Cognetti, Paolo - Le otto montagne

malafi

Well-known member
Pietro è un ragazzino di città, solitario e un po' scontroso. La madre lavora in un consultorio di periferia, e farsi carico degli altri è il suo talento. Il padre è un chimico, un uomo ombroso e affascinante, che torna a casa ogni sera dal lavoro carico di rabbia. I genitori di Pietro sono uniti da una passione comune, fondativa: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia, e l'orizzonte lineare di Milano li riempie ora di rimpianto e nostalgia. Quando scoprono il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, sentono di aver trovato il posto giusto: Pietro trascorrerà tutte le estati in quel luogo "chiuso a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l'accesso" ma attraversato da un torrente che lo incanta dal primo momento. E li, ad aspettarlo, c'è Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche. Iniziano così estati di esplorazioni e scoperte, tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri più aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, "la cosa più simile a un'educazione che abbia ricevuto da lui". Perché la montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare, e sarà il suo lascito più vero: "Eccola li, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino". Un'eredità che dopo tanti anni lo riavvicinerà a Bruno.

Mi sono avvicinato a questo testo con molta curiosità ed altrettanta perplessità. Primo perché vincitore del Premio Strega e questo, almeno negli ultimi anni, non è un buon marchio di fabbrica. Occorre risalire al 2010 per l’ultimo vincitore con un libro di pregio (anche se non ho letto né il 2015 né il 2016). Secondo perché è un caso letterario (ed anche questo …..). Terzo perché amo la montagna.

Non è un romanzo autobiografico, ma potrebbe esserlo, sia per il modo in cui è scritto sia perché alcuni passaggi ed il rapporto padre-figlio sono abbastanza credibili.
Lo scrittore conosce bene la montagna e ne fa una descrizione piuttosto precisa e senza grandi sbavature. Non sono nemmeno tanto d’accordo, come alcuni scrivono, che sia la classica montagna descritta da un cittadino pentito, che ne ha una visione idealizzata. Lui è consapevole di questo fenomeno ed uno dei passaggi più belli è questa frase:

Siete voi di città che la chiamate “natura”. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo “bosco”, “pascolo”, “torrente”, “roccia”, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente.

Ciononostante non mi pare un libro che possa lasciare una traccia indelebile nella nostra letteratura e meritevole di essere stato tradotto e pubblicato in non so quanti paesi.
Il confronto con Mario Rigoni Stern, per esempio, non regge: Cognetti è un onesto scrittore, Rigoni Stern è una pietra miliare della letteratura di montagna. Persino Corona, che peraltro non amo, mi pare migliore e più vero.

E’ un libro onesto, pulito, scritto abbastanza bene, ma gli manca qualcosa per ambire anche solo ad un voto 4/5. Dunque 3/5 e ringraziare.
 

Jessamine

Well-known member
Ho opinioni piuttosto confuse, riguardo a questo libro.
Ho letto la prima metà un po' arrancando, alternando stati in cui non potevo non riconoscere una certa padronanza della materia letteraria a Paolo Cognetti, ad altri in cui l'unica cosa che provavo era una grande, immensa noia. Sarà che il fascino della montagna non l'ho mai provato, sarà che ho ricordi terribili delle gite domenicali con l'escursionismo giovanile del CAI, fatte di levatacce quando avrei preferito dormire, vesciche ai piedi, mal di schiena e brutte cadute. Sarà che, se proprio in montagna ci devo andare, sono un po' come la mamma di Pietro, per me la montagna si ferma ai millecinquecento metri. Sarà che l'unica volta che mi sono trovata a posare il rampone su un ghiacciaio m'è venuto un mezzo attacco di panico, ho mandato a quel paese tutti e me ne sono rimasta tutto il giorno in rifugio. Sarà che anche i miei si sono conosciuti in montagna, e mia madre quando ero piccola, mentre mi asciugava i capelli, mi cantava della Grigna e di tutti i suoi innamorati trafitti da una freccia in fronte (questo, o Bocca di rosa : a distanza di vent'anni mi sto ancora chiedendo perché), ma tutto il mio vissuto evocato da queste pagine mi ha gettato, più che in uno stato di malinconia e nostalgia, in un turbinio di irritazione e nervosismo.
La seconda metà, invece, è scivolata via in una nottata. Eppure, ripensandoci con un po' di razionalità, mi rendo anche conto che la seconda parte è proprio quella più debole: la trama si fa un po' scontata e prevedibile - e pure un po' assurda - si perde il mordente e l'interesse per il rapporto padre-figlio, che invece caratterizzava in maniera molto sentita la prima parte. Andiamo, davvero era necessario ficcarci dentro pure il Nepal e l'Himalaya? Così, senza approfondire, appiccicandole sullo sfondo, perché ci sta sempre bene che un personaggio vada a cercare sé stesso sulla Dimora delle Nevi.
Per quanto il rapporto fra Pietro e suo padre, un rapporto fatto di troppi silenzi e di rancori mai risolti, sia dipinto con molta onestà, non sono rimasta altrettanto colpita da quello fra Pietro e il suo amico Bruno. Forse perché Bruno non è un personaggio, ma è una sagoma intuibile in poche parole. Bruno è il montanaro, quello che in una giornata non sa dire più di tre parole, quello che non potrebbe vivere in un posto che non sia il suo alpeggio. Punto. Non c'è nient'altro, nessuna caratterizzazione, nessun approfondimento. Come si fa a costruire un rapporto con un personaggio che non è un personaggio, ma un'etichetta?
Non so, ho apprezzato, in certa misura, la conoscenza della montagna di cui Cognetti si fregia, anche se in alcuni punti mi è più che altro sembrato che lui volesse a tutti i costi fare sfoggio del suo bagaglio, della sua conoscenza: in alcuni passaggi si parla di montagna e di quello che concerne la montagna non per esigenze di trama, ma sembra quasi che alcuni brani siano messi lì proprio per dare la possibilità all'autore di far vedere quante ne sa. Penso ad esempio alla scena della costruzione della casa (per un attimo ho temuto davvero che Bruno si lanciasse in una minuziosa descrizione dei calcoli del peso della neve su un tetto) o la descrizione, lunghissima, grafica, noiosissima, della macellazione del daino.
Tutto sommato un libro discreto, che si lascia leggere in un paio di giorni senza troppe difficoltà, ma che svanisce altrettanto rapidamente.
Credo che la scrittura di Cognetti sia decisamente più efficace ed incisiva nelle brevi distanze.
 

