Yasushi, Inoue - Il fucile da caccia

bouvard

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Il fucile da caccia, opera più importante di Inoue Yasushi, è un libricino di appena 100 pagine che si legge in un paio d’ore, ma che resta nel cuore. E’ un libro sulla illusorietà dell’apparenza e su quanto ci inganniamo illudendoci di conoscere bene un’altra persona. Ognuno di noi nasconde infatti agli altri – ma a volte anche a se stesso - alcuni aspetti della sua vera natura, soprattutto quelli più intimi o inconfessabili. E Yasushi è bravissimo nel sottolineare il peso - e a lungo andare l’inutilità - di quest’inganno sia per chi lo subisce, sia per chi lo compie.

Un poeta viene invitato da un suo amico – direttore della rivista dell’Associazione venatoria giapponese – a scrivere una poesia sulla caccia. Il poeta scrive “Il fucile da caccia”, ma dopo riflettendoci si accorge di aver fatto un grande errore. Perché la sua poesia invece di esaltare la figura del cacciatore – come sarebbe stato opportuno in una rivista sulla caccia – è invece il ritratto di una cacciatore triste e solitario incrociato una mattina per caso. Qualche tempo dopo il poeta riceve una strana lettera dal Signor Misugi l’uomo che si è riconosciuto nel cacciatore della poesia. Poiché “L’uomo è una stupida creatura, che dopotutto aspira ad essere conosciuta da qualcuno” Misugi manda al poeta tre lettere che ha ricevuto da tre diverse donne, affinché possa capire la ragione di quella solitudine che aveva intravisto.

Le tre lettere sono quella della moglie, quella dell’amante e quella della figlia dell’amante. Sono tre lettere d’addio per Misugi, perché ognuna di queste donne non riesce più a sopportare il peso delle bugie raccontate. Infatti ognuna di loro - pur amando gli altri tre - non ha esitato a mentirgli, e ingannarli, mentendo anche a se stessa.

Il fucile da caccia è un libro sull’amore, sul tradimento, sui sensi di colpa, ma soprattutto sui silenzi e sulla incomunicabilità. Ognuno di noi ha un serpente dentro di sé – come viene detto nel libro – a cui si possono dare nomi diversi: gelosia, egoismo, ecc. e per quanto cerchiamo di tenerlo nascosto prima o poi mostrerà la testa e allora tutte le bugie raccontate non saranno servite a niente.

“Vuoi amare?” o “Vuoi essere amata?”, meglio la forma attiva o quella passiva? Sicuramente “essere amati” è più semplice, implica meno sacrifici, si soffre meno e si rischia forse anche meno. Ma è così bello essere amati senza amare? “Tra la donna che ha goduto appieno della felicità di essere amata e la donna che può dire di avere avuto poche gioie, ma di avere amato, a quale delle due Dio vorrà concedere il tranquillo riposo?”

Se questo libricino vi capita fra le mani leggetelo è davvero un piccolo gioiello, se non vi capita fra le mani allora mi permetto di consigliarvi di farcelo capitare, perché vi ruberà solo due ore di lettura, ma vi lascerà molto dentro, e vi spingerà a chiedervi quale sia il vostro “serpente” interiore e cosa rispondereste voi alla domanda tra la forma passiva e quella attiva.
 
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bonadext

Ananke
L'avevo preso perchè mi era stato consigliato da una libraia che diceva era simile a "L'anulare" della Ogawa :W ... mai fidarsi dei librai che non si conoscono! Infatti non mi ha detto niente questo libricino, certo è leggibile, ma non ha niente a che vedere con quel capolavoro che è "L'anulare", anche perchè è impossibile trovare un libro simile a quello della Ogawa. La cosa positiva è che almeno ho conosciuto un'autore classico giapponese che non conoscevo!
Cmq per dare una seconda possibilità a Yasushi ho preso anche i racconti "Amore" che devo ancora leggere... vedremo...
 

ayuthaya

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Mi hai assolutamente convinto, bellissimo commento e i contenuti mi intrigano parecchio... Aggiunto! :D
 

ayuthaya

Moderator
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Tutti gli essere umani hanno dentro di sé un serpente, quindi non c'è ragione di averne tanta paura.

