Berger, John

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John Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) è stato un critico d'arte, scrittore e pittore britannico.

Giusto ieri ho letto un suo libricino (Smoke), e oggi ho scoperto che il 2 gennaio è morto questo importante scrittore britannico, in Italia poco conosciuto (come al solito!), e navigando in internet ho scoperto questo bellissimo articolo per conoscere meglio questo grande scrittore...

Perché John Berger è stato un insuperabile padre letterario
Muore a 90 anni uno dei più influenti e prolifici critici, scrittori, pensatori del nostro tempo. Qual è l'eredità intellettuale che ci ha lasciato.
(Di Gianluigi Ricuperati)


In un paese dell’ex Unione Sovietica, negli anni Novanta, un uomo conosce una donna, si frequentano, lei rimane incinta, nasce un bambino. Sono entrambi giovanissimi e inesperti. Ma uno dei due è più previdente dell’altro. Non necessariamente il più forte dei due. Si lasciano un anno e mezzo dopo. La donna si fidanza con un altro, chiedendo al papà naturale del bambino di farsi da parte, rinunciando alla sua presenza nella vita del figlio. Per qualche ragione l’uomo accetta: forse perché non è il più forte dei due. La vita sembra andare così: la nuova famiglia e la storia si confermano anno dopo anno. Il padre acquisito diventa il “papà”. L’altro uomo scompare: emigra, ricomincia, guadagna un po’ di soldi. Il giorno del quindicesimo compleanno, il ragazzino si tuffa in modo sbagliato e va in coma. Pare non ci sia molto da fare, a meno di non tentare un’operazione sperimentale che si fa solo in Germania. Costa quarantamila euro. La donna non li ha, li chiede al “papà”. Lui, dopo alcuni tentennamenti, si risolve a dirle la verità: non vuole tirare fuori quella cifra per una cosa arrischiata, e per un figlio non “suo”. Lei, disperata, chiama il padre naturale, gli racconta la storia. Essendo non il più forte ma il più previdente dei due, alla nascita l’uomo aveva messo da parte del denaro, una specie di assicurazione, da riscattare quando il figlio avesse raggiunto i ventuno. Non ci pensa due volte e ritira quanto serve, lo spedisce alla madre, lei paga l’operazione: l’operazione va bene. Il ragazzino si risveglia dal coma senza danni. Ma nel frattempo la madre ha cacciato via il suo compagno, e all’ospedale tedesco il figlio ritorna alla vita incontrando quell’uomo che è il suo genitore biologico, e alla cui generosità deve tutto. Nonostante questo, oggi il ragazzo, che sta bene ed è un giovane ingegnere, non riesce a chiamarlo “papà”. È tornato indietro dal regno dei morti, ma ci è tornato come una strana specie di orfano. Non ha mai veramente riallacciato rapporti con colui che lo ha tradito e neppure con il padre che lo ha salvato.

Stavo ascoltando questa storia – una favola nera bianca e vera – dalla voce di uno dei protagonisti, quando ho appreso la notizia della morte di John Berger, il più grande di tutti, la figura paterna di chiunque si ribelli all’angustia dei generi prefissati, della separazione fra discipline visive e parola letteraria, il narratore ideale, il buon esempio, il combattente delle idee, il prosatore generoso, l’inglese espatriato, il coltivatore che viveva lontano dalle città, il formidabile oratore, protagonista di una delle più geniali trasmissioni tv della storia. Se non ci fosse stato John Berger, non avrei avuto il coraggio di iniziare un’eulogia raccontando una vicenda così apparentemente distante dal soggetto di cui devo scrivere. Ma John Berger c’è stato, e la vicenda che ho raccontato non è così lontana dalle sue opere. Vorrei spiegare perché, e così facendo illustrare perché John Berger è stato il più rispettabile dei padri letterari possibili.

Berger è stato prolifico, e chi è prolifico principalmente si assume dei rischi. Ha scritto decine di libri, principalmente divisi in quattro filoni: saggi artistici e politici, romanzi e racconti, progetti ibridi e collaborativi, prose frammentarie, d’occasione. È una suddivisione rozza, ma credo corretta, e restituisce la varietà vitale della sua “responsabilità”: in un saggio su Leopardi del 1983, uno dei primi apparsi in lingua inglese, Berger sostiene che «nonostante il nostro inevitabile pessimismo, la realtà è sempre bisognosa». Necessità di azione, di pensiero che nutre l’azione, di pietà che corregga le traiettorie dell’azione e del pensiero. Pubblicare – oggi si direbbe anche “condividere”, ma nel senso meno deteriore del termine – è uno dei modi in cui un autore reagisce. Nel caso di Berger, la reazione è stata molto più di una reazione. È stata magistero, scoperta, tessitura, connessione, e sì, anche sperimentazione: ma quel tipo di sperimentazione che aderisce alla sostanza costruibile della vita. Berger negli anni Cinquanta dichiarò che tutta la sua attività intellettuale era una protesta contro la condizione borghese. Non conosco nessuno che altrettanto coerentemente abbia vissuto secondo principi rivoluzionari, anche quando ciò gli ha procurato scherno e ammirazione sperticata (l’altra faccia dello scherno), per esempio in occasione del famoso discorso del Booker Prize, vinto con il bellissimo romanzo G., la cui somma divise a metà con le Black Panthers di Trinidad, attive nel processo di palingenesi contro la Booker, azienda i cui profitti derivavano dallo schiavismo coloniale britannico.