estersable88

dreamer member
Membro dello Staff
Questa è la storia di un’amicizia nata per caso o per destino, quella tra Pietro – ragazzo di città viziato e pigro – e Bruno – montanaro dentro e fuori, avvezzo alla fatica, alle ristrettezze e alla solitudine. Ma questa è anche una storia di rapporti difficili, di parole non dette, di incomprensioni non risolte. E poi è una storia di passione per la montagna che, come ci spiega Cognetti tramite Bruno, è un vero e proprio stile di vita che non ha niente a che vedere con lo sci fatto ogni tanto per mero divertimento, ma che invece è fatica quotidiana e bellezza.
Tanti spunti per una bella storia, dunque, Cognetti aveva avuto proprio una bella idea… peccato che, a mio modesto parere, non sia riuscito a concretizzarla al meglio: un libro ben scritto, senza dubbio, ma che non mi ha lasciato molto. Indubbiamente Cognetti conosce la montagna, sa di cosa parla, ma la trama – la storia dei due amici, dell’incomunicabilità e dei rapporti complicati – non brilla per originalità, non decolla mai, non ha quel guizzo che catturi il lettore. Risultato? Un libro discreto che scivola via fra stereotipi e belle descrizioni, ma che non mi ha emozionato.
E ripeto, peccato perché gli elementi per una buona storia c’erano tutti! Non brutto, ma neppure un libro da ricordare. Mi dispiace.
 

RosaT.

Leghorn Member
Di questo libro ho un giudizio doppio ... per quanto riguarda la trama e la storia trovo anche io che sia abbastanza scontata e in alcune parti poco approfondita, per quanto riguarda la parte descrittiva della montagna dell'approccio con essa e delle sensazioni che essa può riuscire a trasmettere l'ho trovato interessante, forse perché amo la montagna, forse perché mi sono ritrovata in alcune riflessioni e approcci con la montagna, forse perché con le parole (che possono essere anche giudicate come un semplice esibire il sapere) Cognetti è riuscito a farmi sentire sulle vette, circondata dalla natura.
La lettura per me è anche questo, viaggiare con il cuore e la mente usando le parole, quindi complessivamente lo trovo un buon libro.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
E' un libro di gradevole lettura con quel tocco di romanzo di formazione e di autobiografismo che lo rende accattivante.
 

Carcarlo

Nave russa, vaffanculo!
Regalo di natale di mia moglie.
Finito di leggere adesso durante la quarantena da Covid.
Sarà che vorrei uscire a camminare nei boschi e oltre ma non posso che sto aspettando che vengano a tamponarmi così mi metto gli scarponi ed esco, ma a me è piaciuto.
La prima parte prende proprio tanto, magari perchè mi prendono sia le storie di ragazzi, sia i contrasti padre / figlio, sia le storie delle nostre montagne.
La seconda parte invece, come muore suo padre, cala tanto di livello, magari perchè del Nepal mi importa assai, magari perchè è un po' scontato, come anche l'inizio ma senza tensione.
La parte che più mi è piaciuta, è la lotta con la vita del padre, ecco, quello mi è piaciuta molto.
Quella tenacia, quella voglia di trovare / fare qualcosa e quindi essere.
Quella l'ho apprezzata molto.

Mio figlio poi, ha letto le prime righe e si è messo a ridere perchè dice che sembra parlino di me....:unsure:
 
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