Di solito non amo i racconti, in modo particolare quando si tratta di storie slegate fra loro che vanno a comporre un unico libro. Ma non è vero che non so apprezzare la brevità, anzi. Alcune opere, che più che racconti preferisco chiamare “romanzi brevi”, hanno qualcosa che, a mio avviso, è connaturato alla loro brevità: la perfezione.
Ecco, Il fucile da caccia mi ha dato l'impressione di essere un'opera perfetta. Dopo averla letta ci si chiede (o almeno io mi sono chiesta) come sia possibile aver vissuto emozioni così forti, profonde, travolgenti, nello spazio di così poche pagine. È un'opera perfetta nella sua concisione, nel modo in cui è strutturata — un susseguirsi di lettere attraverso le quali veniamo a conoscere sempre più a fondo e con un sempre maggiore coinvolgimento emotivo le dinamiche di questa piccola tragedia —, nel contrasto fra uno stile limpido e la vicenda torbida che racconta. Forse è proprio questo ad avermi colpito maggiormente: tutte e tre le lettere (quattro, se aggiungiamo quella che lo stesso Misugi scrive al fantomatico poeta) sono di una sincerità e di una trasparenza disarmanti, tanto più perché rappresentano il perfetto contraltare di una vita costruita nelle tenebre dell'inganno reciproco. È su questa antitesi che l'autore, con grande maestria, costruisce il suo intreccio.

A vederla così, quella fra Misugi, Midori e Saiko potrebbe sembrare l'ennesima storia di tradimento, ma in realtà è molto di più: è la storia di una messa in scena che dura tredici anni grazie alla complicità di tutti, ingannati e ingannatori; è la storia di un amore “che non riceve i raggi del sole, che non si sa da dove nasca e dove vada a finire, sepolto nelle viscere della terra come un canale sotterraneo”; è la storia di un “serpente” che si annida all'interno dell'animo umano, in ognuno di noi.
Con questo non voglio dire che chiunque legga questo libro debba identificarsi con i suoi protagonisti, ma è chiaro che l'intento di Inoue Yasushi è quello di esasperare e sublimare quella parte “oscura” che comunque ci appartiene.
Saiko ha deciso di ingannare non solo la donna del suo amante, ma anche sua figlia, l'amante stesso e infine se stessa. In cosa consiste quest'ultima forma di inganno? Me lo sono chiesta più volte, perché la sua lettera è la più difficile da interpretare. È forse l'aver creduto erroneamente che l'unica via possibile fosse la menzogna o, al contrario, la conferma che valeva la pena soffrire e far soffrire pur di “essere amata” come è stata lei? Resta il fatto che, una volta svelata la finzione, la “forza” che l'aveva tenuta in vita si dissolve. Paradossalmente, proprio nel momento in cui Saiko, e gli altri insieme a lei, potrebbero deporre le maschere e i ruoli per essere finalmente se stessi, l'equilibrio si spezza e la “morte” è accolta come una liberazione. Come se lo sforzo fatto per reggere il gioco nel corso di tutti questi anni abbia alla fine lasciato la donna svuotata, inerte. Il suo ultimo gesto prima dell'atto di abbandono estremo è quello di aprirsi al suo amante, di rivelargli quello che forse nemmeno lui sa...

Questo libriccino così “piccolo” eppure così profondo, laddove per “profondo” penso proprio alla voragine di un pozzo del quale non si scorge il fondo, mi ha lasciato con diverse domande senza risposta, le stesse che mi sono immaginata si sia posta Saiko prima di morire: ne è valsa la pena? Sembra certo che la donna non si sia pentita: lo dimostra la meravigliosa frase con cui si chiude la sua lettera. Ma allo stesso tempo non ci si può non chiedere: esisteva un'alternativa alla “colpa”, alla menzogna, alla “malvagità”? Il serpente che era dentro di lei le avrebbe permesso una strada diversa, fatta di franchezza, lealtà, coraggio? E, ammesso che quest'altra strada ci fosse, sarebbe stato lo stesso amore, la stessa felicità (per quanto sofferta)? Ecco, io non condivido certo l'inganno, soprattutto se rivolto alle persone che amiamo; addirittura, almeno fino a qualche anno fa, ero del tutto incapace di dire bugie, fosse anche la più piccola. Allo stesso tempo, però, ho preso sempre più coscienza di quel “serpente” che coviamo dentro e credo che l'unico modo per conviverci sia quello di accettarlo, cercando – per quanto possibile – di non mentire almeno a noi stessi.

Poi c'è un altro aspetto da sottolineare. La letteratura, nella sua forma più elevata, è sublimazione della realtà e, proprio perché la realtà non è sempre così limpida come vorremmo, alla letteratura è permesso di prenderla, stravolgerla, trasfigurarla in poesia. Penso a Grass, penso a Cèline, penso soprattutto a Philip Roth, che nei suoi romanzi, con estrema irriverenza e dissacrazione, ha messo a nudo gli aspetti più “indicibili” dell'animo umano. Il fucile da caccia è scritto da un giapponese e anche solo per questa ragione siamo lontani anni luce dagli eccessi dello scrittore americano; ciò non toglie che ancora una volta siamo di fronte all'arte che si prende la vita e ce la restituisce come qualcosa di diverso, non necessariamente migliore o peggiore, ma se non altro qualcosa che ha il potere di emozionarci.
 
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