Paradiso e inferno è il primo romanzo che leggo di questo scrittore e l’ho scelto non solo perchè mi è stato consigliato da una persona di cui mi fido, ma anche perchè sono stata in Islanda e mi sono innamorata della sua natura selvaggia e quasi incontaminata. In effetti, a essere vividamente resi non sono tanto i paesaggi, come mi aspettavo, ma la natura stessa, selvaggia e primitiva, di quest’isola.
Qui avviene lo scontro di elementi primordiali: le aspre montagne e il profondo mare, la vita e la morte, l’Inferno e il Paradiso. Mi ha colpito il fatto che il mare stesso sia fonte di vita e portatore di morte: sembra impossibile che proprio i pescatori, che nelle sue acque trascorrono gran parte della loro esistenza, spesso non siano capaci di nuotare e perciò si debbano totalmente affidare alla sorte, o a una fede animista, per tornare sulla terraferma sani e salvi.
Anche nella vita di Bárdur e del suo giovane amico si affrontano due forze opposte: da una parte la dura realtà, il bisogno di sopravvivere, dall’altra l’ambizione a vivere che passa attraverso la passione per la letteratura, piuttosto insolita per un povero pescatore di merluzzi.
“Ci sono parole che hanno il potere di cambiare il mondo, capaci di consolarci e di asciugare le nostre lacrime. Parole che sono palle di fucile, come altre sono note di violino. Ci sono parole che possono sciogliere il ghiaccio che ci stringe il cuore, e poi si possono anche inviare in aiuto come squadre di soccorso quando i giorni sono avversi e noi forse non siamo né vivi né morti. Ma le parole da sole non bastano e finiamo a perderci nelle lande desolate della vita se non abbiamo nient’altro che una penna cui aggrapparci”.
Le parole insegnano a vivere, non bastano però a sopravvivere. Il dramma di Bárdur, che non ha avuto il diritto di scegliere, si riversa sul giovane amico, che vede improvvisamente crollargli il mondo addosso. Cosa fare, allora? meglio la vita o la morte? L’Inferno o il Paradiso? Il suo sarà un viaggio di iniziazione, un vero “percorso di risurrezione” che lo porterà a contatto con qualcosa da cui prima si sentiva quasi estraneo: l’umanità. A parte Bárdur, infatti, il ragazzo non ha più nessuno al mondo; imparerà quindi che le persone esistono e agiscono nel mondo, nel bene e nel male: a volte sembrano tenere in mano il proprio destino, più spesso sono sopraffatte dagli eventi, ma comunque vivono, o sopravvivono. E forse alla fine sopravvivere significa imparare a vivere.
Uno stile molto suggestivo e poetico, che mi ha ricordato Saramago, e che trasmette grandi emozioni. (Non basterebbe una marea di citazioni per dimostrarvelo, per cui leggetelo!)