McEwan, Ian - Nel guscio

Jessamine

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TRAMA
La gravidanza di Trudy è quasi a termine, ma l'evento si prospetta tutt'altro che lieto per il suo piccolo ospite. Ad attenderlo nella grande casa di famiglia (e nel letto coniugale) non c'è il legittimo marito di Trudy e suo futuro padre, John Cairncross, poeta povero e sconosciuto, innamorato della moglie e della civiltà delle parole, ma il fratello di lui, il ricco e becero agente immobiliare Claude. Dalla sua posizione ribaltata e cieca, il nascituro gode nondimeno di una prospettiva privilegiata sugli eventi in corso, ed è lui a metterci a parte di una vicenda di lutto e di sospetto dagli echi assai familiari. Certo, la scena non è quella corrotta e claustrofobica del castello di Elsinore. Certo, i due cognati fedifraghi, Trudy e lo zio Claude, non hanno regni nordici cui aspirare. Piuttosto a far gola ai due vogliosi amanti è l'edificio georgiano su Hamilton Terrace, decrepito ma d'inestimabile valore, incautamente ereditato da John, i cui pavimenti luridi e la cui onnipresente immondizia prendono il posto del marcio in Danimarca. Ma amletico è il crimine orrendo che il narratore vede (o meglio sente) arrivare, e amletico è pure il suo inesauribile flusso di pensieri dubitanti, gli stessi che hanno inaugurato al mondo la danza della modernità. Se nel testo shakespeariano l'origliamento, l'atto di spiare e raccogliere informazioni rovistando i recessi e gli anditi del regno, è spesso motore dell'azione, nel guscio l'udito è il senso privilegiato per ragioni fisiologiche, e a essere rovistati a pochissima distanza dal capo dell'inorridito narratore sono spesso e volentieri i recessi e gli anditi del corpo materno. Mentre all'orecchio non sempre affidabile del nostro eroe non-nato si dipana la tragica detective story, nella manciata di giorni che separano il suo «esserci» dal suo protetto «non-esserci» ancora, con il conforto di qualche buon vino giunto fino a lui dalle superbe degustazioni materne, e costantemente edotto sul mondo dai programmi radiofonici di approfondimento culturale che fortunatamente Trudy preferisce a quelli musicali, il nascituro ha tempo di riflettere su di sé, sulla complicata faccenda dell'amore, sul mondo, coi suoi orrori contemporanei e con le sue desiderate meraviglie. Ha tempo e curiosità sufficienti per farsi domande, interpretare i segni della sua realtà mediata, contemplare azioni e concludere che la sua sola salvezza, la salvezza dell'uomo, sta forse nell'esitazione.

COMMENTO
“La vendetta può essere consumata cento volte in una sola notte insonne”
Ho terminato questo breve romanzo diversi giorni fa, ma da allora continuo a rimandare il momento di mettermi seduta al pc e provare a buttare giù un qualche commento. Il fatto è che, nonostante mi renda conto che McEwan sia un autore grandissimo, nonostante abbia messo a fuoco quali siano i punti di forza di questo romanzo e i suoi difetti, l'unica parola che mi si illumina in mente ripensando a “Nel guscio” è NOIA . Noia, e un pizzico di irritazione. Ammetto di essere stata sul punto di mollarlo a metà, ma l'ho terminato semplicemente perché ciò che avrei voluto leggere dopo non mi era ancora arrivato dalla biblioteca.
Mi rendo benissimo conto che liquidare un romanzo del genere come “noioso” è decisamente riduttivo, ma mentirei se eviterei di parlare di tutti gli sbadigli e delle frasi che ho letto rapidamente, solo per arrivare in fondo.
Certo, l'idea di fondo ha un che di geniale, ma su di me non ha fatto granché presa: la voce narrante è quella di un non-nato , come lui stesso si definisce: un feto al termine della gravidanza, che pur essendo ancora nel grembo materno ha una voce forte e chiara, e ci racconta quello che sente e quello che sa sul mondo. E ciò che sente è qualcosa di terribile: sua madre, Trudy, tradisce suo padre con il fratello, Claude, e insieme i due pianificano di uccidere il marito e fratello per potersi appropriare della sua casa. La voce narrante, novello Amleto privato di ogni possibilità d'azione, si ritrova ad interrogarsi sul senso della vendetta, e su cosa significhi essere innocenti quando si è stati spettatori immobili della nascita e della messa a punto di un piano criminoso.
Tutto molto bello, non fosse che qualche anno fa mi ero imbattuta in “Max”, di Sarah Cohen. Le tematiche e lo stile sono totalmente diversi, ma il punto di partenza, l'espediente narrativo che fa ricordare questi due romanzi sono gli stessi: la voce narrante è un feto ancora nella pancia di sua madre, e da quel guscio ovattato ci arriva il suo peculiare racconto sul mondo. Naturalmente i romanzi prendono strade talmente diverse che è impossibile fare un paragone tra i due, ma leggendo le frasi verbose e compiaciute del non-nato di McEwan non potevo fare a meno di pensare a quanto Sarah Cohen avesse reso decisamente più realistico (per quanto un'espressione del genere possa avere senso) il modo di parlare e di ragionare del suo feto.
Perché il non-nato altri non è che un erudito innamorato della sua voce, che sembra lanciarsi in un monologo solipsistico esasperante, infarcito di frasi complesse e perfettamente cesellate, con riflessioni filosofiche del tutto fuori luogo e piene di una saccenza tale che, ad un certo punto, mi sono ritrovata ad empatizzare totalmente con Trudy.
Quel che di interessante c'era nella trama, è naufragato in un mare di divagazioni e riflessioni noiosissime perché del tutto ripiegate su loro stesse, come a voler mostrare quanto il non-nato (o McEwan) ci sappia fare con le parole, quanto sia intelligente e blasé, quante cose sappia del mondo e quante belle opinioni brillanti abbia da dare a chiunque su qualunque argomento. Insomma, alla trentesima descrizione dettagliata del sapore di un particolare vino, la voglia di lanciare il libro dalla finestra per annegare la noia in un bel bicchiere di birra (evidentemente sono troppo rozza per il suo amato vino rosso) era venuta pure a me.
Ho letto da qualche parte che lo stesso McEwan considera questo romanzo una sorta di gioco, una vacanza, un semplice esercizio di stile, e non posso che concordare: l'autore padroneggia la parola scritta come pochi altri al mondo, ma qui la piega ad un mero virtuosismo formale, senza mai spingersi un po' più in là, e questo si sente ad ogni riga.
Ogni riflessione più seria, ogni nucleo di dibattito etico e morale purtroppo è naufragato in un soffocare fatto di frasi perfette e costruite fino all'inverosimile, togliendo al romanzo tutta la forza che sicuramente avrebbe potuto avere.
Forse “Nel guscio” è un romanzo più adatto agli appassionati di McEwan, a chi già lo conosce bene, e vuole lasciarsi andare insieme a lui ad un gioco un po' fine a sé stesso. Per me, che ho letto solo un altro racconto minore dell'autore, è tutto sembrato un po' troppo, e al tempo stesso non abbastanza.
 
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