bouvard
Well-known member
Mi viene difficile scrivere un commento su questo libro perché non sono riuscita a capire quanto mi sia piaciuto e quanto invece mi abbia deluso. E’ sicuramente un libro molto interessante ed originale, però nella parte finale mi ha lasciata perplessa.
Epepe materializza e trascina il lettore in uno dei peggiori incubi letterari. Immaginate di avere una vita soddisfacente, un lavoro che vi piace e nel quale siete competente e apprezzato, una famiglia degli affetti, una vita per certi versi “pianificata” con un’agenda di impegni da rispettare e all’improvviso commettete una piccola, banale distrazione. Come ne capitano tante nella vita di ognuno di noi. Certo sbagliare aereo è un po’ più grave che sbagliare autobus, perché non si può scendere dopo qualche isolato, ma non è di sicuro la cosa più grave e irreparabile del mondo.
E se invece non fosse così? Se fosse davvero la cosa più grave e irreparabile che potesse capitarci? Se quell’aereo ci facesse finire fra persone che non solo parlano una lingua sconosciuta e incomprensibile, ma che non si sforzano minimamente di cercare di capirci, facendo cadere nel vuoto ogni nostro tentativo di comunicazione? Ecco allora che quella piccola distrazione sarebbe l’inizio di un vero e proprio incubo.
Mi ha colpito molto la fiducia di Budai - il protagonista - e la sua estrema razionalità. Non nascondo che io sarei andata nel panico quasi subito, invece lui riesce a conservare il suo sangue freddo – a parte qualche sporadico scatto d’ira, tra l’altro giustificabilissimo - e nonostante tutte le sue idee, tutti i suoi tentativi siano destinati a fallire miseramente non si arrende mai. Il suo tentativo di imparare la lingua locale poi l’ho trovato stupefacente, a me sarebbe sembrata un’impresa talmente difficile che avrei gettato la spugna prim’ancora di iniziare.
Inoltre mi ha colpito l’estrema solitudine che si avverte in questo libro. Nonostante la città sia infatti un formicaio e nonostante tutti i luoghi siano un brulicare continuo di persone è come se ognuno fosse un mondo chiuso, impermeabile agli altri. Tanto che ad un certo punto a Budai viene il sospetto che non ci sia neppure una sola lingua, ma che ognuno parli una “sua” lingua. Perciò quelle che sembrerebbero delle conversazioni sarebbero invece come i “monologhi collettivi” dei bambini in cui ognuno parla da solo.
Le pagine in cui Budai facendo dei numeri di telefono a casaccio trova sempre qualcuno con cui parlare inoltre la dicono lunga su questa solitudine. Soprattutto se si considera l’incomprensione reciproca fra Budai e il suo interlocutore, come se capirsi non fosse la cosa importante, quanto invece il potersi sfogare.
Come dicevo la parte finale non l’ho capita. O meglio non ho capito cosa c’entri con il resto del libro, è quasi come un corpo estraneo, tipo un’ala attaccata sul corpo di un coniglio. Insomma Epepe l’ho trovato un bel libro, ma mi sono chiesta spesso come sarebbe stato se lo avesse scritto un G. Orwell o un R. Bradbury…
Epepe materializza e trascina il lettore in uno dei peggiori incubi letterari. Immaginate di avere una vita soddisfacente, un lavoro che vi piace e nel quale siete competente e apprezzato, una famiglia degli affetti, una vita per certi versi “pianificata” con un’agenda di impegni da rispettare e all’improvviso commettete una piccola, banale distrazione. Come ne capitano tante nella vita di ognuno di noi. Certo sbagliare aereo è un po’ più grave che sbagliare autobus, perché non si può scendere dopo qualche isolato, ma non è di sicuro la cosa più grave e irreparabile del mondo.
E se invece non fosse così? Se fosse davvero la cosa più grave e irreparabile che potesse capitarci? Se quell’aereo ci facesse finire fra persone che non solo parlano una lingua sconosciuta e incomprensibile, ma che non si sforzano minimamente di cercare di capirci, facendo cadere nel vuoto ogni nostro tentativo di comunicazione? Ecco allora che quella piccola distrazione sarebbe l’inizio di un vero e proprio incubo.
Mi ha colpito molto la fiducia di Budai - il protagonista - e la sua estrema razionalità. Non nascondo che io sarei andata nel panico quasi subito, invece lui riesce a conservare il suo sangue freddo – a parte qualche sporadico scatto d’ira, tra l’altro giustificabilissimo - e nonostante tutte le sue idee, tutti i suoi tentativi siano destinati a fallire miseramente non si arrende mai. Il suo tentativo di imparare la lingua locale poi l’ho trovato stupefacente, a me sarebbe sembrata un’impresa talmente difficile che avrei gettato la spugna prim’ancora di iniziare.
Inoltre mi ha colpito l’estrema solitudine che si avverte in questo libro. Nonostante la città sia infatti un formicaio e nonostante tutti i luoghi siano un brulicare continuo di persone è come se ognuno fosse un mondo chiuso, impermeabile agli altri. Tanto che ad un certo punto a Budai viene il sospetto che non ci sia neppure una sola lingua, ma che ognuno parli una “sua” lingua. Perciò quelle che sembrerebbero delle conversazioni sarebbero invece come i “monologhi collettivi” dei bambini in cui ognuno parla da solo.
Le pagine in cui Budai facendo dei numeri di telefono a casaccio trova sempre qualcuno con cui parlare inoltre la dicono lunga su questa solitudine. Soprattutto se si considera l’incomprensione reciproca fra Budai e il suo interlocutore, come se capirsi non fosse la cosa importante, quanto invece il potersi sfogare.
Come dicevo la parte finale non l’ho capita. O meglio non ho capito cosa c’entri con il resto del libro, è quasi come un corpo estraneo, tipo un’ala attaccata sul corpo di un coniglio. Insomma Epepe l’ho trovato un bel libro, ma mi sono chiesta spesso come sarebbe stato se lo avesse scritto un G. Orwell o un R. Bradbury…