Michaels, Leonard - Sylvia

Jessamine

Well-known member
TRAMA
«Un contagio visionario» percorre il Greenwich Village dei primissimi anni Sessanta – la terra di nessuno fra la Beat Generation e i figli dei fiori. E proprio nel cuore del Village, mentre «un bizzarro delirio aleggia nell’aria», una coppia di studenti, imprigionati in una livida ossessione d’amore, sprofonda giorno dopo giorno in un allucinato inferno coniugale. Sotto le loro finestre MacDougal Street è «un carnevale demente», scandito da Elvis Presley e Allen Ginsberg; e intanto la loro folie à deux, «impigliata nel suono delle proprie urla», precipita fatalmente verso un esito devastante. Ispirato alla storia vera del suicidio della prima moglie di Leonard Michaels, Sylvia è uno di quei romanzi che, terrifici nella loro profonda verità, si insinuano quasi inavvertitamente nella mente del lettore – e vi rimangono per sempre.

COMMENTO
Non ricordo perché questo libro sia finito nella mia wishlist: ho proprio un vuoto, il nulla, un immenso spazio bianco. Eppure, per qualche motivo, mi sono decisa a prenderlo comunque in prestito, e a leggerlo. Forse perché la Sylvia del titolo, senza nessun motivo - o forse sì, dato che di affinità credo ce ne siano - mi ha fatto pensare a Sylvia Plath, o forse perché la bellissima copertina Adelphi mi ha fatto pensare al rosso cupo, quasi melodioso, profondo e venato di blu dei mattoni di St. Louis di Harold Brodkey, ma ero davvero convinta che questo piccolo libro di un autore che non avevo mai sentito nominare avrebbe potuto avere molto da dirmi.
Scopro invece che la Sylvia del titolo altri non è che Sylvia Bloch, la prima moglie di Leondard Michaels, morta suicida prima di compiere i venticinque anni. Questo libriccino - che si leggerebbe in poche ore, non fosse per l'angoscia opprimente che costringe a lunghe pause - nasce come memoir, poi rimaneggiato dall'autore per cercare di assomigliare ad un romanzo. Ed è forse proprio questo ciò che mi ha impedito di entrare davvero nelle pagine di questo libro e di lasciarmi andare del tutto alla lettura: che ogni cosa in queste pagine sia estremamente reale, è evidente fin dalle prime righe. Che il dolore, la confusione, il rimpianto e il senso di colpa di chi resta trasudino da ogni riga è lampante. Eppure, ad ogni pagina avevo l'impressione che non avrei dovuto trovarmi lì: questo libro racconta del dolore di Michaels, è il suo modo di venire ai patti con una relazione distruttiva e ossessiva e con un dolore che nessuno vorrebbe mai provare, tanto che il romanzo viene ad assumere una dimensione dualistica: c'è Leonard Michaels e ci sono le sue parole, ma non c'è posto per il lettore. In un certo senso, credo, non può esserci posto per il lettore: Michaels non cerca mai, neppure per un momento, di aprire un po' di più lo spiraglio della sua intimità e dei suoi ricordi per fare posto al lettore, ma resta ripiegato su sé stesso, chino sulle sue parole, chiuso in una spirale discendente. E va bene così, da un memoir del genere non credo si possa pretendere altro, ma allora, mi vien da chiedere, che senso ha fare quel passo in più?
Attorno a pagina sessanta, sono stata tentata di abbandonare la lettura: intendiamoci, ho apprezzato molto la scrittura di Michaels, credo sia un autore di tutto rispetto e forse, tra qualche tempo, proverò anche a leggere qualcuno dei suoi racconti, eppure la lettura di questo romanzo o memoir o qualsiasi etichetta gli si voglia dare mi ha messo talmente a disagio che, probabilmente, se solo avesse avuto qualche pagina in più non lo avrei mai terminato.
Il punto è che pur sapendo dalla quarta di copertina dove sarebbe andato a parare il racconto, non sono mai, mai riuscita ad entrare in empatia con Sylvia, perché la sfera emotiva dell'autore è sempre talmente forte da diventare un filtro capace di appiattire tutto il resto. La loro storia nasce in maniera ossessiva, da una fissazione e un pomeriggio di sesso senza parole, e prosegue in una spirale di odio, nevrosi e ossessioni a dir poco claustrofobico, e tutto quello che avrei voluto fare sarebbe stato prendere i protagonisti e i loro amici e scuoterli per le spalle, urlando loro di correre lontano da quella ferocia distruttiva, di cercare aiuto, di fare qualcosa . Qualcosa che ovviamente non può essere fatto, perché la follia di Sylvia è talmente profonda e distruttiva che fluisce come lava dal suo centro, e si insinua in ogni crepa, distruggendo e corrodendo tutto quello che le sta attorno.
Leggendo, tutto quello che avrei voluto fare era correre il più lontano possibile da questo romanzo, ma al tempo stesso, a distanza di giorni da quando l'ho terminato, la mia mente continua a tornare in quello squallido appartamento al Village, continuo a sentire le grida disperate di Sylvia e i suoi ricatti emotivi, mi rivedo davanti agli occhi il suo sguardo timido nascosto dietro la frangia troppo lunga.
Temo che il fantasma di Sylvia resterà con me ancora molto a lungo, accusandomi di essermi infilata a forza in una storia che, forse, avrebbe dovuto rimanere privata.
 
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