Eppure le contraddizioni e le ingiustizie del capitalismo non sono mai state per Berger un’arma narcisistica: gli stessi capolavori pittorici tanto amati, come insegna W.G. Sebald in uno splendido passaggio de Gli Anelli di Saturno, sono «incrostati del velo di zucchero delle piantagioni olandesi», e nella celeberrima prima puntata di Ways of Seeing, programma divulgativo prodotto dalla Bbc nel 1972, nel quale Berger vestiva camicie lussureggianti straordinarie, le sue mani ritagliano un dettaglio da una riproduzione di Botticelli con un coltellino, mentre la sua voce precisa senza sconti che «la prospettiva, che è connaturata ai dipinti della tradizione europea, mette al centro l’occhio di chi osserva, e l’occhio di chi osserva tende a chiamare realtà ciò che sta osservando in quel momento», e che «guardare i dipinti ci insegna molto non solo sul modo in cui guardiamo ma anche e soprattutto sul modo in cui viviamo, sulle nostre condizioni di vita».

Berger ha pubblicato testi fondamentali sul rapporto fra arti visive ed esperienza umana contemporanea, non tanto per le idee che espone, ma per come tali idee s’intrecciano con l’umanità di chi le incrocia: l’autore, il lettore, la comunità inconfessabile delle culture. In un testo su Van Gogh del 1983 chiude dicendo che nell’antichità si guardavano i dipinti fossero specchi, ma nel caso di Van Gogh si tratta più che altro di laser, raggi luminosi che conducono il calore delle idee.

Secondo Geoff Dyer, che gli ha dedicato un libro intitolato Ways of Telling, e che è uno dei migliori tra i suoi tanti discepoli, fra le caratteristiche più rilevanti dell’eredità intellettuale di John Berger va annoverata l’apertura in tempi non sospetti a una tradizione europea e continentale da parte di un letterato britannico. La molteplicità di figure che si radunano ogni volta che Berger comincia a scrivere è in effetti parte di una tradizione polifonica: c’è un poeta lirico postmoderno, l’uomo che racconta intorno al fuoco, un letterato finissimo, un io che definisce a voce bassa la misura del nostro tempo, iniquità per iniquità.

La forma ideale della sua scrittura, dalle cinque alle dieci pagine, si mescola miracolosamente con l’umanità delle sue giornate spesso dedicate ad altro da sé: ad altri, agli amici, ai compagni di lotte, ai campi da coltivare, alle cicliche mansioni del lavoro quotidiano di abitante della terra, di attivista, di occhio che guarda. Berger ha lavorato con fotografi, registi, produttori televisivi, direttori di musei, editori, direttori di giornali. In molti dei suoi volumi compaiono in sovracoperta immagini del suo volto bellissimo, un’armonia di ciocche e segni del tempo, e le pupille azzurrissime che sembrano sempre scrutare il punto in cui qualcosa potrebbe non crollare, non spezzare la schiena al più debole.

Berger è stato un gigante della letteratura, e un gigante della vita. Le due cose di rado coincidono: immergetevi nella lettura di uno qualsiasi dei suoi scritti, su Rembrandt, sull’Ulisse di Joyce, o sull’amore coniugale, o sul modo in cui si gestisce la merda nella vita di campagna. Emergerà qualcosa che va aldilà delle parole: un bassorilievo d’esistenza, che è la più consolante moneta di riscatto di fronte al lutto: come il padre previdente della storia che ho raccontato all’inizio, e previdenza non va inteso come valore borghese, cioè basato sulla protezione di una proprietà, ma universale, cioè proiettato verso gli altri, l’altro, la sostanza costruibile della vita. Che richiede il dono. Ogni parola di John Berger – su carta, dal vivo, o in una telecamera – è stata un dono. Per sentire la profondità di tale dono, guardate i suoi interventi televisivi sulla storia dell’arte, confrontateli con quelli di Vittorio Sgarbi, un tipico esempio di talento sprecato nell’incapacità totale di pensare ad altro che a se stessi.

