Sundquist, Josh - Insegnami a vedere l'alba

estersable88

dreamer member
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L'amore è più di quel che vedono gli occhi.
Will, pur essendo cieco dalla nascita, decide di frequentare un liceo pubblico, vincendo i timori della madre iperprotettiva. Inizia così un'esilarante
tragicommedia: in mensa si siede sulle gambe di un compagno, una ragazza ha una crisi di nervi convinta che lui la stia fissando... Per riparare, Will
si offrirà di aiutarla a scrivere un articolo su una mostra di Van Gogh: impresa difficilissima, perché a Will mancano totalmente il concetto di prospettiva,
di colore, e Cecil deve spiegargli ciò che vede evitando qualsiasi metafora visiva.
Quando a Will viene offerta la possibilità di affrontare un'operazione sperimentale che potrebbe ridargli la vista, il padre, medico, cerca di dissuaderlo
perché i casi di successo sono rarissimi e le ricadute psicologiche spesso pesantissime. Ma Will decide di rischiare e le conseguenze, seppur inaspettate
e difficili da superare, gli rivoluzioneranno meravigliosamente la vita.

Ecco. Questo è il classico libro apparentemente semplice, ma in realtà complessissimo da analizzare. E’ semplice nella storia, lineare e tutto sommato abbastanza prevedibile; è semplice nel linguaggio che si adatta al protagonista-narratore adolescente; non è semplice, invece, per il tema trattato, la cecità e l’amore, e per le tante sfaccettature che porta con sé.
Will è un sedicenne non vedente che si trasferisce in una scuola pubblica, entrando così per la prima volta in contatto con il mondo dei normovedenti, un mondo completamente diverso dagli ambienti protetti della famiglia e della scuola per ciechi cui è stato abituato finora. Will deve quindi affrontare le difficoltà che astrattamente affronta chiunque si inserisca in un ambiente totalmente nuovo e sconosciuto e, soprattutto, già affiatato: l’atteggiamento scostante o impacciato o perplesso o incredulo o stupefatto degli altri, nonché le proprie personali perplessità o incertezze. Will poi si trova in una fase della vita, l’adolescenza, in cui per natura ci si sente più insicuri e si dà un gran peso a ciò che gli altri pensano/vedono di noi. Il mix di tutte queste variabili lo fa apparire insicuro, a tratti lamentoso, a volte troppo irritabile e fondamentalmente concentrato su se stesso, ma in realtà Will, anche se non ne è consapevole, racchiude in sé tutte le normali caratteristiche di un adolescente medio, a prescindere che sia cieco, sordo, anoressico/bulimico, omosessuale, musulmano o magrebino (sono esempi, tanto per capirci). Infatti, come ogni adolescente medio, ha conflitti con i genitori, ha difficoltà ad entrare in un gruppo, sente i primi bollori del corpo e vive i primi travagli amorosi. Tutto peggiora quando a Will viene prospettata la possibilità di sottoporsi ad un complicato intervento che potrebbe ridargli la vista, ma potrebbe anche non funzionare. In definitiva abbiamo qui un ragazzo normalissimo, con problemi normalissimi, che è sottoposto ad un’ulteriore prova che, a prescindere da come andrà, gli insegnerà tanto su di sé e su chi lo circonda.
Detto questo, alcune considerazioni personali: pur essendo non vedente, quindi conoscendo gran parte delle problematiche riscontrate da Will, quello che dirò si riferisce alla mia esperienza ed al mio sentire personale che certamente differisce da quello di molti altri ciechi per le ragioni più disparate. Ho trovato Will troppo, troppo, troppo concentrato su se stesso e sulla propria cecità; l’idea dell’autore di fargli incontrare il mondo a sedici anni, dopo aver vissuto per tanto tempo nell’ambiente protetto della scuola per ciechi, poi, è comprensibile ma discutibile: personalmente credo che l’approccio sia avvenuto troppo tardi, forse per un bambino sarebbe stato più facile e naturale adattarsi e specularmente lo sarebbe stato anche per gli altri compagni; l’adolescenza è già difficile di suo, non avrei messo sulle spalle virtuali di questo ragazzo tutti questi carichi, sarebbe bastato l’intervento. Senza contare che il distacco in un’età precedente avrebbe reso più sicura anche la madre, davvero troooppo protettiva, ai limiti dell’assillante. Ho trovato carino il personaggio di Cecil, anche se forse conteneva un potenziale non sfruttato al meglio.
Detto questo – e tornando a soffermarci sul libro – credo che sia stato un tentativo riuscito di parlare di cecità, amore, adolescenza senza scadere nel pietismo o buonismo che proprio non ci piace. Il libro, come dicevo, è scritto in un linguaggio semplice, ma si avverte la profonda ricerca fatta dall’autore; è pregevole allo scopo la bibliografia riportata a fine libro. Non è mai facile affrontare temi come questo e direi che, tutto sommato, Josh Sundquist ci è riuscito senza fare troppi danni e risultando anche divertente qualche volta. Già questo è un gran merito.
Consiglio questo libro? Beh, direi di sì, sia a chi è vedente perché certamente scoprirà qualcosa che non sa, sia a chi non vede perché fa sempre bene confrontarsi con esperienze diverse dalla nostra, anche se si tratta di storie inventate.
 
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