Pavese, Cesare - Il carcere

Dallolio

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"Il carcere" è un romanzo brevissimo che narra in terza persona il confino dello stesso Pavese in una colonia penale in meridione. Il protagonista, Stefano, scopre così un altro mondo a lui ignoto, accompagnando questa prigionia con una continua riflessione sul concetto di "carcere"; il romanzo è privo di eventi esteriori, ma ha uno stile a mio avviso molto ricco, che riproduce il pensiero e la sua complessità.
La prima tematica alla Pavese è l'incontro tra un settentrionale e un mondo "altro da sè", già presente in "Paesi tuoi", incontro che, in entrambi i casi evolve da una fascinazione al protagonista, alla disillusione progressiva (Paesi tuoi si conclude in una spirale di violenza). Inoltre vi è affrontata la disamina del concetto di carcere, inteso come carcere dalle pareti invisibili (la colonia), carcere vero e proprio (caratterizzato dall'impossibilità di ubriacarsi, ovvero dalla perdita del trascorrere del tempo, che diventa un grigio ripetersi) e un carcere universale, dove il mondo stesso viene visto come una serie ininterrotta di celle.
E' un romanzo che consiglio, in particolare a chi ama questo autore; peccato per la povertà della trama, sebbene utile a mostrare la ripetitività dell'esilio e la sua mancanza di senso.

voto 6/7
 

Masetto

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A me le riflessioni sul concetto di carcere, universale o meno, devono essere sfuggite... :|
In effetti questo libro, come altri di Pavese, m'ha annoiato. Tutt'altra cosa rispetto a Cristo si è fermato a Eboli, dove invece Levi (anche lui confinato) si impegna per capire, integrarsi e cercare di migliorare la vita dei paesani. A Pavese invece sembra interessi solo trovarsi un'amante e andare a caccia. Ma è un po' che l'ho letto, forse ricordo male...
 
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Dallolio

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In effetti l'impegno manca, e io ho apprezzato questo romanzo proprio per questo: non amo il neorealismo di propaganda, perchè spesso c'è l'impegno e salta l'uomo
 

Masetto

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Ho provato a rileggerlo :grin:. In effetti è incentrato sull'idea di carcere nel senso, mi pare, del'incapacità dell'uomo a trovare un rapporto pieno con gli altri, tale da non costringerlo più a volontarie "fughe" nella solitudine. Questo alla prima lettura non mi aveva colpito granchè, ma in realtà nemmeno ora, perchè non è un argomento nuovo e nemmeno mi pare che qui Pavese lo tratti molto in profondità. Per esempio già nelle Operette Morali Leopardi diceva: "Essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o il potere o il confidare di restituirsi alla società degli uomini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a' suoi primi anni. Di modo che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù; o certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera l'immaginazione, e rinnuova nell'uomo esperimentato i beneficii di quella prima inesperienza" e in fondo questo romanzo non mi sembra dica molto di più.
Il protagonista poi è superficiale: con le donne pensa solo al sesso, con gli uomini non parla che delle beghe del paese. Dei suoi studi, della passata militanza politica, di amici e familiari lontani e di una sua qualche filosofia di vita, se pur l'ha, non c'è traccia (e non mi stupisce troppo che lui non riesca a stabilire rapporti profondi con la gente se non gli parla mai di queste cose :???:). Si può obiettare che lì non c'era nessuno con cui potesse parlarne, ma allora la sua solitudine è contingente, può esser dovuta solo al confino, e non è più "esistenziale" come credo volesse rappresentarla Pavese. Se è così, se lui voleva dare un valore "universale" al "carcere", bisognava che ambientasse il romanzo in città, facendo vedere che soprattutto qui il protagonista non riesce a costruire rapporti soddisfacenti con gli altri.

Mi piacciono però alcuni passi, tipo quello verso l'inizio dove parla dell'anfora.

Ma nel complesso in questo libro ho visto più difetti che pregi. Di Pavese preferisco senz'altro La luna e i falò, Tra donne sole, o altri...
 

Dallolio

New member
Secondo me l'universalità della sofferenza sta proprio nella sua superficialità, cioè il protagnonista è superficiale, come dici tu, perchè tutto gli pare inutile e inerte, e secondo me non è solo legato all'evento particolare del confino. Quindi più che altro il carcere se lo costruisce da solo, e proprio perciò la cosa è drammatica e universale, almeno dal punto di vista di Pavese, che in questo romanzo non sembra dare alcuno spazio all'impegno sociale e all'apertura verso gli altri. In effetti non è un tema originalissimo, bella le citazione di Leopardi!
ciao ciao
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Riguardo al romanzo Il carcere ed il rapporto con le donne non dimentichiamoci che Pavese andò al confino per proteggere la sua compagna, che poi lo lascerà in modo molto doloroso per lo scrittore, una costante di Pavese. La ragazza del luogo è sensuale ed istintiva, direi vitale, mentre la fidanzata è passiva e materna, un personaggio da cui Pavese non si è mai sentito attratto, preferendo donne forti e volitive. La solitudine di Pavese è la solitudine dell'intellettuale che si cala in una realtà ma non la sente sua, ne rimane distaccato, la rielabora in un certo senso, non la racconta in presa diretta. Almeno questo è quello che ricordo del Carcere, letto purtroppo mille anni fa!
 

