Palmen, Connie - Tu l'hai detto

Jessamine

Well-known member
TRAMA
Ted Hughes e Sylvia Plath, la coppia «maledetta» della letteratura moderna, segnata dal suicidio di Sylvia a soli trent’anni nel 1963, ha ispirato ogni sorta di speculazioni e mitizzazioni sulla fragile martire e il suo brutale carnefice. In questo romanzo Connie Palmen dà voce a Ted Hughes e fa raccontare a lui – il poeta, il marito, l’uomo che non può smettere di interrogarsi sulle proprie colpe ma che ha sempre mantenuto un religioso silenzio sulla moglie perduta – la sua verità. Una confessione intima, un incalzante viaggio emotivo che ci risucchia nella spirale di un amore tragico fra due scrittori uniti nel sacro fuoco dell’arte: dal primo folgorante incontro che sembra proiettarli in una sfera magica e rivelarli predestinati uno all’altra, al tempestivo matrimonio, il lungo viaggio nella natura americana, la mondanità letteraria di Londra e l’arrivo dei figli, la brillante carriera di lui e la lotta incessante di lei contro i propri demoni. Sylvia, l’irresistibile enfant prodige delle lettere americane, acuta, passionale, ma in realtà una bambina con l’anima di vetro che chiede aiuto, piena di incubi e paure, capace di vivere solo di assoluti, ossessionata dalle aspettative nei suoi confronti fino a includere anche la maternità nella sua ansia di successo, vittima di una mitologia personale che le impone il sacrificio sull’altare della poesia, il martirio come destino, liberazione e rinascita. Ted, l’intellettuale europeo affascinato dai reami dell’inconscio, che in lei trova una musa e una compagna di vita, che a lei dà tutto se stesso per cercare di salvarla dal suo lato oscuro, ritrovandosi intrappolato in un legame di mutua dipendenza sempre più viscerale, esigente, predatorio, e scoprendosi incapace di starle accanto.

COMMENTO

Faccio molta, molta fatica a provare a scrivere qualcosa su questo romanzo, nonostante di parole affollate nella mente ce ne siano moltissime.
Il fatto è che Sylvia Plath è una scrittrice che apprezzo moltissimo, e la apprezzo, come ho già detto spesso, in maniera del tutto irrazionale. Ho letto per la prima volta “La campana di vetro” in un periodo molto particolare, e, come direbbero altri due grandi autori, il suo romanzo è stato per il coltello con cui ho frugato dentro me stessa. Poi ho letto i suoi diari, li ho letti quando mi sentivo al comando di un'ondata di serenità che raramente ho più riprovato, ed è stata una lettura difficilissima, per tutti i motivi che si possono immaginare. Ma io ero corazzata dalla mia apertura al mondo, dalla mia speranza, dalla convinzione che io, sotto la campana di vetro, forse non ci ero mai stata, e se anche ci ero stata, non ci sarei tornata mai più.
Il libro di Connie Palmen, invece, arriva nel momento sbagliato. O forse quello giusto, dipende dalle prospettive. Da quella dell'autrice, sicuramente quella giusta, perché difficilmente credo che mi dimenticherò le sue parole.
Con il bellissimo dipinto di Jackie Morris in copertina, questo romanzo che non è un romanzo è finito in cima alla lista delle mie letture prima ancora che mi avvicinassi alla quarta di copertina. Quando poi ho messo gli occhi sui nomi di Ted Hughes e Sylvia Plath, ho ringraziato per l'ennesima volta il karma, che mi permette di fare un lavoro dove posso mettere le mani su un sacco di libri, prima ancora di dover litigare con le attese del prestito interbibliotecario.
La scrittura della Palmen mi ha completamente catturata, ma non so se questo sia un suo merito, oppure se l'abilità dell'autrice sia stata solo quella di trascinarmi di nuovo nelle precise atmosfere che emergono dalle poesie della Plath o dal suo diario.
Il libro è davvero bello, la prosa della Palmen è terribilmente curata ed evocativa, ed è quasi impossibile staccarsi dal monologo che ha il sapore di una confessione che la Palmen mette in bocca a Ted Hughes. C'è tanta accuratezza storica, si ritrovano passi del diario ribaltati e ridimensionati con un rispetto che forse non era scontato aspettarsi, e sopra ad ogni cosa c'è un'attenzione commovente alla resa dell'intreccio e della relazione tra Ted e Sylvia.
Nonostante la voce narrante sia quella di Ted Hughes, in questo romanzo che non è un romanzo c'è però Sylvia, solo Sylvia: lei con la sua risata e la sua coda di cavallo ondeggiante, lei con gli occhi febbricitanti d'eccitazione e determinazione, lei infaticabile, innamorata, aperta alla vita. Ma c'è anche Sylvia e il suo Io-Ombra, quel canto di morte che da sempre intreccia la sua voce ai versi di una bambina che non è mai cresciuta, non ha mai smesso di avere incubi sanguinolenti e non riesce a smettere di tremare davanti al buio che, costante, si annida nella sua anima.
Ecco, a tutto questo non ero preparata, nonostante avessi già letto tanto di e su Sylvia Plath.
E' stata una lettura dolorosissima, che mi ha costretto più volte a fermarmi e fronteggiare il fiume in piena del mio stesso Io-Ombra.
E lo so che per tutto questo, in una recensione, non dovrebbe esserci spazio, ma vorrei solo ribadire l'ovvio: si parla di depressione e di suicidio, e lo si fa tanto, andando fino in fondo, scandagliando ogni pensiero. Fa male, e rischia di portare in superficie pattern di pensieri e ragionamenti che non tutti potrebbero avere la voglia (o la forza) di affrontare.
 
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