Solstad, Dag - Romanzo 11, libro 18

Jessamine

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TRAMA:
Arrivato ai cinquant’anni, Bjørn Hansen non può accettare l’idea che tutta la sua vita sia stata dominata dal caso, dal gioco sociale, dalle illusioni su cui ha via via costruito e demolito i castelli delle proprie scelte. Diciotto anni prima ha abbandonato la moglie, il figlio piccolo e una promettente carriera di funzionario statale a Oslo per seguire la sua amante Turid Lammers in una cittadina della Norvegia profonda. Irretito dal fascino dell’avventura, inseguendo un’intensità che aveva potuto intravedere solo nell’arte e nella letteratura, si è ritrovato a fare l’esattore comunale e l’attore di operetta in una compagnia di teatro amatoriale di cui Turid era la star. Poi la stella di Turid si è spenta, la passione per lei è svanita, e l’esattore-attore è rimasto solo con il suo ruolo grottesco di colonna portante della società di provincia. Ma proprio ora che sente il tempo sfuggirgli senza trovare risposta ai bisogni più profondi della sua esistenza, Bjørn Hansen scopre nel dottor Schiøtz il complice ideale per realizzare un piano rivoluzionario: un’azione decisiva e irreversibile con cui potrà esprimere al mondo la sua protesta, il suo rifiuto, «il suo grande No». Indagatore radicale, dirompente e finissimo del vivere contemporaneo, Dag Solstad compone un romanzo esistenziale che ha il fascino ipnotico di Kierkegaard e Camus, e la forza comica e poetica di un cinico irrisolto che non può fare a meno di sondare fino all’estremo la dimensione umana, calandoci in personaggi paradossali in cui ci sorprendiamo a riconoscere una parte di noi stessi.

COMMENTO:
Buttandomi su questo romanzo, ho fatto una cosa che non facevo più da anni: sono entrata in biblioteca, ho visto una copertina che ha attirato la mia attenzione, ho letto un titolo interessante e mi sono portata a casa il libro. Non ho nemmeno letto la quarta di copertina, né prima di prenderlo in prestito, né una volta arrivata a casa, prima di cominciare a leggere.
E' stato un po' un azzardo, ma, dopo tanti anni di wishlist, TBR, libri scelti con cura passando al vaglio delle recensioni di persone di cui mi fido, mi ci voleva un po' quel pizzico di follia per ricordarmi che la lettura è anche (e soprattutto) un modo di intratternermi divertendomi . E poi, dai, va bene il salto del buio, ma con Iperborea si atterra quasi sempre sul sicuro.
Non so bene cosa pensare di questo romanzo, se non che l'ho letto praticamente tutto in un'unica seduta, una domenica pomeriggio. E, per quanto non sia certo un romanzo lunghissimo, per me che al momento ho la stessa soglia di attenzione di un comodino è decisamente significativo.
Avrei voluto scrivere una recensione molto precisa e ragionata su questo romanzo, ma poi ho cominciato a rimandare e rimandare, ed ora mi ritrovo a distanza di qualche settimana a cercare di richiamare alla mente i punti principali di cui avrei voluto parlare, invano (cos'è che dicevo sulla mia capacità di concentrarmi, giusto due righe fa?).
E' difficile raccontare la trama di questo romanzo, perché, in effetti, non succede quasi niente . E quel poco che succede è solo il ricordo un po' asettico di una vita che sembra trascorrere senza lasciare traccia. E quell'altro poco che succede dovrebbe avere una portata sconvolgente, sovversiva, dovrebbe smuovere il lettore e il protagonista, e invece cade un po' in un vuoto indifferente. Eppure, questa che sembrerebbe essere una critica, o una nota negativa, è in realtà quello che mi ha in qualche maniera perversa affascinata. Perché, sì, la scrittura di Solstad, per quanto fredda, lineare e apatica, è estremamente affascinante. E perturbante .
Quasi la metà del romanzo consiste in una lunga digressione sul passato del protagonista, su come abbia abbandonato la moglie e il figlio piccolo per seguire la sua amante in una piccola cittadina, e di come anche questa relazione ad un certo punto, fra la farsa e la tragedia, si sia sbriciolata. Un'altra, consistente parte del romanzo racconta il rapporto (se così lo si può definire) che viene a crearsi tra il protagonista e il figlio ormai ventenne, che si trasferisce dal padre per non doversi cercare una stanza in affitto all'università. Infine, una piccola parte, che quasi passa in sordina, leggera, relegata in un angolo, costituisce il nucleo vero e proprio del romanzo, l'evento portante che dovrebbe portare uno sconvolgimento sia nella vita del protagonista che nella mente del lettore. Eppure, tutto questo non succede, e va bene così. Va bene così perché questo romanzo parla di ottundimento e mancanza di comunicazione, parla dei silenzi della routine, della crisi dell'uomo che, abituato a riempirsi la bocca di individualismo, si ritrova ad essere solo una gocciolina in un immenso oceano.
Non sono certa di aver colto tutti i significati sottesi alla prosa di Solstad, e non sono nemmeno certa che la sua scrittura asettica mi sia piaciuta del tutto, ma ho pianto lacrime amarissime durante la lucidissima disamina del carattere del figlio del protagonista. La sua lenta presa di coscienza, la consapevolezza e l'apatia con cui il protagonista accetta ogni realizzazione sono di una puntualità e di una spietatezza letali, ma mi hanno costretta ad un giro di pensieri che proprio non mi aspettavo. E, credo, ogni cosa che costringa a fare i conti con certi angoli nascosti dell'animo umano è qualcosa per cui vale la pena sacrificare il proprio tempo.
“Romanzo 11, libro 18” è un romanzo particolarissimo, una delle letture più surreali e al tempo stesso estremamente umane che io abbia mai affrontato, e anche se non sono sicura di poterne parlare in termini di “apprezzamento” o “non apprezzamento”, credo di poter affermare con discreta sicurezza di essere felice di aver fatto questo salto nel buio.
 

ayuthaya

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Avrai anche la capacità di concentrazione di un comodino, ma scrivi sempre delle recensioni splendide, Jess... :ad:
 
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