o dalla sua esperienza personale; spesso da entrambe. A fronte del personaggio “inventato”, quindi, si pongono ben due modelli di realtà intrecciati fra loro: quella “storica”, indiretta, e quella privata, intima (ricordo che in più di un’occasione amici e conoscenti di Proust si sono risentiti e hanno persino “rotto” i rapporti, per essersi riconosciuti in uno dei personaggi del romanzo; così come, al contrario, è successo che Proust stesso si sia “vendicato” di alcuni sgarbi ricevuti, attraverso le pagine della sua opera). Il risultato è qualcosa di unico, a patto che si sia ben consapevoli dell’origine tutt’altro che fittizia di ciò che stiamo leggendo: è come assistere a un grandioso spettacolo, di cui ogni singolo elemento ha tanto più valore in quanto non corrisponde a mera citazione, nè a pura invenzione, ma a una via di mezzo fra queste due.
Per questa ragione, dei volumi letti finora questo è il primo in cui la tendenza introspettiva e centripeta tipicamente proustiana cede il passo a un confronto diretto con la Storia, anche con riferimenti al passato più recente (esempio lampante il rilievo dato all’affare Dreyfus).
Quanto ai contenuti di questo terzo capitolo, ho letto più volte che lo scopo dell’autore sarebbe quello di mostrare tutta la “pochezza” che si cela nei rinomati e altisonanti salotti dell’aristocrazia parigina del tempo (quelli connessi al famigerato faubourg Saint-Germain), la cui presunta inaccessibilità da parte del Narratore li aveva trasformati in qualcosa di mitologico, quasi soprannaturale. In realtà, per quanto l’ironia e l’intento dissacratorio siano innegabili, è anche vero che la descrizione di questi salotti non manca di fascino: queste riunioni, e in particolar modo la possibilità di accedervi o meno, erano regolati da legge molto ferree, non solo quelle dettate dell'etichetta, ma anche (e peggio!) dalle opinioni pubbliche e dalle simpatie/antipatie personali, di modo che un mancato invito (ma persino un invito stesso!) dipendeva spesso da interessi, favori, dispetti, ripicche, vere e proprie "strategie" di mondanità, e la semplice “lista” dei salotti nei quali si era "ammessi" poteva definire la popolarità o meno di un personaggio. Una volta introdotti, poi, le cose non diventavano più semplici, anzi: ogni atteggiamento, espressione, gesto, intenzione e intonazione, era il frutto di scelte attente e calibrate, in un continuo gioco di affettazione e dissimulazione.
Su tutto ciò, domina e brilla la duchessa di Guermantes, incontrastata protagonista di questo volume, l’unica che racchiude in sè il Genio di famiglia – che fa preferire loro l’intelligenza alla nobiltà, l’anticonvenzionale all’etichetta, salvo poi “onorare coi fatti ciò che disprezzano con le parole” – e lo “spirito dei Guermantes”, di fatto il suo carisma personale. Proprio in virtù di questo charme, a Oriane sono permesse cose che a nessun altro, magari di più alto lignaggio, sarebbe concesso; il suo fascino conquista tutti, Narratore compreso (che se ne innamorerà), salvo poi scoprire, una volta varcata la tanto sospirata soglia, che la realtà è ben lontana dai banchetti olimpici e dalle celestiali conversazioni che si era immaginato. Ma questa non è una novità, e io credo che la “colpa” non sia tanto della duchessa e della sua cerchia, ma del Narratore stesso, che fedele a se stesso non smette di costruire castelli intorno alle cose che lo attraggono, creandosi aspettative che, com’è ovvio, non potranno che restare deluse. Lui stesso ammette questa sua “debolezza” (era ora!), per cui l’onestà intellettuale lo spinge a riconoscere comunque le “qualità” dei Guermantes e della duchessa in particolare: un’ ”autentica cortesia aristocratica”, una squisitezza, una nobiltà – non del cuore, ma dei modi – che, seppure private ormai dei propri contenuti, sopravvivono come retaggio che si trasmette persino contro la propria volontà (vedi Saint-Loup e la sua presunta “modernità” anti-aristocratica).
Tutto questo sono I Guermantes... il resto è Proust: lo conosco, lo amo e mi inchino sempre davanti alla sua poesia.