Masetto

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il protagnonista è superficiale, come dici tu, perchè tutto gli pare inutile e inerte, e secondo me non è solo legato all'evento particolare del confino. Quindi più che altro il carcere se lo costruisce da solo, e proprio perciò la cosa è drammatica e universale, almeno dal punto di vista di Pavese
D'accordo, ma allora credo che Pavese avrebbe dovuto spiegare perchè tutto gli pare inutile ed inerte, come è giunto a questa conclusione. Per lui la "delusione esistenziale" è stata un punto d'arrivo, ma qui è posta come punto di partenza (Stefano è da subito presentato come superficiale). Invece le persone "entrano" nella vita adulta piene di speranza e solo in seguito capita che rimangano deluse: ed è come ciò avviene che è interessante, che può avere un valore universale, ma di ciò in questo libro non si parla...

Ma ti starò annoiando con tutte ste obiezioni, forse è meglio che mi fermi :wink:
 

Dallolio

New member
No no anzi mi fa piacere!
Probabilmente secondo me non voleva motivare la sua disillusione esistenziale, proprio per non trovare un'unica motivazione ma per connaturarlo alla vita stessa... Per cui ha trovato opportuno non concentrarsi un minimo sull cause di questo essere atterrito e indifferente verso l'esistenza...
 

velmez

Active member
romanzo sulla situazione e la noia esistenziale, sull'incapacità e i limiti dell'uomo...
concordo in pieno con l'analisi di elisa
mi ha ricordato (anche se con stili differenti) Cristo si è fermato a Eboli, o Il deserto dei tartari...
comunque bello, si legge in 2-3 ore!
 

isola74

Lonely member
Semplice nella trama e nello stile. Credo che fosse proprio questo lo scopo dell'autore, che si limita solo a raccontare un momento della sua vita e lo fa senza fronzoli, così come svogliatamente si aggira in quel paese che non è il suo e che non vuole veramente conoscere.
Non è più in prigione ma non ha davvero lasciato il carcere perché libero non è...tutto, persino il mare si trasforma in parete.
E alla fine andrà via così come è arrivato, senza lasciare una vera impronta se non nel cuore della donna che gli ha reso meno triste la solitudine per un po'.
Non sono rimasta particolarmente colpita da questo romanzo breve di Pavese, ma avrà altre occasioni per farmi ricredere
 

Ondine

Logopedista nei sogni
Pavese ha voluto pubblicare Il carcere, scritto durante il confino, insieme a La casa in collina perché tra i due racconti esiste un'affinità di situazioni e personaggi e il titolo della raccolta dei due racconti è Prima che il gallo canti.
Stefano, il protagonista de Il carcere, ricorda molto lo stesso Pavese durante il confino. Stefano è un ingegnere del settentrione che deve passare il periodo di confino in un paese meridionale dove incontra due donne che avranno un ruolo importante nella sua vita: Elena, che rappresenta la sua condizione di prigioniero essendo una donna remissiva, e Concia, che invece rappresenta la realtà fantastica avendo un comportato più sfrontato. I rapporti con queste due donne rivelano la tendenza alla solitudine del protagonista, la sua incapacità a comunicare. La narrazione è tutta incentrata sulle reazioni del protagonista alla sua situazione di prigionia, sui suoi pensieri, sulle sue emozioni e sui suoi comportamenti, fluttuando così dalla realtà all'immaginazione come per esempio questo passo: Stefano era felice del mare: venendoci, lo immaginava come la quarta parete della sua prigione, una vasta parete di colori e di frescura, dentro la quale avrebbe potuto inoltrarsi e scordare la cella.
Stefano, per difendersi dal senso soffocante della prigionia, si crea una fortezza di immagini sensoriali dentro cui si isola. Le fantasticherie di Stefano (come quando ad esempio sovrappone al corpo di Elena l'immagine sensuale di Concia) rendono fumosa l'atmosfera del romanzo. Mi ha molto colpito il senso di tristezza che invade il protagonista quando non riesce ad evitare i pochi momenti di socialità perché si sente costantemente estraneo a tutto ciò che lo circonda. Il carcere qui non è solo luogo fisico ma soprattutto luogo metafisico, è la fortezza di fantasie che servono al protagonista per evadere dalla realtà.
Mi è piaciuto moltissimo.
 
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