Vittorini, Elio - Uomini e no

ayuthaya

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Premessa: ma come? un romanzo così bello (di cui ho sentito tessere le lodi anche qui dentro) non è ancora stato recensito?

Uomini e no è un romanzo di Elio Vittorini scritto tra la primavera e l'autunno del 1944, in un periodo ancora completamente coinvolto nelle vicende descritte, ma pubblicato solo nel giugno 1945. Questo è probabilmente il primo romanzo della resistenza.
La figura centrale del romanzo è Enne 2, capitano dei GAP a Milano, che seguiamo tra le sue vicende sentimentali e le azioni partigiane compiute assieme ai propri compagni. Dal punto di vista sentimentale, il personaggio è lacerato dal suo amore impossibile per Berta, donna sposata che non sa decidersi a lasciare il marito. A questa situazione amorosa si intrecciano le azioni resistenziali di Enne 2 e del gruppo da lui comandato...

(da Wikipedia)

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C’è umanità nell’uomo quando si rivolta contro il proprio simile, con freddezza, con ferocia? Noi diciamo: “disumano”, ma è vero? Non è sempre “uomo” anche quando divora, offende, uccide? Può essere nell’uomo ciò che non è dell’uomo?

Queste sono solo alcune delle tante, tantissime domande che attraversano questo libro. Potremmo anzi dire che è un libro fatto di interrogativi, ai quali perlopiù non è possibile rispondere; e se una risposta c’è, questa non fa che ribadire le domande stesse, in una sorta di eco disperata del dolore.

“Che di straordinario? Io non ho veduto niente di straordinario.”
“Nemmeno io. Che ho veduto io di straordinario? Niente ho veduto di straordinario.”
“Che c’è di straordinario?”

Perché quella donna nel tappeto? Perché quell’altra? E perché la bambina? Il vecchio, i due ragazzi? E perché, loro?
Perché? La bambina esclamò. Come perché? Perché sì! Tu lo sai e tutti lo sapete. Tutti lo sappiamo. E tu lo domandi?


Uomini e no è un romanzo particolarissimo, suddiviso in centotrentasei brevissimi capitoli, che alternano la narrazione vera e propria a momenti (riconoscibili nel testo dall’uso del corsivo) in cui a parlare è lo “scrittore”: egli svela se stesso e interagisce con il protagonista, del quale – da bravo “creatore” che lo ha partorito – può rivelare i pensieri più segreti e persino realizzare i desideri (sempre legati a ricordi o fantasie sulla sua infanzia).
La storia è una storia di amore e di guerra. In un certo senso non racconta nulla di eccezionale, nulla di nuovo: un amore impossibile e forse mai consumato, una lotta per la resistenza in cui l’unica regola è non fermarsi mai, nemmeno per chiedersi se quello che si sta facendo servirà a qualcosa, nemmeno per cedere alla tentazione di “perdersi”, come tanti compagni caduti silenziosamente uno dopo l’altro...
Ma è il modo in cui questa storia di amore e di guerra viene raccontata a fare la differenza. L’impressione è che tutto sia stato studiato alla perfezione: la scelta delle parole, l’alternarsi di domande (molte) e risposte (poche), i silenzi che costringono il lettore a indugiare davanti a ciò che è accaduto, a non proseguire prima di essersi chiesto anche lui “perché?”. Uno stile che mi ha fatto venire in mente Hamingway, o per meglio dire il modo in cui viene solitamente celebrata la sua scrittura: scarna, essenziale, in cui ogni parola va dritta al punto. Non me ne vogliano gli ammiratori del Nobel americano, ma non ho riconosciuto meritate queste lodi leggendo Hamingway tanto quanto leggendo lo “sconosciuto” Vittorini.

Un romanzo davvero bello, profondo, dolorosissimo, in cui a far soffrire è ciò che sappiamo essere successo pur senza averlo “visto” coi nostri occhi (in tutto il libro non vi è descritta una sola scena di morte, eppure ve ne sono), ma ancor più quelle domande sull’uomo, sulla sua natura, sulla sua “corruzione”.

“Questo è il punto in cui sbagliamo. Noi presumiamo che sia nell’uomo soltanto quello che è sofferto, e che in noi è scontato. Aver fame. Questo diciamo che è nell’uomo. Aver freddo. E uscire dalla fame, lasciare indietro il freddo, respirare l’aria della terra, e averla, avere la terra, gli alberi, i fiumi, il grano, le città, vincere il lupo e guardare in faccia il mondo. Questo diciamo che è nell’uomo.
(...) Ogni cosa che è piangere la sappiamo: diciamo che è in noi. Lo stesso ogni cosa che è ridere: diciamo che è in noi. E ogni cosa che è il furore, dopo il capo chino e il piangere. Diciamo che è il gigante in noi.
Ma l’uomo può anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l’uomo.
Noi lo vediamo. È lo stesso del lupo. Egli attacca e offende. E noi diciamo: questo non è l’uomo. Egli fa con freddezza come fa il lupo. Ma toglie questo che sia l’uomo?”
 
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