Di fronte ai maestri perduti noi vivi siamo tutti come i figli usciti dal coma, con una notizia sconvolgente (dobbiamo reagire al mondo che ci riserva sorprese e scandali continui) e una notizia rassicurante (siamo vivi). È urgente essere figli migliori, diversi: dobbiamo praticare gratitudine, ritagliare un dettaglio esemplare, e cambiare le nostre abitudini per essere fedeli ai nostri padri migliori.


(Articolo di Gianluigi Ricuperati, pubblicato in data 3 gennaio 2017)
 

Grantenca

Well-known member
Ho conosciuto personalmente John Berger.
E' accaduto nel 1994 ed, ovviamente, dato il personaggio, l'incontro è stato dovuto esclusivamente ad uno strano caso del destino.
Ero ancora in servizio quando ricevetti una strana telefonata d una signora che mi disse che si trovava in zona, e avrebbe voluto visitare le valli di Comacchio non dall'esterno, ma su un natante, insieme ad uno scrittore al quale la visita serviva per completare un suo libro. Accettai di buon grado data anche la mia predilezione per la narrativa e pensando comunque che questo sarebbe stato un evento in qualche modo promozionale per il nostro territorio, e mi impegnai per la buona riuscita dell'escursione su un mezzo adatto aziendale condotto da una persona espertissima che conosceva delle valli, ogni minimo dettaglio. La signora si chiamava Maria Nadotti, ed era la traduttrice italiana di John Berger, e in quell'occasione mi presentò lo scrittore, un settantenne di bella presenza con gli occhi azzurri.
Dopo la ottima riuscita dell'escursione i due ci invitarono a cena, e alla sera ci recammo in un ristorante di Gorino. Io portai un mio amico appassionato di cinema (è stato anche collaboratore di Pupi Avati) perché avevo saputo dalla Nadotti che Berger aveva collaborato anche a sceneggiature cinematografiche. Purtroppo, non conoscendo l'inglese, la conversazione non potè andare oltre limiti piuttosto angusti, e fu una delle prime grandi occasioni in cui mi rammaricai profondamente di non conoscere una lingua così importante.
A distanza di oltre un anno la Nadotti mi mandò una copia, con dedica autentica sua e dello scrittore, del libro.
Il libro è titolato "Festa di nozze" ed edito da "il Saggiatore".
Leggendo l'articolo di Gianluigi Ricuperati, mi rendo conto di aver conosciuto una personalità ancor più grande della sensazione che avevo avuto di lui in quella sera.
 

bonadext

Ananke
Ho conosciuto personalmente John Berger.
E' accaduto nel 1994 ed, ovviamente, dato il personaggio, l'incontro è stato dovuto esclusivamente ad uno strano caso del destino.
Ero ancora in servizio quando ricevetti una strana telefonata d una signora che mi disse che si trovava in zona, e avrebbe voluto visitare le valli di Comacchio non dall'esterno, ma su un natante, insieme ad uno scrittore al quale la visita serviva per completare un suo libro. Accettai di buon grado data anche la mia predilezione per la narrativa e pensando comunque che questo sarebbe stato un evento in qualche modo promozionale per il nostro territorio, e mi impegnai per la buona riuscita dell'escursione su un mezzo adatto aziendale condotto da una persona espertissima che conosceva delle valli, ogni minimo dettaglio. La signora si chiamava Maria Nadotti, ed era la traduttrice italiana di John Berger, e in quell'occasione mi presentò lo scrittore, un settantenne di bella presenza con gli occhi azzurri.
Dopo la ottima riuscita dell'escursione i due ci invitarono a cena, e alla sera ci recammo in un ristorante di Gorino. Io portai un mio amico appassionato di cinema (è stato anche collaboratore di Pupi Avati) perché avevo saputo dalla Nadotti che Berger aveva collaborato anche a sceneggiature cinematografiche. Purtroppo, non conoscendo l'inglese, la conversazione non potè andare oltre limiti piuttosto angusti, e fu una delle prime grandi occasioni in cui mi rammaricai profondamente di non conoscere una lingua così importante.
A distanza di oltre un anno la Nadotti mi mandò una copia, con dedica autentica sua e dello scrittore, del libro.
Il libro è titolato "Festa di nozze" ed edito da "il Saggiatore".
Leggendo l'articolo di Gianluigi Ricuperati, mi rendo conto di aver conosciuto una personalità ancor più grande della sensazione che avevo avuto di lui in quella sera.
Che bella esperienza dev'essere stata Gran! Grazie per il tuo contributo :D
 
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